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La Russia e il mondo che cambia

Creato il 31 marzo 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La Russia e il mondo che cambia

Dopo Russia, questione nazionale e Unione Eurasiatica e
Vladimir Putin: “La forza come garanzia della sicurezza nazionale russa”, presentiamo ai lettori un altro articolo pre-elettorale di Vladimir Putin, sempre rigorosamente tradotto dall’originale in lingua russa: Россия и меняющийся мир, pubblicato il 27 febbraio 2012 su “Moskovskie Novosti”, sulla “Rossijskaja Gazeta” – Settimana n° 5718 (45) e disponibile anche sul sito personale del Presidente. Si tratta dell’ultimo intervento pubblicato prima delle elezioni del 4 marzo, interamente dedicato alla politica estera russa. La concezione del multipolarismo assume in esso una declinazione programmatica e rivolta alle questioni più attuali: l’intervento NATO in Libia e le pressioni sul governo siriano, condannati come forme di indebita ingerenza esterna; il problema nucleare in Iran e Corea del Nord, da risolversi solo attraverso il paziente lavoro della diplomazia; la centralità dell’alleanza continentale con l’Europa a Occidente e con la “nuova Asia” a Oriente; l’appartenenza al BRICS e l’ingresso nel WTO come stimoli per lanciare la Russia sui mercati mondiali; la volontà di dialogo con gli Stati Uniti, nell’auspicio che essi assumano un atteggiamento più distensivo; la promozione dell’immagine della Russia all’estero, nel quadro di un richiamo generale alla trasparenza sul tema delle attività delle ONG e della promozione della democrazia.

 
Nei miei articoli ho già toccato la questione delle sfide esterne più importanti che oggi la Russia si trova ad affrontare. Ma questo tema merita un’analisi più approfondita, e non solo perché la politica estera costituisce parte integrante di qualsiasi strategia da parte di uno Stato. Le sfide esterne, che trasformano il mondo intorno a noi, ci pongono nella condizione di assumere decisioni nell’ambito dell’economia, della cultura, delle tipologie d’investimento e delle politiche di bilancio pubblico.

La Russia è parte di un grande mondo, tanto da un punto di vista economico che sotto il profilo della diffusione dell’informazione e del rilievo culturale. Noi non vogliamo e non possiamo isolarci. Confidiamo infatti che la nostra apertura offra ai cittadini della Russia una crescita in termini di benessere e di cultura, rafforzando quel sentimento di fiducia che sta diventando una risorsa sempre più carente.

Ma agiremo coerentemente con i nostri scopi ed interessi e non sulla base di decisioni dettate da qualcuno. La Russia è percepita con rispetto e viene presa in considerazione soltanto quando è forte e sta saldamente in piedi. La Russia ha sempre considerato come sua prerogativa la conduzione di una politica estera autonoma. E così continuerà ad essere. Oltretutto io sono convinto che la sicurezza nel mondo può essere garantita soltanto con la partecipazione della Russia, e non cercando di “rimuoverla”, indebolendo cioè le sue posizioni geopolitiche e provocando danni al suo sistema di difesa. I nostri obiettivi di politica estera hanno una dimensione strategica e non estemporanea, e riflettono il posto unico che la Russia occupa nella mappa politica mondiale, il suo ruolo nella storia e nello sviluppo della civiltà.

Senza dubbio proseguiremo in una politica attiva e costruttiva, diretta al rafforzamento della sicurezza globale, nel rifiuto dello scontro, nell’opposizione concreta a sfide quali la proliferazione delle armi nucleari, i conflitti e le crisi regionali e la minaccia della droga. Faremo di tutto affinché la Russia possa beneficiare delle ultime conquiste del progresso scientifico-tecnologico ed i nostri imprenditori rivestano un ruolo importante nel mercato globale.

I nostri sforzi saranno tesi alla formazione di un nuovo ordine mondiale, basato sulle realtà geopolitiche contemporanee, in un processo graduale privo di inutili turbamenti.

Chi attenta alla credibilità

Come in passato, io ritengo che tra i postulati irrinunciabili vadano annoverati l’integrità della sicurezza di tutti gli Stati, l’inammissibilità del ricorso smisurato alla forza e l’osservanza incondizionata dei princìpi fondamentali del diritto internazionale. La loro violazione conduce alla destabilizzazione delle relazioni internazionali.

Proprio attraverso questo prisma noi leggiamo alcuni aspetti della condotta degli USA e della NATO, che non possono essere ascritti alla logica dello sviluppo contemporaneo ed attingono agli stereotipi della contrapposizione fra blocchi. Tutti comprendono a cosa sto facendo riferimento. Mi riferisco all’allargamento della NATO, che include lo schieramento di nuovi avamposti di infrastrutture militari, e ai piani di alleanza (a guida americana) per la costruzione dello scudo anti-missile in Europa. Io non vorrei toccare quest’argomento, se non fosse che questi giochi si svolgono immediatamente a ridosso delle frontiere della Federazione russa, compromettono la nostra sicurezza e lavorano in direzione contraria alla stabilità nel mondo.

La nostra posizione è già ben nota e non vi tornerò sopra insistendovi più di tanto; ma, purtroppo, essa non viene accolta dai nostri partners occidentali, che non la tengono in debita considerazione.

È preoccupante che, malgrado i nostri “nuovi” rapporti con la NATO non siano ancora stati delineati definitivamente, l’alleanza si impegna in atti concreti che certo non facilitano la formazione di un clima di fiducia. A sua volta, un tale comportamento influisce di rimbalzo su questioni di portata globale, complicando la programmazione di un’agenda di lavoro positiva nelle relazioni internazionali e ostacolandone la riformulazione strutturale.

La sequenza di conflitti armati giustificati da scopi umanitari attenta al principio di sovranità degli Stati sancito da secoli. Nelle relazioni internazionali viene così a formarsi un altro vacuum, insieme morale e giuridico.

