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La rivista Mente&Cervello;: «chi crede in Dio è più sano e felice»

Creato il 22 marzo 2013 da Uccronline

Chiesa messicanaQualche giorno fa discutevo con una collega insegnante, anche lei laureata in psicologia, e mi ha detto: “Non riesco a capire come fai ad aver studiato psicologia e continuare a dirti credente. La psicologia, Freud in particolare, ci ha fatto capire che la religione è una cosa negativa e ansiogena”. E questo sentire è molto diffuso tra gli psicologi nostrani. È vero che Freud, seguito dalla psicologia di buona parte del ’900, aveva una visione pessima del fenomeno religioso, capace (a suo dire) di generare ansia, sensi di colpa, ritualismo…

È vero anche che Freud è morto nel 1939. Da allora, ovviamente, la ricerca psicologica è andata avanti, sviluppando intuizioni e modelli decisamente positivi nei confronti della religione: per esempio l’esperienza di picco di Maslow, la logoterapia di Frankl, la teoria dell’attaccamento religioso di Kirkpatrick, l’intelligenza esistenziale o religiosa di Gardner. E a queste intuizioni va aggiunto il contributo della psicologia comportamentista, il cui frutto più significativo può essere identificato nel Manuale di religione e salute: la metanalisi compiuta su circa 2.800 studi rileva che la religione, in concreto, fa bene alle persone dal punto di vista psicologico, fisico, sociale. Decisamente pertinente, in questo panorama, è l’aforisma di Francesco Bacone: “Poca scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a lui” (Saggio sull’ateismo, 1612).

Un esempio reale e concreto di come si stia attuando finalmente un vero e proprio ribaltamento di paradigma (religione da negativa a positiva) è offerto dal recente numero di Mente e Cervello (marzo 2013), la più diffusa rivista italiana di psicologia. Il dossier Nati per credere contiene due articoli, che vale la pena di analizzare.

Nel primo articolo, Più credenti più sani? di Sandra Upson, l’autrice prende atto del fatto che la religione fa bene alla salute: “Un’ampia massa di ricerche suggerisce che, in confronto alle persone religiose, chi non ha un credo ha meno probabilità di essere sano e felice – certamente le nostre due massime aspirazioni terrene – e tenderebbe a perdere almeno sette anni di vita. Parecchi studi condotti su larga scala hanno confermato la stessa cosa: più ci si impegna in attività religiose e meglio si sta” (p. 25). Un’ammissione che può sembrare sorprendente, tenendo conto che la rivista è pubblicata dallo stesso gruppo editoriale di L’Espresso e La Repubblica, non certo filo-religiosi.

L’autrice però, nel proseguo dell’articolo, cade di fatto in un semplicistico riduzionismo: i benefici della religione vanno ricondotti all’appartenenza a un gruppo sociale coeso. Anche se dice che “i vantaggi della religione non possono essere ridotti solo alle reti sociali che offre” (p. 28), conclude: “Nei paesi meno religiosi – fra cui Estonia, paesi scandinavi, Hong Kong e Giappone – [...] la fede religiosa è bassa ma il morale delle persone è alto” (p. 30); “Una società pacifica e cooperativa, anche senza religione, sembra avere lo stesso effetto” (p. 31).

Certo, uno scienziato – in quanto tale – non può ricondurre gli effetti positivi della religione p.es. ai frutti dello Spirito Santo (amore gioia pace pazienza…). Ma non dovrebbe arrivare a liquidare la religione con un semplice riduzionismo sociale. Far parte p.es. di un gruppo di ultrà sportivi, o di una bocciofila di pensionati, può anche avere risvolti sociali positivi per la persona, ma non è certo un elemento che può avere ricadute positive per la società. E rimanendo agli esempi citati dall’autrice, le nazioni indicate dalla Upson come esempi di “morale alto”, a ben vedere di alto hanno il tasso di suicidio (vedi voce sulla en.wiki): Giappone 21,7; Estonia 18,1; Finlandia 16,8; Hong Kong 14,6; Svezia e Norvegia 11,9; Danimarca 11,3. Come indice di paragone, si pensi ai casi della Spagna (7,6) e dell’Italia (6,4), nazioni tutto sommato religiose a livello popolare.

Nel secondo articolo, Credenti nati di Girotto, Pievani e Vallortigara, gli autori prendono atto del fatto che “migliaia di credi religiosi hanno affollato la storia dell’umanità” (p. 34), e che dunque – volendo usare categorie antropologiche – il sacro è un apriori umano. Tuttavia, proseguendo ancora con un intento riduzionista, gli autori riconducono questa credenza alla facilità dei bambini nel vedere agenti (divinità) dietro a eventi di per sé inerti. Credenza che da adulti si può agevolmente abbandonare (p. 39).

Ma la domanda vera, a cui uno scienziato non può dare risposta, è: vedendo la regolarità e razionalità del cosmo, davvero noi ci inventiamo un Dio inesistente? Non potrebbe essere invece che scopriamo un Dio esistente? È questa la strada – la “via oggettiva” – seguita dalla tradizione cristiana: iniziando dall’Antico Testamento (“tu hai disposto ogni cosa con misura, calcolo e peso”, Sap 11,20; “dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore”, Sap 13,5), passando per Paolo (“le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute”, Rm 1,20), e culminando con le 5 vie di Tommaso, con strascichi significativi nel pensiero di grandi intellettuali credenti come p.es. Galileo, Einstein, Anthony Flew.

Roberto Reggi


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