E’ uno dei miei primi ricordi di cui resta memoria, segno che scavò un suo posto senza bisogno di ragionare. C’era un muro di sacchi di sabbia tutt’attorno la cappella degli Scrovegni. Appena dietro, un lago d’acqua enorme, mai più veduto, che invadeva il teatro dei miei giochi di bambinetto. Con mia nonna, aggirammo il parco, passando sul ponte del corso, guardando attoniti, l’acqua invadeva l’intera luce delle arcate, fin davanti al teatro, sulla riva opposta. Di lì si vedeva l’acqua tracimata, il fiume interno che si era creato invadendo prima la “maresana” e poi le mura. Quelle mura avevano retto alla lega di Cambray ed ora erano impotenti, ma io mica lo sapevo, mi pareva così meraviglioso e naturale che ci fosse tutta quell’acqua grigio/marrone con chiazze arcobaleno, che correva ed allungava le dita, invadendo erba e pietra. Sciacquava piano, senz’onde quasi, e correva dove di solito io correvo, riunendosi più a valle, in posti in cui la nonna non mi lasciava mai andare. Era libera quell’acqua, più di me. Di tutto questo mi è rimasta l’immagine fotografica, il senso di stupore e le parole concitate dei grandi. La sera, a casa, la radio parlava del Po, della preoccupazione che era quasi una invocazione, una preghiera: basta, prima la guerra, poi la miseria di questi anni difficili e ancora disgrazie, basta. Non c’erano punti esclamativi, rassegnazione piuttosto. Quella notte il Po, ruppe, tracimò, invase, uccise, spostò popolazioni già provate in un esodo che per molti non ha avuto ritorno. Si riempirono le campagne e le città, di povera gente, donne, bambini, uomini, per lo più braccianti. Sfollati, loro che avevano accolto durante la guerra, chi fuggiva dalle città, erano adesso, erano ospiti d’altri. Si aprì una catena di solidarietà che coinvolse l’intero paese, anche noi demmo qualcosa, tra poveri ci si capiva allora. Per molto tempo la ferità divenne l’incubo annuale delle piene d’autunno. Poi, come accade per i disastri e le guerre, la memoria degli altri rimosse, coinvolta da nuove sollecitazioni e disgrazie, come se ciascuna disgrazia non fosse un problema a sé. Ne sanno qualcosa gli abitanti dell’ Aquila, che anche senza terremoti scompaiono dall’attenzione comune. A sessant’anni da quella che fu la più grande alluvione del Paese non c’è sicurezza che non possa riaccadere, ma forse non è neppure questo il problema maggiore. La tragedia ulteriore è la rimozione dell’accaduto, del dolore e del rivolgimento sociale che ne conseguette. Molti polesani andarono in Fiat, in Falk, nelle grandi fabbriche del nord, molti diventarono altro da sé, spinti da una forza che non aveva mediazione umana e quello che mi chiedo, anche in questi giorni in cui i giornali non hanno ricordato, e solo radio tre, si è cimentata con l’analisi e la memoria, quanto pesi non avere una memoria collettiva che tenga il disastro e la solidarietà, i singoli e la collettività nel nostro essere uomini. Tutti i giorni uomini, non solo quando qualcosa ci tira per i capelli.
Era il 14 novembre del 1951.
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