Spesso viene detto che i diritti umani sono prioritari rispetto alla sovranità degli Stati. E senza dubbio è così: i crimini contro l’umanità devono essere giudicati da un tribunale internazionale. Ma quando nell’applicazione di tale enunciato viene violata la sovranità di uno Stato, quando i diritti dell’uomo vengono difesi dall’esterno secondo criteri selettivi, e quando nello stesso processo di “difesa” vengono violati quei diritti fondamentali di masse intere di persone, incluso quello più sacro e basilare – il diritto alla vita – allora non si tratta di una nobile azione, bensì di bassa demagogia.

È importante che l’ONU ed il suo Consiglio di Sicurezza sappiano contrastare efficacemente il diktat da parte di alcuni Stati e l’arbitrio nelle relazioni internazionali. Nessuno ha il diritto di attribuirsi le prerogative e le credenziali dell’ONU, in special modo per quanto concerne l’uso della forza nei confronti di Stati sovrani. Questo discorso riguarda soprattutto la NATO, che tenta di farsi carico di funzioni che non spettano ad una “alleanza difensiva”. Tutto ciò è assai più che grave. Rammentiamo bene i vani appelli alla norme giuridiche e all’elementare decenza umana di quegli Stati divenuti poi vittime di operazioni “umanitarie” e di esportazione di una “democrazia di missili e bombe”. Nessuno li ha ascoltati e non li ha voluti ascoltare.

Sembra proprio che i membri della NATO, ed in primo luogo gli USA, abbiano sviluppato una loro concezione della difesa che si discosta notevolmente dalla nostra. Gli Statunitensi sono ossessionati dall’idea di garantirsi un’invulnerabilità assoluta: il che, vorrei far notare, è un obiettivo utopico ed irrealizzabile tanto sul piano tecnologico che su quello geopolitico. Ma proprio questo è il nocciolo del problema.

L’invulnerabilità assoluta per uno implicherebbe la vulnerabilità assoluta per tutti gli altri. Partendo da questa prospettiva è impossibile trovare un accordo. Un’altra questione è che molti paesi – per motivi ben noti – preferiscono non parlare apertamente di questo problema. La Russia invece chiamerà sempre le cose con il loro nome e lo farà apertamente. Ancora una volta ci tengo a sottolineare che la violazione del principio di unità ed integrità della sicurezza – malgrado le ripetute dichiarazioni di impegno a rispettarlo – è densa di pericoli gravissimi. In ultima analisi, lo è anche per quegli Stati che per ragioni diverse danno luogo a tali violazioni.

“La primavera araba”: lezioni e conclusioni

Un anno fa il mondo si è trovato davanti un fenomeno nuovo: in molti Paesi arabi si sono avute, in modo quasi sincronico, manifestazioni contro regimi autoritari. Inizialmente la “primavera araba” è stata percepita con la speranza di cambiamenti positivi. E le simpatie russe erano dirette verso coloro che auspicavano riforme democratiche.

Tuttavia è divenuto presto evidente che in molti Paesi gli avvenimenti stavano evolvendo in una cornice tutt’altro che civile. In luogo dell’affermazione della democrazia, in luogo della difesa dei diritti delle minoranze si è fatta strada la cacciata del nemico, il suo rovesciamento, allorquando il dominio di una forza viene sostituito dal dominio di un’altra ancora più aggressiva.

All’evoluzione negativa della situazione ha contribuito l’ingerenza esterna in sostegno di una delle fazioni impegnate nel conflitto interno, nonché dalla natura di forza che ha assunto tale ingerenza. Al punto che una serie di stati, sotto la copertura di slogans umanitari, col sostegno dell’aviazione sono arrivati a spartirsi la Libia. L’apoteosi di tutto ciò è stata raggiunta da quella scena rivoltante, che più ancora che medievale andrebbe definita come trogloditica, dell’uccisione di Gheddafi.

Non si può accettare che qualcuno tenti di realizzare lo “scenario libico” in Siria. Gli sforzi della comunità internazionale devono essere diretti in primo luogo al raggiungimento di una riconciliazione interna tra i Siriani. È importante ottenere una rapida cessazione della violenza, da qualunque parte essa provenga, ed avviare poi un dialogo nazionale senza precondizioni ed ingerenze straniere nel rispetto della sovranità del Paese. Ciò creerà i presupposti necessari affinché le misure di democratizzazione annunciate dalla dirigenza siriana vengano realmente attuate. La cosa più importante è impedire il deflagrare di una guerra civile di ampia portata. In questa direzione ha lavorato e continuerà a lavorare la diplomazia della Federazione russa.

Resi avvezzi da un’amara esperienza, noi siamo contrari all’adozione di alcune risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che potrebbero fungere da preludio all’ingerenza armata nelle questioni interne siriane. Motivata proprio da quest’approccio di principio, la Russia ha impedito, insieme alla Cina, l’adozione della risoluzione di inizio febbraio, che sarebbe stata interpretata in modo ambiguo e nella pratica avrebbe incoraggiato azioni violente da parte di una delle fazioni impegnate nel conflitto interno.

A tal proposito, e vista la durissima reazione – al limite dell’isteria – al veto russo-cinese, vorrei dissuadere i nostri colleghi occidentali dalla tentazione di ricorrere a quello schema semplicistico già usato in passato, e cioè: se abbiamo la risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU per questa o quell’azione, bene; se non l’abbiamo, mettiamo in piedi una coalizione di Stati interessati. E andiamo all’attacco.

La logica intrinseca a questo comportamento è controproducente ed estremamente pericolosa. Essa non conduce a nulla di buono. In ogni caso non facilita la soluzione del problema nel Paese che sta vivendo il conflitto interno. E, ciò che è peggio, essa provoca un ulteriore sbilanciamento di tutto il sistema della sicurezza internazionale, minando l’autorità ed il ruolo centrale delle Nazioni Unite. Voglio ricordare che il diritto di veto non è un capriccio, bensì un elemento costitutivo dell’ordine mondiale, sancito dalla carta dell’ONU oltretutto su insistenza degli Stati Uniti. Il senso di questa norma è che una decisione contro la quale si esprima almeno un membro permanente del Consiglio di Sicurezza non può dirsi fondata ed efficace.

