A Rosarno sette mesi fa la rivolta degli immigrati. Ad ottobre, pare, la nascita di un centro di formazione lavoro per agevolare l’inserimento sociale delle persone immigrate regolari. Lo prevede un progetto presentato dall’amministrazione comunale e approvato nell’ambito del Programma Operativo Nazionale Sicurezza per lo Sviluppo – Obiettivo Convergenza 2007-2013. “Sarà un punto di forza per Rosarno e per lo Stato” dice l’ing. Maria Carmela De Maria, referente del progetto per il Comune. (fonte)
E se gli immigrati hanno una vita d’inferno e pare non “esistano”, delle immigrate cosa sappiamo?Dove sono? Che vita fanno?
Come buone pratiche di cittadinanza propongo una bella intervista a Luisa Cattaneo realizzata da Joan Haim, da UNA CITTÀ n. 157 / 2008 Giugno-Luglio ( fonte)
” “Una cooperativa multiculturale nata dalla volontà di un gruppo di donne della Libera Università delle Donne di Milano che volevano “incontrare” le donne straniere che cominciavano a popolare la città. L’importanza della mediazione culturale, non solo linguistica, per temi come la maternità.
Luisa Cattaneo, psicologa, psicoterapeuta, è socia della Cooperativa sociale multiculturale Crinali (www.crinali.org), con sede a Milano, che promuove la salute psicofisica e la qualità della vita delle donne, attraverso iniziative e servizi nei settori sanitario, psicologico, sociale ed educativo.
Com’è nata la Cooperativa Crinali?
Siamo partite come associazione: eravamo un gruppo di donne che orbitavano attorno all’associazione per una Libera Università delle Donne. Con l’arrivo in città di un primo flusso di donne straniere abbiamo iniziato a interrogarci su come si poteva fare per conoscere ed incontrare queste persone che vedevamo in giro per la strada, che incrociavamo sui mezzi pubblici, ma anche nell’ambito del nostro lavoro. Alcune di noi infatti lavoravano all’interno dei consultori famigliari o dei reparti di maternità di alcuni ospedali e vedevano presentarsi sempre di più straniere soprattutto in occasione della gravidanza. Molto spesso queste donne erano accompagnate da parenti, da mariti e le operatrici, le ginecologhe, le ostetriche avevano delle difficoltà rispetto a queste presenze che magari traducevano, ma che filtravano anche molto la comunicazione e non permettevano un rapporto diretto con le donne.
Di lì a poco abbiamo fatto un seminario su queste tematiche (eravamo nel ’95) e abbiamo deciso di realizzare un progetto di formazione per delle mediatrici linguistico-culturali che potessero essere inserite all’interno dei consultori famigliari e dei reparti di maternità proprio per rispondere a questo bisogno di stabilire una comunicazione che superasse la diversità linguistica e culturale che le operatrici percepivano in modo molto chiaro.
Il progetto sulle mediatrici linguistico-culturali, tra l’altro, prefigurando un futuro inserimento lavorativo, rendeva più facile il coinvolgimento delle potenziali candidate.
Così, grazie a un piccolo finanziamento, siamo partite con questo corso di una decina di mediatrici che venivano da diversi paesi -gli stessi da cui provenivano anche la maggioranza delle utenti dei consultori famigliari.
Successivamente siamo riuscite ad inserirci in un progetto transnazionale, con dei finanziamenti europei, che aveva come tema proprio la definizione del ruolo delle mediatrici linguistico-culturali. E’ stato un percorso importante perché ci ha permesso di confrontarci anche con quello che stava succedendo in altri paesi europei, in particolare con la Francia, con cui abbiamo continuato una collaborazione, ma anche con l’Olanda, il Belgio, la Germania.
L’associazione era stata costituita da un numero abbastanza ristretto di donne italiane; finito il corso di formazione, c’è stata l’esigenza di allargare la base sociale, di far entrare le mediatrici anche all’interno della gestione della struttura. Abbiamo così ritenuto più utile, anche rispetto alle prospettive lavorative, costituire una cooperativa. Questo è accaduto all’inizio del 2000. Inizialmente le donne straniere presenti erano perlopiù le mediatrici culturali, col tempo il gruppo si è allargato aprendosi a un numero crescente di donne provenienti dall’Egitto, dal Marocco, dall’Albania, dalla Romania, e anche dalle Filippine.
