
Queste parole, che non conoscevo (me le ha fatte scoprire mia moglie), sono state pronunciate dal grande attore comico e regista Charlie Chaplin in occasione del suo 70° compleanno, quindi nel 1959. Ma ho letto che si tratterebbe di un’attribuzione erronea. La poesia, il cui titolo originale è “When I loved myself enough”, sarebbe stata scritta da Kim e Alison McMillen nel 2001. Non ho elementi per chiarire il dubbio e in fondo poco mi importa sapere chi sia il vero autore di un testo così bello, profondo e illuminante. Voglio però credere, ignorando ogni cosa di Kim e Alison McMillen, che ad affidarci questo messaggio di speranza sia stato Charlie Chaplin. La sua figura, la sua vita e la sua lezione artistica accreditano tale ipotesi. Il testo non ha bisogno di parafrasi o commenti. Ognuno deve essere libero di leggerlo e rileggerlo senza condizionamenti, cogliendovi l’energia sottile sottesa nelle frasi e persino fra le righe. Mi limito solo a rimarcare che essere autentici, rispettare se stessi, ambire alla maturità, stare in pace con se stessi e gli altri, essere sinceri e semplici, nutrire amor proprio, vivere il momento presente e trovare la saggezza del cuore sono gli ingredienti di una ricetta esistenziale paradisiaca. In ciò, Charlie Chaplin fu maestro. Mi preme, dunque, ricordare la sua figura e la sua straordinaria attualità a trentasei anni dalla morte. Chaplin (1889-1977) è un gigante, prima protagonista indimenticabile del cinema muto e poi autore di oltre novanta film. I suoi personaggi e le sue interpretazioni sono pietre miliari del cinema. Chi non ha sorriso e pianto di fronte a capolavori come Il Monello, La febbre dell’oro, Luci della città, Tempi moderni e Il grande dittatore? E chi non ha scolpito nella sua mente l’espressione ora lieta ora triste di Charlot, il suo personaggio più famoso? Ecco, non si può pensare a Charlie Chaplin senza evocare la figura del “Vagabondo”, quell’omino dignitoso dalle raffinate maniere con cui è quasi inevitabile identificarlo. Il tenero, gentile, poetico Charlot era depositario di una ricetta di vita che dovremmo sforzarci di mettere in pratica. Avvolto nella sua giacchetta troppo stretta, coi pantaloni e le scarpe troppo grandi, la bombetta e il bastone da passeggio in legno di bambù, i baffetti d’antan e l’andatura ondeggiante come quella di un barchino sballottato dai marosi, egli ci invita a vivere con leggerezza e modestia, senza prenderci troppo sul serio. Nello stesso tempo, ci ricorda che per essere sereni (non dico felici, è una parola troppo grossa) bisogna affrontare la vita senza dare troppo peso ai problemi, alle amarezze, alle delusioni “perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi”. Il mondo dello struggente Charlot era pieno di poesia e malinconia. Il suo disincanto è commovente. Sapeva bene che nulla possiamo contro il destino avverso, contro il cuore dei malvagi, contro le ingiustizie del mondo. La sua maschera in chiaroscuro esprime la rassegnazione e insieme la serenità che sopraggiunge quando abbiamo smesso di mangiarci il fegato. L’alienazione umana di cui Charlot è il simbolo finisce per diventare una contromisura al logorio della vita moderna, un rimedio al male del vivere. Che ce ne importa se gli altri sono furbi, avidi, disonesti e mediocri? Noi abbiamo la possibilità di salvarci comunque, grazie alle difese immunitarie del cuore. L’autenticità, il rispetto di noi stessi (e quindi del prossimo), la maturità, la pace interiore, la sincerità, la semplicità, l’amor proprio, la perfezione, la saggezza. Ecco gli strumenti, le armi, il garofano all’occhiello con cui possiamo distinguerci e sopravvivere in un mondo ostile, in cui affermare la nostra purezza interiore. Come Charlot. Ricordiamoci infatti, che dietro la sua aria da perdente si nascondeva un vincitore. La sua ricetta è immortale oltre che universale. Si narra che Chaplin andò alla “prima” americana del suo film Luci della ribaltain compagnia di Albert Einstein. Le cronache riportano che gli spettatori, vedendoli insieme, si alzarono in piedi per applaudirli calorosamente. Allora, Chaplin mormorò alle orecchie di Einstein “Applaudono me perché mi capiscono tutti e applaudono lei perché non la capisce nessuno”. Farsi capire e non farsi capire affatto sono in fondo due facce della stessa medaglia. Ciò che conta è appendersela al collo questa medaglia. Ed è singolare che Charlie Chaplin ci sia riuscito col silenzio. Eroe del muto, Charlot era il genio del silenzio che racconta, comunica, colpisce. Seppe esprimere le mille sfaccettature dell’animo umano meglio di chiunque affidi alla verbosità le proprie ragioni ed emozioni. Un giorno, Chaplin disse che “il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare, forse perché non può essere comprato”. Aggiunse che “i ricchi comprano rumore”.
Non è forse la cifra dei nostri tempi, lo stilema di chi ha potere e successo, degli arroganti e dei prepotenti? A noi, che siamo il nulla, non resta che ascoltare con emozione il silenzio eloquente del mansueto Charlot, una lectio magistralis rotta ogni tanto da esternazioni stupende, come quella che oggi ho scelto di diffondere e commentare. Ma senza retorica, nel rispetto del sorriso dolceamaro di un gentiluomo d’altri tempi.