Spero vivamente che gli USA ed altri Paesi tengano conto della triste esperienza passata e non provino ad avviare un’operazione di forza in Siria senza una delibera del Consiglio di sicurezza dell’ONU. In linea generale non riesco neanche a capire da dove provenga tutta questa smania battagliera. Perché non avere la pazienza, invece, di elaborare un approccio comune e ponderato, che a maggior ragione nel caso del summenzionato progetto di “risoluzione siriana” si era praticamente già delineato. Restava solo da avanzare all’opposizione armata le stesse richieste fatte al governo, in particolare di ritirare i reparti e le unità di combattimento dalle città. È cinico rifiutarsi di agire in questo modo. Se davvero vogliamo garantire la sicurezza della popolazione civile – che per la Russia rappresenta l’obiettivo primario – allora è necessario riportare alla ragione tutti i partecipanti al conflitto armato.

E voglio sottolineare ancora un altro punto. In quei Paesi che vengono attraversati dalla “primavera araba”, come d’altronde era già accaduto in Iraq, capita che le aziende russe perdano quelle posizioni nei mercati locali acquisite nel corso di decenni, venendo private di contratti commerciali abbastanza importanti. E queste nicchie vacanti vengono occupate poi da operatori economici provenienti da quegli stessi Stati che hanno dato una mano al cambio di regime.

Può sorgere l’idea che in certa misura gli stessi tragici avvenimenti siano quindi provocati non dalla preoccupazione per i diritti dell’uomo, bensì da un qualche interesse ad una nuova spartizione di mercato. Come che sia, noi non possiamo certo limitarci a contemplare tutto ciò con serenità olimpica. Siamo anzi intenzionati a lavorare attivamente con i nuovi poteri nei Paesi arabi, al fine di recuperare operativamente le nostre posizioni economiche.

Nel complesso, ciò che sta accadendo nel mondo arabo è altamente istruttivo. Gli avvenimenti mostrano con chiarezza che lo sforzo di introdurre la democrazia con l’ausilio della forza può condurre, e spesso effettivamente conduce, al risultato diametralmente opposto. Dal fondo sono emerse delle forze, ivi compresi gli estremisti religiosi, che tentano di imprimere un cambio di marcia allo sviluppo di quei Paesi e alla natura laica del loro sistema di governo.

Noi in Russia abbiamo sempre avuto buoni contatti con i rappresentanti dell’Islam moderato, la cui visione del mondo è vicina alle tradizioni degli stessi musulmani russi. E siamo pronti a sviluppare questi contatti anche nelle condizioni presenti. Siamo interessati ad intensificare i legami politici ed economico-commerciali con tutti i Paesi arabi, compresi – ci tengo a ripeterlo – quelli che stanno attraversando un periodo di turbolenze interne. Oltretutto vedo anche i presupposti affinché la Russia mantenga pienamente le sue attuali posizioni nell’area vicino-orientale, dove abbiamo sempre avuto molti amici.

Per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano, finora non è stata trovata nessuna “ricetta magica” in grado di risolvere definitivamente la situazione. In alcun modo ci si deve però rassegnare. Considerati, in particolare, i nostri rapporti privilegiati con il governo di Israele ed i rappresentanti palestinesi, la diplomazia russa continuerà a promuovere attivamente – su base bilaterale e nell’ambito del “quartetto” per il Vicino Oriente – la ripresa del processo di pace, coordinando le sue mosse con la Lega degli Stati Arabi.

La “primavera araba” ha anche dimostrato il ruolo delle avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione nella formazione dell’opinione pubblica. Si può dire che Internet, i social networks, i telefoni cellulari etc. si sono trasformati – assieme alla televisione – in autentici strumenti di politica interna ed internazionale. È un fattore nuovo, che necessita di essere compreso a fondo, anche al fine di promuovere ulteriormente quella straordinaria libertà di comunicazione che c’è in Internet e ridurre il rischio che esso possa essere sfruttato da terroristi e criminali.

Vent'anni di Russia: il primo numero di Geopolitica
Si usa sempre più spesso il concetto di “soft power” per indicare quel complesso di strumenti e metodi atti al raggiungimento di obiettivi di politica estera senza l’uso delle armi, utilizzando l’informazione ed altre leve d’influenza. Purtroppo non di rado questi metodi vengono adoperati per coltivare e provocare l’estremismo, il separatismo, il nazionalismo, la manipolazione dell’opinione pubblica, l’ingerenza diretta nella politica interna di Stati sovrani.

Bisogna distinguere con chiarezza la libertà di parola e la normale attività politica dall’utilizzo illegittimo degli strumenti di “soft power”. Non si può che accogliere come benvenuto il lavoro civile di organizzazioni umanitarie e filantropiche non governative. Anche di quelle che intervengono criticando attivamente i poteri vigenti. È però inaccettabile l’attività delle “pseudo-ONG” e di quelle altre strutture che tramite sostegno esterno perseguono la destabilizzazione di questi o quei Paesi.

Mi riferisco a quei casi in cui l’attività di organizzazioni non-governative non si sviluppa a partire dagli interessi (e dalle risorse) di gruppi sociali locali, ma viene finanziata e supervisionata da forze esterne. Nel mondo contemporaneo ci sono molti agenti d’influenza di grandi Stati, gruppi di interesse, corporazioni. Quando agiscono in modo trasparente, essi svolgono semplicemente una forma di lobbismo civile. Anche in Russia abbiamo questo tipo di istituti: Rossotrudničestvo, la fondazione Russkij mir, le nostre principali università che allargano all’estero la ricerca di candidati di talento.

