La risata di bergson
Creato il 12 febbraio 2013 da Giuseppeg
Quando Bergson parlava del riso, nel suo saggio intitolato appunto Il riso (sottotitolo: Saggio sul significato del comico), non poteva non pensare alle signore civettuole della Parigi di fine Ottocento, che affollavano i salotti tappezzati di Monet, Renoir, Caillebotte, Degas. In quei salotti si suonava Debussy, si parlava dell’affaire Dreyfus e di Boulanger, si mangiavano cioccolatini al liquore e si beveva lo champagne. In quegli ambienti raffinati erano proprio le signore a decidere del buono e del cattivo tempo, a stabilire i consensi, a regolare le ascese sociali e i successi mondani. Immaginiamoci allora, in un clima siffatto, l’arrivo di un ingenuo provinciale il quale, ignorando totalmente l’etichetta del bel mondo, incominciasse a sproloquiare e ad atteggiarsi con i modi e con i gesti della società contadina. Cosa sarebbe successo? Forse nessuno lo avrebbe cacciato, non fisicamente almeno. Di sicuro, egli si sarebbe accorto da sé che il suo comportamento non andava, che il suo modo di parlare non era adatto a quella nuova società, e che per questo lo si respingeva, lo si allontanava come un intruso. E in che modo l’avrebbe capito? È presto detto: con il riso delle donne. Ecco allora che Bergson prendeva spunto. Che cosa sarebbe il riso, per il filosofo francese? Un meccanismo spontaneo che ogni società adotta per colpire e correggere chi non si adatta al suo mode de vie, chi si muove goffamente tra le maniere correnti senza trovare mai il ritmo giusto, la giusta armonia. Questa persona ripete continuamente le stesse azioni, compie gli stessi scatti a cui da sempre è abituata senza riuscire ad adeguarsi alle situazioni circostanti e senza fornire le risposte che ci si aspettano da lei. In questa sorta di coerenza esasperata essa trova la sua condanna: fare ridere gli altri senza capirne il perché. Nascono allora i personaggi stereotipati, tipici appunto della commedia: il vecchio avaro, sempre attaccato al denaro e che non sa pensare ad altro, nemmeno quando gli portano via la moglie da sotto il naso; il fanfarone, che continua a crogiolarsi nella sua immagine di sé anche di fronte al fallimento più totale; la bisbetica ingrugnita che brontola senza motivo, anche quando non dovrebbe farlo. La risata ha bisogno di queste tre condizioni:1) anestesia del sentimento in favore dell’intelligenza: non dobbiamo provare nessuna empatia verso colui di cui ridiamo; se provassimo empatia, non rideremmo;2)distacco o indifferenza nei confronti della situazione per cui ridiamo: se la situazione ci coinvolgesse in qualche modo, il nostro riso ne verrebbe compromesso;3) la corporeità della persona oggetto del nostro riso dev’essere predominante: se ci fosse un qualsiasi conflitto attivo fra la sua intelligenza e le esigenze del suo corpo ne potrebbe scaturire il dramma. Ora, va da sé che il genere propizio per suscitare la risata sarà proprio la commedia, l’unica forma che rispetti tutte e tre le regolette di cui sopra. Non soltanto: il personaggio comico accoglie in sé tutte le caratteristiche di meccanicità e inadeguatezza che abbiamo sopra evidenziato, insieme a un’accentuata corporeità dei gesti. Pensiamo per esempio al grande Chaplin, nella fabbrica di Tempi moderni: il personaggio – il suo corpo - ripete meccanicamente a oltranza gli stessi gesti, senza che la sua intelligenza ne venga intaccata. Charlot non si adatta nemmeno al mondo esterno: le sue gag più esilaranti sono infatti sempre nate dal suo essere in ritardo, dal non coincidere col mondo.Arrivati a questo punto, è tempo adesso di tirare le fila. Sappiamo che Bergson appartiene di diritto a quel periodo della storia del pensiero che viene chiamato solitamente con il nome di ‘spiritualismo’: questa corrente presuppone una coscienza contrapposta alla scienza, l’immaginazione e la creatività come veri interpreti del mondo, e li contrappone decisamente al determinismo della materia. In questo clima culturale, la filosofia di Bergson va ben oltre, proponendo l’ipotesi di un’evoluzione creatrice, di un esprit che sia inerente alla materia pur essendone diviso, che dà vita alla sostanza inerte e la trasforma, in un continuo adattamento per la vita e con la vita. All’interno di quest’ottica è l’istinto, appunto, l’adattabilità, l’intuito, l’intuizione che sorvola la materia e che la guida, pur restandovi bloccato. La vita è una forza propulsiva incontrollabile, continuamente cangiante e sfuggente, come un fiume che per scorrere si adegua alla struttura del terreno. Ora, cos’ha a che fare tutto questo con il riso? Vi ricordate le caratteristiche del comico? Bene, vi ricordano nulla? E la nostra intelligenza che sorride, che si prende tranquillamente gioco della corporeità che abbiamo messo in luce sotto tanti aspetti? Stiamo parlando allora – è proprio il caso di dirlo – di una rivincita dell’intelligenza, dello spirito appunto, sull’inadeguatezza del corpo, sulla sua pesantezza e sulla sua meccanicità, così morbosamente legata ai bisogni che, non potendo essere mai soddisfatti, sono per loro natura ciclici e ripetitivi. Tutto il contrario di quello spirito di vita, di quell’estro creatore che cancella in un attimo il determinismo della materia, e cioè lo ‘stile di vita’ che la sostanza inferiore aveva così faticosamente acquisito, incorporato e adottato, senza alcun criterio intellettivo. È così che si è svolta l’evoluzione nella storia: con dei grandi salti, con delle impennate improvvise di genio, che hanno permesso al mondo di superare l’inerzia delle leggi di natura, promuovendone ogni volta di diverse. Abbiamo capito, adesso? Per Henri Bergson, ridere significa riscattare la vita, celebrare il suo riscatto e forse anche la sua vendetta; significa in qualche modo celebrare la nostra libertà, renderla attiva, realizzarla nuovamente sulla terra. A chi è ancorato nelle vecchie disposizioni, noi diciamo: esiste sempre un’altra via! L’intelligenza che ride del corpo, il diritto alla vita che irride ogni suo appiattimento. Fin qui tutto bene, certamente. Tuttavia, fino a quando continueremo a ritenerci estranei? In questa farsa dei corpi, fino a quando non riconosceremo anche il nostro? La vita è una cosa maledettamente seria, infatti. Un organismo compatto che è formato da un unico irrimediabile assemblaggio. E se provassimo a superare il distacco propugnato da Bergson? Forse potremmo avvicinarci ulteriormente alla realtà. E se ricominciassimo – per esempio – proprio dall’autoironia?
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