[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 2/2013, La difficoltà dell'inizio. Il coraggio del primo passo]
La riproduzione fotograica del mondo non appartiene al novero delle felici invenzioni casuali, ma è il risultato di un percorso lunghissimo che si snoda nel corso dei secoli.
Si può dire che le premesse risiedano già nell’antichità: l’uomo ha sempre cercato di riprodurre ciò che vedeva attorno a sé, sperimentando tutte le possibili tecniche suggerite dalla sua inventiva, come del resto ci mostrano già i graffiti preistorici scoperti nelle grotte abitate nel Paleolitico.
I primi studi riguardanti una possibile riproduzione delle immagini attraverso la luce risalgono, però, addirittura ad Aristotele: interessandosi, come tutti i filosoi antichi, anche di problemi oggi considerati di ambito scientiico, egli nota come la luce solare, passando attraverso un’apertura, crei un’immagine circolare, la cui grandezza aumenta proporzionalmente all’allontanamento dall’apertura stessa.
Trascorrono circa millecinquecento anni prima che uno scienziato arabo dell’undicesimo secolo, Alhazen, si dedichi a uno studio approfondito degli effetti dei raggi luminosi, elaborando alcune teorie che il monaco Vitellione tradurrà nell’opera Opticae thesaurus Alhazeni arabis.
Ancora un paio di secoli, e negli scritti di Ruggero Bacone, nel 1267, troveremo tracce di un primo utilizzo di ciò che diventerà la camera oscura, embrione da cui nascerà la macchina fotograica.
Poco dopo, Guglielmo di Saint-Cloud, grazie allo stesso apparecchio, compirà, nel 1292, importanti osservazioni astronomiche, proiettando l’immagine del sole su uno schermo.
Ma cos’è esattamente una camera oscura? Nella sua forma più semplice, che in tanti possiamo ricordare d’aver costruito come esperimento scolastico, si tratta di una scatola chiusa, con un piccolo foro, detto stenopeico (dal greco stenos opaios,
“stretto foro”) su uno dei lati.
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