Ma la Russia non si serve delle ONG nazionali di altri paesi, non finanzia queste ONG, organizzazioni politiche straniere, per sostenere i propri interessi. E non lo fanno neanche la Cina, l’India o il Brasile. Noi riteniamo infatti che l’influenza sulla politica interna e sugli umori dell’opinione pubblica di altri Paesi debba essere realizzata esclusivamente in modo dichiarato, ed allora tutti gli attori avranno un atteggiamento pienamente responsabile verso le proprie azioni.

Nuove sfide e minacce

Attualmente i riflettori sono puntati sull’Iran. Senza dubbio la Russia è preoccupata dalla crescente minaccia di intervento militare contro questo Paese. Qualora ciò accadesse, le conseguenze sarebbero davvero catastrofiche. Ma è impossibile prevederne la reale portata.

Sono convinto che si debba risolvere la questione soltanto in modo pacifico. Noi proponiamo di riconoscere all’Iran il diritto allo sviluppo di un programma nucleare civile, che include il diritto all’arricchimento dell’uranio. Ma proponiamo di farlo in cambio di una dichiarazione precisa su tutta l’attività nucleare iraniana, sotto il totale ed affidabile controllo dell’AIEA. Se questo accadrà, saranno nulle tutte le sanzioni attualmente in vigore contro l’Iran, comprese quelle dichiarate unilateralmente. L’Occidente si è troppo appassionato a “castigare” alcuni paesi. Appena sorge un problema, si fa appello alle sanzioni o persino ad alleanze militari. Voglio ricordare che non siamo più nel XIX secolo e in realtà neppure nel Ventesimo.

Un problema non meno serio è quello che va creandosi intorno alla questione nucleare coreana. Pyongyang, violando il regime di non-proliferazione nucleare, dichiara apertamente le sue pretese circa il diritto di possedere la “bomba atomica” e già due volte ha condotto test nucleari. Per quanto ci riguarda, uno status nucleare della Repubblica Democratica Popolare di Corea è per noi inaccettabile. Continuiamo a sostenere la denuclearizzazione della penisola coreana, da attuarsi esclusivamente attraverso mezzi politici e diplomatici, e faremo appello per un’immediata ripresa dei colloqui a sei.

Tuttavia, a quanto pare non tutti i nostri partners condividono questo approccio. Sono convinto che qui occorra manifestare la massima cautela. Tentativi di mettere alla prova la forza del nuovo leader nordcoreano sarebbero inammissibili e, oltretutto, provocherebbero contromisure sconsiderate.

Ricordo a tutti che la Russia e la Repubblica Democratica Popolare di Corea sono Paesi confinanti e, com’è noto, i vicini non si possono scegliere. Noi proseguiremo un dialogo attivo con la dirigenza di questo Paese, svilupperemo relazioni di buon vicinato, inducendo però al contempo Pyongyang ad una risoluzione del problema nucleare. È evidente che ciò potrà essere realizzato con più facilità se sulla penisola coreana andrà rafforzandosi un clima di fiducia reciproca e verrà ripreso il dialogo tra le due Coree.

Sullo sfondo delle passioni suscitate dai programmi nucleari di Iran e Corea del Nord immediatamente viene da pensare all’insorgere dei rischi di diffusione dell’arma nucleare ed a chi è capace di aggravarli. Vi è la sensazione che i frequenti casi di grossolana e aggressiva ingerenza dall’esterno nelle questioni interne di altri Paesi possano indurre questi o quei regimi autoritari (e in realtà non solo essi) a dotarsi dell’arma nucleare. Così, se per esempio ho una bomba atomica in tasca nessuno mi toccherà, perché gli costerebbe caro. Invece chi non la possiede si aspetti pure il suo intervento “umanitario”.

Può piacerci o meno, ma che l’ingerenza esterna spinga ad un ragionamento di questo tipo è un fatto. È per questo che i cosiddetti paesi “sulla soglia”, quelli che cioè si trovano a due passi dalla tecnologia del “nucleare militare”, non diminuiscono ed anzi aumentano. In queste condizioni assumono invece un valore aggiunto quelle zone del mondo libere da armi di distruzione di massa. Su proposta della Russia ha avuto inizio un lavoro di discussione sui parametri di tale zona in Vicino Oriente.

Occorre fare tutto il possibile affinché in nessuno sorga la tentazione di acquisire l’arma nucleare. A tal fine è necessario un diverso atteggiamento da parte degli stessi partigiani della non-proliferazione, soprattutto di quelli che sono abituati a punire altri Paesi con l’ausilio della forza militare, impedendo alla diplomazia di svolgere il proprio lavoro. Così, per esempio, è accaduto in Iraq, dove dopo quasi un decennio di occupazione i problemi si sono soltanto esacerbati.

Se alla fine si riuscisse ad eliminare alla radice quegli impulsi che spingono gli Stati a dotarsi dell’arma nucleare, sarebbe allora possibile, sulla base degli accordi vigenti, costruire un regime internazionale di non-proliferazione che sia veramente forte e universalmente valido. Uno scenario di questo tipo consentirebbe a tutti i Paesi interessati di sfruttare appieno i benefici dell’atomo “civile” sotto il controllo dell’AIEA.

Per la Russia ciò sarebbe estremamente vantaggioso, considerato che lavoriamo attivamente sui mercati internazionali, costruiamo nuove centrali elettronucleari servendoci delle moderne e sicure tecnologie, prendiamo parte alla creazione di centri multinazionali per l’arricchimento dell’uranio e di banche di combustibile nucleare.

Desta preoccupazione il futuro dell’Afghanistan. Com’è noto, noi abbiamo sostenuto l’operazione militare per la fornitura di aiuti internazionali a questo Paese. Ma il contingente internazionale militare sotto l’egida della NATO non è riuscito a realizzare gli obiettivi fissati. La minaccia terroristica e quella relativa alla droga, proveniente dall’Afghanistan, non accennano a diminuire. Dopo aver annunciato il ritiro dal Paese nel 2014, gli Statunitensi stanno costruendo lì e negli Stati vicini basi militari senza che via sia un mandato preciso, né obiettivi e scadenze relativi al loro funzionamento. Ciò, ovviamente, non può farci piacere.