Puoi parlarci di questa figura della mediatrice, che tra l’altro è nata in quegli anni…
In effetti noi siamo state tra le prime, non certo le sole però. In quegli anni sono partite iniziative analoghe a Torino, e nella stessa Milano nella cooperativa sociale Kantara. La nostra specificità è stata fin dall’inizio quella dell’attenzione al genere. Essendo un’associazione femminile ci interessava soprattutto il tema delle donne migranti nel nostro paese. Ci è sembrato che, anche rispetto ai temi della maternità e della sessualità, fosse impensabile inserire in un consultorio famigliare o in un reparto maternità un mediatore maschio perché questo contrastava con l’impostazione di quasi tutte le culture da cui provenivano le donne straniere, in cui la maternità è un luogo fondamentalmente di donne. C’è stata una sorta di “métissage” tra la cultura tradizionale delle donne straniere, che dicevano che la maternità e la sessualità sono una questione femminile, e i discorsi degli anni del femminismo, sul fatto che le donne si dovevano riprendere il potere sul loro corpo, sulla maternità, sulle relazioni affettive.
Insomma questo incontro è stato particolarmente prezioso, perché si partiva da presupposti diversi, da storie diverse, dando a questo stesso luogo significati diversi.
In un secondo momento, in accordo con la Asl di Milano, abbiamo avviato un progetto di inserimento delle mediatrici all’interno dei consultori. Dopo una prima fase sperimentale, ormai è dal ’98-’99 che le nostre mediatrici lavorano nei consultori in maniera continuativa, anche se la situazione economica e istituzionale di questa figura è sempre molto precaria, perché si tratta di finanziamenti che vengono rinnovati di anno in anno, vengono dati attraverso convenzioni alla cooperativa da parte dell’Asl. E’ un tema su cui da tempo ci confrontiamo con la Regione e la Asl, ma su cui non si è trovata nessuna soluzione stabile.
E’ un peccato, perché i risultati sono positivi. I centri assistono qualche migliaio di donne ogni anno. Anche sul piano gestionale, ci arrangiamo. L’amministrazione è gestita da una donna che ha le competenze professionali adeguate e che ci mette grande passione. La nostra sede è piccola, siamo ospiti dell’Unione Femminile che però ci mette a disposizione anche spazi più ampi per riunioni o corsi; questo ci aiuta a contenere i costi.
Quello che ci pesa è proprio di essere costantemente in una situazione precaria, perché tutti questi progetti sono legati a finanziamenti annuali e questo a lungo andare diventa molto faticoso perché non si riesce a programmare l’attività della cooperativa né a pensare più in grande, per così dire.
Quante sono le persone che costituiscono la cooperativa?
Siamo circa 25. Poi c’è una rete di collaboratrici esterne che fanno capo alla cooperativa.
Nel 2000, in collaborazione con due ospedali di Milano, il S. Carlo e il S. Paolo, siamo riuscite ad aprire, all’inizio con un progetto regionale, due centri di Salute e Ascolto per le donne immigrate e i loro bambini che si trovano all’interno dei dipartimenti materno-infantili dei due ospedali. Sono gestiti da un’équipe multi-professionale, in cui sono presenti ginecologhe, ostetriche, pediatre, messe a disposizione dall’ospedale. La psicologa, l’assistente sociale, il gruppo delle mediatrici linguistico-culturali sono invece messe a disposizione dalla nostra cooperativa che in questi anni è stata incaricata di occuparsi anche della formazione del personale e di tutta l’équipe e della supervisione.
Già all’interno del progetto europeo ci eravamo rese conto che non bastava inserire nei servizi la figura delle mediatrici culturali, ma che anche gli operatori italiani avevano bisogno di una formazione specifica, che integrasse la formazione professionale nel senso di facilitare il contatto e la comprensione di utenti che portavano un bagaglio culturale di rappresentazioni sulla salute e sulla malattia, sulla maternità, sul parto molto diverso dal nostro.
Alla ricerca di un quadro di riferimento comune abbiamo conosciuto l’équipe di Marie-Rose Moro, una etnopsichiatra che attualmente dirige il servizio di psicopatologia per l’infanzia e l’adolescenza a Bobigny (una “banlieu” di Parigi) che è legato all’università Parigi 13.
Per noi la formazione è molto importante; mensilmente partecipiamo a degli incontri di supervisione con una professionista esterna. Le mediatrici a loro volta organizzano delle riunioni di discussione di casi, di supervisione e di approfondimento teorico a partire dall’esperienza che fanno nei diversi ambiti. Le nostre mediatrici infatti “girano”: fanno alcune ore nei consultori, altre nei centri, altre nella clinica transculturale, hanno quindi bisogno di un luogo dove mettere a punto il tema della loro figura professionale.
