Veronica Garcia - El recuerdo de la Sombra - Milano - Costantini Art Gallery - Settembre 2012
Narra Plinio il Vecchio, scrittore romano vissuto fra il 23 e il 79 dopo Cristo e autore della monumentale opera di erudizione Naturalis Historia, che la pittura nacque dall'ombra: precisamente, da quelle silhouettes nere che si stagliavano sulle pareti e sulle ceramiche ai tempi degli antichi Egizi e Greci. E in riferimento alle quali proprio i Greci (che, fissati con la mitologia, facevano risalire l'origine della pittura al momento in cui una mano tracciò per la prima volta sul muro il profilo dell'ombra di una persona) parlavano di skiagraphia, pittura d'ombre.
Anche se il rapporto fra pittura e ombra ha conosciuto fasi alterne nel corso della storia, quanto meno della storia dell'arte occidentale (nelle pitture non occidentali l'assenza dell'ombra è pressoché totale, mentre di converso essa si fonde massivamente nelle oscurità della pittura barocca europea), cionondimeno questa "presenza oscura" ha sempre fatto parte del repertorio d'immagini della nostra iconografia e può rappresentare veramente qualcosa che va al di là del mero tabù culturale. Come disse in tempi più recenti Hermann Melville per bocca di Ismaele:
Credo che ciò che chiamiamo la mia ombra sulla terra sia la mia sostanza vera
(Herman Melville, Moby Dick, Adelphi, 1976, cap. VII, pag. 57)
Un assunto di cui troviamo conferma in quel bellissimo componimento poetico di Jorge Luis Borges, Elogio dell'ombra, dove lo scrittore argentino tratteggia l'ombra a rappresentazione del buio della cecità e della vecchiaia:
[...]
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un mite pendio
e assomiglia all'eternità
[...]
Certamente l'ombra paga lo scotto d'essere associata a immagini inquietanti, perché il senso comune circoscrive nell'ombra le trame oscure, le inquietudini e le efferatezze: basti pensare alla celebre locandina del film M., il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang (1931), dove la figura di un'inerme e bionda fanciulla viene sovrastata e quasi schiacciata dalla spaventevole sagoma oscura di un personaggio maligno.
Del resto, l'antico filosofo Platone nel celebre mito della caverna associava l'ombra alla conoscenza ingannevole:
Si immaginino degli uomini chiusi fin da bambini in una caverna sotterranea, incatenati in modo tale da poter guardare solo verso il fondo della caverna. Dietro di loro brilla una luce alta e lontana, e tra la luce e i prigionieri si trova un muretto che corre lungo una strada. Su questa strada passano delle persone che trasportano degli oggetti diversi, [...]. Chi sta nelle caverne, non avendo mai visto l'oggetto reale, crede che l'ombraproiettata sul fondo della caverna sia l'oggetto reale (Platone, Repubblica, VII)
Eppure la nostra cultura ha un debito nei confronti dell'ombra, senza la quale geometria, matematica, geografia e astronomia non si sarebbero mai potute sviluppare secondo le direttive che conosciamo attualmente: gli antichi astronomi per esempio poterono studiare il cielo a occhio nudo provvisti di semplici meridiane. L'ombra è dunque uno strumento utile per conoscere, quasi un' "amica" della ricerca e della conoscenza.
Una atmosfericità, quella dell'ombra come ricerca del sapere e della conoscenza, anche di sé, che pervade concettualmente la produzione pittorica di Veronica Garcia, contrassegnata dal valore simbolico dell'ombra in quanto memoria, compagna di viaggio e di una vita: El recuerdo de la Sombra, Il ricordo dell'ombra.
La sua precedente produzione assorbiva gli umori di una temperie culturale e sociale ben determinata: si pensi ad Abuelas del dolor, tributo alle madri dei desaparecidos argentini, ma anche a opere come , Argentina II, . Dagli anni Sessanta e fino a un periodo relativamente recente l'America Latina è stata infatti una polveriera divisa fra ideologie contrapposte, martoriata da colpi di stato e tentativi di rivoluzione attraversati da una scia di sangue che ha provocato morti e dolore, povertà e lotta. Chi è nato e vissuto in questo contesto sente sulla propria carne la storia degli ultimi decenni e lo vede tutti i giorni lungo le strade e fuori dalle finestre. Una realtà abitata dal dolore che tuttavia Veronica Garcia ha saputo disciplinare mostrandoci la rosa nel deserto, come nella vita che sboccia che dà il titolo all'opera, o nella serafica innocente quotidianità di Vamos de Paseo.