La Russia ha degli evidenti interessi in Afghanistan. Interessi perfettamente comprensibili. L’Afghanistan è un nostro vicino prossimo ed è nostro interesse che esso si sviluppi in modo stabile e pacifico. Ma, soprattutto, che cessi di essere la fonte principale della minaccia della droga. Il traffico illegale di stupefacenti è divenuto infatti una delle minacce più serie, in grado di minare il pool genico di intere nazioni, creare il terreno fertile per corruzione e criminalità e condurre alla destabilizzazione della situazione nello stesso Afghanistan. Voglio far notare che la produzione di droghe afghane non soltanto non va riducendosi, ma nell’ultimo anno ha conosciuto un incremento di quasi il 40%. La Russia si trova così ad affrontare una vera e propria invasione di eroina, che causa gravi danni alla salute dei suoi cittadini.

Tenendo conto delle proporzioni della minaccia della droga afghana, per farvi fronte occorre il sostegno di tutti, attraverso organizzazioni quali l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai e la Comunità degli Stati Indipendenti. Noi siamo pronti a prendere in considerazione un’effettiva intensificazione del contributo della Russia alle operazioni di aiuto al popolo afghano. Ma solo a condizione che il contingente internazionale operi più energicamente ed anche nei nostri interessi, procedendo alla distruzione fisica delle piantagioni di droga e dei laboratori clandestini.

Il rafforzamento delle misure antidroga all’interno dell’Afghanistan deve essere accompagnato dallo sbarramento degli itinerari di trasporto dell’oppio verso i mercati esteri, dal blocco dei flussi finanziari che ne consentono il commercio, dalla chiusura delle forniture di sostanze chimiche utilizzate nella produzione di eroina. L’obiettivo deve essere la costruzione di un complesso sistema regionale di sicurezza antidroga. E la Russia contribuirà all’efficace unione di forze della comunità internazionale, per arrivare ad un punto di rottura radicale nella lotta al narcotraffico globale.

È difficile pronosticare come evolverà la situazione in Afghanistan. L’esperienza storica insegna che la presenza militare straniera non ha mai condotto alla pacificazione. Soltanto gli Afghani potranno risolvere i propri problemi. Io vedo il ruolo della Russia nel quadro di attiva partecipazione dei Paesi vicini, per aiutare il popolo afghano a costruire un’economia stabile e potenziare le capacità delle forze armate nazionali nel contrasto alle minacce del terrorismo e del narcotraffico. Noi non siamo contrari ad un processo di riconciliazione nazionale che veda la partecipazione dell’opposizione armata, Talibani inclusi: a condizione che essi rinuncino alla violenza, riconoscano la costituzione del paese e rompano ogni legame con Al Qaeda ed altre organizzazioni terroristiche. In linea di principio, credo che la costruzione di uno Stato afghano pacifico, stabile, indipendente e neutrale sia pienamente realizzabile.

L’instabilità congelata per anni e decenni costituisce un terreno fertile per il terrorismo internazionale. E tutti riconoscono che quest’ultimo è uno dei più seri pericoli per la comunità mondiale. Voglio concentrare l’attenzione sul fatto che le zone di crisi, da cui nascono le minacce terroristiche, si trovano tutte in prossimità dei confini della Federazione russa: molto più in prossimità rispetto ai nostri partners europei o americani. In sede ONU è stata adottata una strategia antiterroristica globale, eppure si ha l’impressione che la lotta contro questo flagello venga ancora condotta non secondo un unico piano comune, non in modo coerente, bensì in un contesto di reazione alle manifestazioni più acute e barbariche del terrore: quando cioè l’indignazione pubblica per gli spudorati atti dei terroristi va fuori controllo. Invece il mondo civile non deve stare ad aspettare tragedie del calibro dell’attacco terroristico a New York dell’11 settembre né una nuova Beslan, per poi dopo, sull’onda della scossa emotiva, agire collettivamente e con decisione.

Sono lungi dal voler negare i risultati ottenuti nella lotta al terrore internazionale. I risultati ci sono. Negli ultimi anni si è notevolmente rafforzata la collaborazione tra i servizi di intelligence e le forze di polizia di diversi Paesi. Ma non mancano certo le riserve nella collaborazione antiterrorismo. Che dire, finora persiste quell’atteggiamento del “due pesi e due misure”, per cui a seconda del Paese i terroristi vengono percepiti in modo differente: come quelli “cattivi” e quelli “non così cattivi”. E qualcuno non disdegna di servirsi di questi ultimi nella competizione politica, per esempio per indebolire quei governi al potere giudicati sgraditi.

Voglio anche dire che nella prevenzione del terrorismo in ogni parte del mondo dovrebbero essere coinvolte tutte le istituzioni sociali: i mass media, le associazioni religiose, le ONG, il sistema d’istruzione, la scienza e l’imprenditoria. È necessario un dialogo interconfessionale e, su un piano più ampio, un dialogo fra civiltà. La Russia è uno Stato multiconfessionale che non ha mai conosciuto guerre di religione. Per questo potremmo offrire il nostro contributo al dibattito internazionale su questo tema.

L’avanzamento di ruolo della regione Asia-Pacifico

Il nostro Paese confina con il più importante centro dell’economia globale: la Cina. È ormai divenuto di moda parlare del suo futuro ruolo nell’economia mondiale e negli affari internazionali. L’anno scorso i Cinesi hanno raggiunto il secondo posto al mondo per volume di PIL e già nel breve periodo, secondo esperti internazionali (inclusi quelli americani), supereranno gli Stati Uniti in questo indicatore economico. E cresce anche la potenza complessiva della Repubblica Popolare Cinese, compresa la sua capacità di dispiegamento di forze in varie regioni.