Alcune di noi si sono formate in Francia. L’é-quipe della dottoressa Moro è venuta a fare degli incontri non solo presso la cooperativa, ma anche con gli operatori dell’ospedale e dei consultori famigliari.
Tener conto della differenza culturale nell’assistenza alle donne immigrate è un approccio che, se adottato adeguatamente, fa sì che, per esempio, in un reparto di maternità un medico formato alla clinica transculturale sia in grado di capire e interpretare la resistenza di una donna marocchina di fronte alla proposta di un taglio cesareo necessario. In alcune culture il taglio cesareo è infatti considerato una pratica che rischia di far nascere male il bambino, la reazione della donna non va quindi interpretata come atteggiamento retrogrado dettato dall’ignoranza. Il medico, per convincere la donna della necessità dell’intervento, deve essere consapevole di questa cornice, altrimenti la negoziazione non funziona.
La ricetta in fondo è semplice: serve consapevolezza e rispetto.
Questo è un po’ l’orizzonte entro cui si svolgono tutte le nostre attività e i servizi che in questi anni abbiamo gestito.
Come cooperativa infatti abbiamo scelto di non aprire dei servizi “nostri”, ma di muoverci sempre in coordinamento con le strutture pubbliche. D’altra parte noi siamo convinte che siano questi i luoghi deputati ad accogliere le donne migranti. Pensiamo che i servizi pubblici siano un bene prezioso per tutti. Inoltre questo ci permette di sollecitare le istituzioni a favorire sperimentazioni che possano innovare le modalità di lavoro di tutti gli operatori in vari ambiti.
Hai parlato di “clinica transculturale”…
Abbiamo aperto anche un servizio di “clinica transculturale” per la presa in carico psicologica non solo degli individui, ma anche delle famiglie dei migranti perché ci siamo rese conto che i bisogni e la sofferenza sono grandi e coinvolgono anche i bambini. Le problematiche si manifestano soprattutto quando i piccoli cominciano ad andare a scuola. E’ lì che emergono i disagi legati all’appartenenza, alla difficoltà di tenere assieme due mondi e due culture – quella che trovano in famiglia e quella che trovano a scuola. Questo si traduce in difficoltà scolastiche, ma anche di comportamento.
Sempre ispirandoci al servizio di consultazione transculturale della dottoressa Moro, abbiamo avviato questi servizi in città e in provincia. Qui un pomeriggio alla settimana riceviamo le famiglie che ci vengono inviate dai servizi territoriali. E’ un servizio di secondo livello, al quale cioè gli utenti non accedono direttamente: arrivano dal Centro di psicologia del bambino adolescente o dall’Unità tutela minori, piuttosto che dai servizi sociali del Comune.
E’ un dispositivo particolare in cui lavoriamo in gruppo, in genere una decina di persone tra cui ci sono sia psicoterapeuti, sia mediatrici culturali che svolgono una funzione particolare, che non si limita alla traduzione linguistica, partecipando al lavoro collettivo con la famiglia.
E’ un servizio che in città gestiamo in collaborazione con la Asl e in provincia anche con i comuni che gestiscono in proprio dei servizi per la tutela dei minori.
A Milano, per esempio, abbiamo la sede all’interno di un consultorio famigliare messo a disposizione dalla Asl e sono i servizi dell’azienda sanitaria che ci inviano i casi.
Chi ci invia il caso, per esempio la psicologa, partecipa poi alle sedute e diventa quindi parte attiva del lavoro che facciamo con le famiglie.
In questo percorso con le famiglie noi vediamo anche i padri. E’ importante e utile sostenere il loro ruolo e la loro immagine agli occhi dei figli, soprattutto nella fase adolescenziale.
Quali sono le problematiche più frequenti che incontrate?
Io mi occupo di salute riproduttiva, una bruttissima parola che però riassume tutto il tema dell’assistenza alle donne rispetto ai temi della sessualità, della gravidanza, dell’aborto, della contraccezione e anche delle relazioni famigliari intese in senso ampio.
Nei consultori e nei centri (dove lavoro come psicologa) osserviamo che le donne hanno bisogno di essere seguite nella loro gravidanza e nell’accompagnamento al parto; ci sono inoltre molte richieste, in particolare per alcune etnie, di interruzione di gravidanza.