Un'espressività che ora, pur non tradendo la sua origine, si è fatta più intima e autobiografica, costellata di una presenza massiva di elementi eterogenei quali barche, zapatillas, vestiti e manichini e edifici cittadini affastellati come un tetris, elementi tutti caratterizzati da una personalissima collocazione all'interno di un universo di discorso che pare suonare come una melodia rocciosa, vuoi per le campiture graffiate e scabre, vuoi per le scenografie macroscopicamente e volutamente incerte e spaesanti, come una selva di palazzi che crescono su una barca - si veda il quadro dal titolo Navegantes. Il suo repertorio iconografico ha del fanciullesco e il suo segno è volutamente scabro, caratterizzato com'è da un linguaggio schematico e quasi primitivo, ma ciononostante la pittrice argentina riesce ad enfatizzare la pregnanza fisica, quasi vitale, di cose e persone con un tratto che è graffiante, grezzo, ma anche depurato di ridondanze materiche. In modo particolare, la recente serie pittorica di Veronica Garcia insiste sulle figure di imbarcazioni talora affollate di persone e città, talaltra vuote, strettamente connesse alla immagini di vestiti senza corpi che li abitino. Potremmo infatti dire che la barca rappresenta il corpo, mentre l'uomo la casa, la storia, individuando quindi un'intima connessione simbolica fra vestiti senza corpi e barche senza umanità, come ben facilmente si evince nelle opere e Como un fantasma gris da una parte e El recuerdo de la sombra e Los navigantes dall'altra, ma anche nell'opera Ella y el II e nella sintomatica Cerca del alma.
Ricerca dell'anima che è viaggio interiore ma anche storia pubblica, in certo senso, perché Veronica ci parla di sé ma anche attraverso sé: è tutto il popolo latino americano, a stare su un'imbarcazione, nei perigli di una navigazione che lo porta verso una rinnovata civiltà di benessere, mosso da un progetto di liberazione - dalla povertà e dagli eccessi del liberismo capitalista - e traguardando la meta durante il cammino - si veda ad esempio El barquo che camina.
In questo senso, se a una prima lettura può non apparire immediato il riferimento a una temperie storico/sociale determinata, d'altro canto un approccio più ragionato fa riecheggiare sia pure molto indirettamente quei temi della Teologia della Liberazione che ruotano intorno all'idea del cammino di liberazione del popolo, dall'Egitto della povertà al benessere della Terra promessa. E se ad oggi la Teologia della Liberazione è sfumata, rimane tuttavia un'aura di sofferenza - per questo mi par si possa parlare della produzione di Veronica Garcia nei termini di una melodia rocciosa - a ricordare la storia di un popolo e, di riflesso, di una vita: i vestiti senza corpi e il prato color del sangue che danno l'impronta di sé alle opere e Veredas que yo pise I sono lì a ricordarci che l'artista, anche quando parla il linguaggio più intimista, è spettatrice e custode di una memoria che è sua ma anche di tutti.
E sempre attraverso quella stessa dinamica ermeneutica fra prima e seconda lettura è possibile altresì individuare nell'opera della pittrice argentina un canto alla coscienza collettiva, nella fattispecie incarnata in quell'apparato psichico universale che l'analista svizzero Carl Gustav Jung identificò come inconscio collettivo, vale a dire quella serie di elementi simbolici che danno forma e sostanza alla nostra vita onirica e che per il loro valore universale prescindono - anche se da lì partono - dalla connotazione personale investendo noi stessi in quanto specie animale atavica dotata d'anima.
Del resto i riferimenti qui ci sono tutti: vestiti senza corpi e zapatillas a determinare l'assorbimento di un'identità interiore che a dispetto del sé esteriore cangiante e transeunte resta immutabile come il ricordo e fissa come l'ombra, nonché le barche a identificazione del viaggio e della speranza simbolici e reali a un tempo secondo lo schema simbolico testé delineato.
Sono pepite custodite nella memoria nell'anima, materiale emblematico che rende mutevole e talvolta magmatico il nostro cammino qui su questa terra, ma che non altera la nostra immutabile identità interiore e da essa prescinde, secondo quello che potremmo accostare a un afflato universale, uno sguardo che è intimo e pubblico nello stesso tempo, come nei versi di Elogio dell'ombra di Borges:
[...]
Rimangono l'uomo e la sua anima.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che non sono ancora le tenebre.
Buenos Aires,
che prima si lacerava in suburbi
verso la pianura incessante,
è diventata di nuovo la Recoleta, il Retiro,
le sfocate case dell'Once
e le precarie e vecchie case
che chiamiamo ancora il Sur.[...]
Quei cammini furono echi e passi,
donne, uomini, agonie, resurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglia e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e di tutti gli ieri del mondo,
la ferma spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti, il condiviso amore, le parole,
Emerson e la neve e tante cose.
Adesso posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra, alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.