Che condotta dobbiamo assumere rispetto al fattore cinese, che si rafforza così dinamicamente?

In primo luogo, sono convinto che la crescita dell’economia cinese non rappresenta affatto una minaccia, bensì una sfida, che reca in sé un enorme potenziale in termini di cooperazione commerciale: la possibilità di gonfiare le “vele” dell’economia russa grazie al “vento” cinese. Dobbiamo istituire più attivi legami di cooperazione, unendo le capacità tecnologiche e produttive dei nostri Paesi, sfruttando – con intelligenza, ovviamente – il potenziale cinese per l’ascesa economica della Siberia e dell’Estremo Oriente.

In secondo luogo, per l’atteggiamento che tiene nell’arena internazionale la Cina non offre pretesti per parlare di mire egemoniche. La voce della Cina risuona nel mondo con una sicurezza sempre maggiore e noi salutiamo ciò favorevolmente, poiché Pechino condivide il nostro punto di vista sul nuovo ordine mondiale paritario in via di formazione. Continueremo a sostenerci a vicenda sul piano internazionale e decideremo concordemente le soluzioni agli spinosi problemi regionali e globali, aumentando il grado di collaborazione con l’ONU, il gruppo dei BRICS, la OCS, il G-20 ed altri organismi sovranazionali.

E in terzo luogo, abbiamo chiuso tutte le difficili questioni politiche nei riguardi della Cina, compresa la più importante: quella dei confini. È stato stipulato un robusto accordo, giuridicamente vincolante, per quanto concerne le relazioni tra le due parti. Tra le leaderships dei due Paesi è stato ormai raggiunto un livello di fiducia senza precedenti. Questo consente sia a noi che ai Cinesi di operare nello spirito di un autentico partenariato, fondato sul pragmatismo e sulla considerazione degli interessi reciproci. Il modello di relazioni russo-cinesi che si è costituito è senz’altro promettente.

Quanto detto finora non implica, ovviamente, che nel nostro rapporto con la Cina tutto si svolga senza ostacoli. Emergono anche dissapori di varia natura. I nostri interessi commerciali in Paesi terzi sono lungi dal coincidere sistematicamente, né ci soddisfa appieno la tipologia di scambi che si va strutturando, con il suo debole livello di investimenti reciproci. Vigileremo attentamente anche sui flussi migratori provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese.

La mia idea di fondo è che la Russia abbia bisogno di una Cina prospera e stabile, la quale a sua volta – ne sono certo – ha bisogno di una Russia forte e di successo.

A ritmo serrato cresce anche l’altro gigante asiatico: l’India. Ad essa la Russia è legata da rapporti tradizionalmente amichevoli, la cui natura è stata definita dai governi dei rispettivi Paesi come un partenariato strategico particolarmente privilegiato. Dal suo rafforzamento trarranno beneficio non soltanto le nostre due nazioni, ma anche l’intero sistema policentrico che si sta affermando nel mondo.

Ai nostri occhi sta avendo luogo non soltanto la crescita di Cina e India, bensì l’aumento di peso di tutta la regione Asia-Pacifico. In questo senso si aprono nuovi orizzonti per un lavoro fecondo nell’ambito della presidenza russa all’APEC. A settembre di quest’anno terremo un vertice di quest’organizzazione a Vladivostok. Siamo impegnati nella sua preparazione e costruiremo infrastrutture moderne che di già per sé faciliteranno il futuro sviluppo della Siberia e dell’Estremo Oriente, permettendo al nostro Paese di inserirsi in misura ancora maggiore nei processi di integrazione della “nuova Asia”.

Consideriamo prioritario e continueremo a ritenere tale il valore dei rapporti con i Paesi BRICS. È questa una struttura unica, costituitasi nel 2006, che testimonia concretamente la transizione dall’unipolarismo ad un ordine mondiale più equo. Essa unisce cinque Paesi, con una popolazione di quasi tre miliardi di persone, che rappresentano le maggiori cinque economie emergenti, detentrici di immense risorse naturali e di forza lavoro, di enormi mercati interni. Dopo l’ingresso del Sudafrica il BRICS ha assunto una fisionomia globale nel pieno senso della parola; già adesso produce una quota superiore al 25% del PIL mondiale.

Ci stiamo da poco abituando a lavorare in questo assetto, venendoci incontro a vicenda. In particolare, è in programma l’avviamento una più stretta coordinazione per quanto attiene all’agenda di politica estera, dunque un lavoro più fecondo in sede ONU. E quando il quintetto BRICS si sarà sviluppato appieno, la sua influenza sull’economia e la politica internazionali avrà un impatto significativo.

Negli ultimi anni la diplomazia della Federazione russa ed i nostri circuiti imprenditoriali hanno iniziato a dedicare maggiore attenzione allo sviluppo della cooperazione con i Paesi dell’Asia, dell’America latina e dell’Africa. In queste regioni, come già in passato, permangono dei sinceri sentimenti di simpatia verso la Russia. Vedo come uno dei compiti fondamentali per il periodo a venire l’intensificazione della cooperazione economico-commerciale in queste aree, la realizzazione di progetti congiunti nei settori dell’energia, delle infrastrutture, degli investimenti, della scienza e della tecnologia, nonché del business bancario e del turismo.

Il ruolo di ascesa dei summenzionati continenti in un sistema democratico di governo dell’economia e della finanza globale, che oggi va delineandosi, riflette l’attività del G-20. Ritengo che questa unione si trasformerà presto in un importante strumento strategico non soltanto per rispondere alle crisi, ma anche per una ristrutturazione di lungo periodo dell’architettura economico-finanziaria globale. La Russia presiederà il G-20 nel 2013. Senza dubbio dovremo approfittare di questa presidenza per rafforzare il lavoro congiunto dello stesso G-20 con altre strutture multinazionali, in primo luogo con il G-8 e ovviamente con l’ONU.