Le donne che incontriamo spesso vivono con grande sofferenza la scelta della migrazione. Parlo di “scelta” a ragion veduta: moltissime donne latino-americane vengono in Italia da sole e la migrazione rappresenta la via d’uscita da una situazione di rapporti famigliari molto difficili, o per un matrimonio problematico o per una separazione o per una vita nella famiglia d’origine molto conflittuale; quindi una fuga non solo da una situazione economica difficile, ma anche da una condizione relazionale di grande malessere. Poi però quando si trovano qui devono far fronte intanto a una grande solitudine e a un forte senso di disorientamento. Non a caso si parla di “trauma” migratorio, nel senso che, a partire dalla lingua, tutti i riferimenti culturali che le donne si portano dentro non sono più in grado di orientarle nel nuovo mondo cui approdano, non riescono più a specchiarsi nella società che le accoglie, e questo rende molto più fragile il loro senso identitario, come pure il loro livello di autostima. Per loro è molto importante avere un luogo in cui degli operatori le accolgano con un rispetto non solo formale.
Altri problemi possono insorgere nel rapporto con i figli neonati in questa terra straniera. Trovare un’ostetrica, un pediatra che si informi su come si fa “da loro” ad addormentare i bambini, a toccarli, a proteggerli, piuttosto che limitarsi a dare rigide disposizioni può essere fondamentale.
Ecco, il fatto di avere dei luoghi in cui si possono confrontare modalità diverse, quella nostra e quella loro, in cui si può discutere tenendo in debito conto anche il fatto che non stanno nel loro paese (pensiamo solo al problema dello svezzamento: qua non si trovano molti degli alimenti che utilizzerebbero) è per queste donne -ma anche per noi- una grande risorsa.
Confrontarsi e inventare delle mediazioni è molto importante anche per il rinforzo di un’immagine di sé positiva e competente, cosa che, indirettamente, ha un’incidenza estremamente positiva sulla relazione tra mamma e bambino. Essere mamma è un pensiero che si costruisce insieme e le donne immigrate, nella solitudine, perdono la capacità di elaborare un pensiero rispetto alla relazione con il bambino, rispetto alle proprie competenze.
Rispetto ai bambini ci sono delle problematiche diverse a seconda dell’età: quando sono molto piccoli, l’obiettivo è quello di stabilire una relazione di attaccamento positiva. Quando invece i bambini cominciano ad andare a scuola, una delle difficoltà che hanno è quella di essere i primi ad affacciarsi in un mondo che conoscono solo loro. I genitori infatti non conoscono l’istituzione scolastica, quindi non possono fare loro da orientatori, da filtro, per cui i bambini si trovano ad affrontare da soli le novità di questo mondo e talvolta sono molto spauriti. Alcuni a scuola non parlano, adottano forme di mutismo selettivo, altri invece sono molto agitati e iperattivi. A volte le difficoltà di apprendimento sono legate all’ambiguità dei messaggi che ricevono dai genitori che, da una parte, vogliono che i loro figli riescano (coronando con un successo la loro storia migratoria) ma dall’altra temono che diventino troppo italiani, trovandosi così degli “stranieri” in casa. La riuscita scolastica, paradossalmente, diventa allora minacciosa. I bambini spesso percepiscono messaggi molto contraddittori che in qualche modo li paralizzano perché avvertono che qualsiasi cosa facciano può essere sbagliata.
In questi casi aiutare le famiglie a rendere esplicite queste paure può essere un’opera preziosa perché rassicura i genitori e solleva i bambini dal peso di aspettative eccessive.
Direi che all’origine di molti disagi, a tutte le età, c’è proprio il filo conduttore di questa necessità di tener assieme due mondi, due culture, cosa che spesso non è facile.
Tanto più che non c’è ancora una sensibilità diffusa rispetto a questo problema, né interventi sufficienti. Da questo punto di vista, la nostra ambizione è anche quella di indicare una strada. Queste pratiche, in fondo, potrebbero moltiplicarsi. In questi anni abbiamo fatto molta formazione agli operatori e ci sarebbe un lavoro enorme da fare rispetto alla presa in carico psicologica di queste persone un po’ in tutti i servizi di base. Alcune di noi stanno lavorando per rendere più adatti a una popolazione multiculturale anche i test, le pratiche diagnostiche, come pure la fisioterapia e la logopedia.” “
(foto da www.crinali.org)