Il fattore europeo

La Russia è parte organica ed integrante della Grande Europa, della vasta civiltà europea. I nostri cittadini percepiscono sé stessi come Europei. Ci è quindi tutt’altro che indifferente come si sviluppano le vicende nell’Europa unita.

Ed ecco perché la Russia promuove la costituzione di uno spazio unitario di circolazione di uomini e merci dall’Atlantico al Pacifico: una comunità che gli esperti russi definiscono “Unione dell’Europa”, che non farà che rafforzare le opportunità e le posizioni della Russia nel suo tornante economico verso la “nuova Asia”.

Sullo sfondo della crescita di India, Cina ed altre economie emergenti, si percepiscono acutamente le turbolenze economico-finanziarie dell’Europa, un tempo oasi di pace e stabilità. La crisi che ha colpito l’Eurozona non può non influenzare anche gli interessi della Russia, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’UE costituisce il nostro principale partner commerciale ed economico. È altrettanto evidente che dalla condizione degli Europei dipenderanno le prospettive di sviluppo dell’intero sistema economico globale. La Russia ha aderito attivamente alle misure in sostegno delle economie europee colpite dalla crisi e partecipa in modo costante all’elaborazione di decisioni comuni secondo la linea del FMI. In linea di principio non escludiamo neppure di fornire, in alcuni casi, un sostegno finanziario diretto.

Al tempo stesso ritengo che iniezioni di liquidità provenienti dall’esterno possano solo in parte contribuire alla risoluzione del problema. Per un’autentica inversione di marcia sono necessarie misure energiche aventi un carattere sistemico. La classe dirigente europea ha dinanzi a sé il compito di attuare cambiamenti su larga scala, che modifichino alla radice i meccanismi economico-finanziari e garantiscano un’autentica disciplina di bilancio pubblico. Noi siamo interessati ad avere un’Unione Europea forte, come per esempio la concepiscono Francia e Germania, nonché a realizzare appieno il grande potenziale di collaborazione tra Russia e UE.

Il livello attuale delle interazioni tra Russia e UE non corrisponde comunque alla portata delle sfide globali, in primo luogo per quanto riguarda il miglioramento della capacità competitiva del nostro comune continente. Propongo ancora una volta di avviare un lavoro che punti alla costituzione di una comunità armoniosa di economie da Lisbona a Vladivostok. E di giungere in futuro alla formazione di una zona di libero scambio ed anche di meccanismi più avanzati di integrazione economica. Allora avremo un mercato continentale comune dal valore di miliardi di euro. Vi è forse qualche scettico che dubita di quanto sarebbe salutare tale iniziativa e di quanto corrisponderebbe agli interessi dei Russi e degli Europei?

È necessario pensare a forme di collaborazione ancora più strette nel settore dell’energia, sino ad arrivare alla creazione di un unico complesso energetico europeo. Passi importanti in questa direzione sono rappresentati dalla costruzione dei gasdotti Severnyj Potok (Nord Stream), che corre lungo i fondali del Baltico, e Južnyj Potok (South Stream) nel Mar Nero. Tali progetti sono stati sostenuti dai governi di molti Paesi e vi partecipano le maggiori imprese energetiche europee. Una volta che essi entreranno pienamente in funzione l’Europa godrà di un sistema di approvvigionamento di gas affidabile e flessibile, indipendente da qualsiasi tipo di capriccio politico, in grado di garantire realmente, e non solo sulla carta, la sicurezza energetica del continente. È una questione particolarmente attuale, anche alla luce della decisione di alcuni Stati europei di interrompere o cessare del tutto l’utilizzo dell’energia nucleare.

Voglio invece dichiarare apertamente che il “Terzo Pacchetto Energia”, sostenuto dalla Commissione Europea e volto ad estromettere le imprese integrate russe, non rafforza certo i nostri rapporti. E soprattutto – considerata la crescente instabilità dei fornitori di risorse naturali alternativi alla Russia – finisce per aggravare i rischi sistemici dello stesso sistema energetico europeo, disincentivando i potenziali investitori in nuovi progetti infrastrutturali. Nelle conversazioni avute con me, molti politici europei disapprovano questo pacchetto. E allora bisogna avere il coraggio di rimuovere quest’ostacolo dal percorso di una collaborazione che è vantaggiosa per entrambi.

Ritengo che un autentico partenariato tra Russia ed Unione Europea sarà impossibile sinché verranno mantenute quelle barriere che frenano le relazioni economiche ed i contatti tra le persone, prima fra tutte il regime dei visti. L’abolizione dei visti rappresenterebbe un forte impulso alla reale integrazione di Russia ed UE, contribuendo ad ampliare i legami culturali ed economici, in special modo tra piccole e medie imprese. Le minacce per gli Europei da parte dei cosiddetti migranti economici provenienti dalla Russia sono in gran parte pretestuose. I nostri cittadini hanno modo di mettere a frutto i propri sforzi e le proprie capacità nel loro stesso Paese, e tali possibilità aumentano progressivamente.

Nel dicembre 2011 abbiamo concordato con l’UE l’attuazione di “sforzi congiunti” in direzione di un regime senza visti. Esso può e deve essere realizzato senza indugi. Sono intenzionato a continuare a lavorare su questo problema nel modo più attivo possibile.

I rapporti russo-americani

Negli ultimi anni è stato fatto non poco per sviluppare le relazioni russo-americane. Ciononostante, non si è ancora riusciti a perseguire cambiamenti di fondo relativi alla natura di tali relazioni, che come in passato subiscono un andamento altalenante. Questa instabilità nel partenariato tra Russia e Stati Uniti d’America è in parte frutto della persistenza di ben noti stereotipi e fobie. Un esempio evidente è il modo attraverso cui la Russia viene percepita a Capitol Hill. Ma il problema principale è insito nel fatto che il dialogo politico bilaterale non è fondato su solide basi economiche. Il volume degli scambi commerciali è lungi dal corrispondere alle potenzialità delle economie dei nostri Paesi. Lo stesso dicasi per gli investimenti reciproci. Pertanto, non esiste ancora una rete di sicurezza che protegga i nostri rapporti dalle oscillazioni congiunturali. E su questo occorre lavorare.

Al rafforzamento della comprensione reciproca certo non contribuiscono i puntuali tentativi americani di impegnarsi in una sorta di “ingegneria politica”, anche in quelle regioni che sono tradizionalmente importanti per noi e persino durante le campagne elettorali in Russia.

Ripeto ancora che il proposito americano di creare un sistema ABM in Europa desta in noi legittime preoccupazioni. Perché questo sistema preoccupa noi più di altri Paesi? Ovviamente perché esso ha un’influenza su forze strategiche di deterrenza nucleare che in questa regione soltanto la Russia possiede, e perché rompe un equilibrio politico-militare collaudato ormai da decenni.

Il legame indissolubile che sussiste tra il sistema di difesa ABM e le armi strategiche offensive si è riflesso nel nuovo trattato START siglato nel 2010. Il trattato è entrato in vigore e si sta mostrando abbastanza efficace. Esso rappresenta un risultato notevole di politica estera. Siamo pronti a prendere in esame diverse opzioni per la redazione di un’agenda di lavoro congiunta con gli Americani sul controllo degli armamenti nel periodo a venire. Una regola ferma in questa trattativa deve essere l’equilibrio fra interessi diversi, il rifiuto di servirsi dei colloqui per ottenere vantaggi unilaterali.

Voglio rammentare che nell’incontro di Kennebunkport del 2007 avevo già proposto al presidente George Bush una soluzione della questione ABM, che – se fosse stata adottata – avrebbe modificato il carattere tradizionale delle relazioni russo-americane, imprimendovi una svolta positiva. Inoltre, se fosse avvenuta una svolta nella questione ABM, si sarebbero aperte le porte, nel senso letterale della parola, all’istituzione di un modello di collaborazione qualitativamente nuovo, di vicinanza ed alleanza, anche in molte altre aree sensibili del pianeta.

Ma non è andata così. Sarebbe certo utile ascoltare le registrazioni dei colloqui di Kennebunkport. Negli ultimi anni il governo russo ha avanzato anche altre proposte su possibili accordi in merito alla questione ABM. Proposte ancora valide.

In ogni caso, non vorremmo mai mettere una croce sulla ricerca di possibili soluzioni di compromesso su tale questione. Non vorremmo che il posizionamento del sistema di difesa americano giungesse ad un dispiegamento tale da richiedere l’adozione di nostre contromisure.

Recentemente ho avuto un colloquio con Henry Kissinger, con cui mi incontro regolarmente. E condivido pienamente la tesi di questo autentico professionista, secondo cui nei periodi di più forti tensioni internazionali è auspicabile una stretta e fiduciosa collaborazione tra Mosca e Washington.

In linea generale saremmo disposti ad andare molto lontano nelle nostre relazioni con gli USA, a compiere cioè un salto di qualità, ma soltanto a condizione che gli Americani siano mossi da princìpi di rispetto reciproco e di equo partenariato.

La diplomazia economica

Nel dicembre dello scorso anno si è finalmente conclusa quella maratona pluriennale per l’adesione della Russia al WTO. Non posso esimermi dall’osservare che nell’ultima fase l’amministrazione Obama e diversi rappresentanti di Stati europei hanno contribuito al raggiungimento degli accordi finali.

Voglio dire apertamente che in questo lungo e spinoso percorso più di una volta siamo stati tentati di “sbattere la porta” e cessare ogni trattativa. Ma non ci siamo lasciati prendere dalle emozioni. Alla fine siamo riusciti ad ottenere un compromesso conveniente per il nostro Paese: siamo riusciti a tutelare gli interessi dei produttori industriali e agricoli della Federazione russa in vista della crescita di concorrenza estera nel futuro prossimo. I nostri operatori economici ricevono in tal modo ulteriori importanti opportunità di sbocco sui mercati mondiali e di difesa civile dei loro diritti. Proprio in questo, e non certo in una simbolica adesione al club commerciale globale, intravedo il risultato più importante.

La Russia osserverà le norme del WTO, così come tutti gli altri suoi vincoli internazionali. Spero che anche i nostri partners rispettino le regole con la medesima onestà. Voglio far notare en passant che abbiamo già inserito i princìpi del WTO nel quadro normativo e giuridico dello spazio economico integrato tra Russia, Bielorussia e Kazakhstan.

Se si analizza il modo attraverso cui promuoviamo i nostri interessi nell’arena internazionale, appare evidente che dobbiamo ancora imparare a farlo in modo sistemico e coerente. Ancora non siamo capaci, come invece riesce ai nostri partners occidentali, di svolgere azioni di lobbismo civile in quelle piattaforme di commercio estero redditizie per il nostro business.

I compiti in questa direzione, in relazione anche alle priorità di sviluppo dell’innovazione nel nostro Paese, sono più che seri: garantire alla Russia posizioni paritarie nel sistema contemporaneo di relazioni economiche, ridurre al minimo i rischi che possono sorgere in seguito all’integrazione nell’economia globale, nel contesto del summenzionato ingresso nel WTO e del prossimo ingesso nell’OCSE.

Come atmosfera generale abbiamo bisogno di uno sbocco più ampio e non discriminatorio verso i mercati esteri. Sino ad oggi non si usano particolari riguardi verso gli operatori economici russi all’estero. Contro di essi giocano misure restrittive di politica commerciale ed un innalzamento di barriere tecniche che li pongono in una condizione di svantaggio rispetto ad altri concorrenti.

Un discorso analogo vale per gli investimenti. Ci stiamo sforzando di attrarre capitali esteri nell’economia russa, di aprire per essi i settori industriali più appetibili e concedere loro delle autentiche “fette prelibate” di mercato, in special modo nei settori dell’energia e della produzione di carburanti. Come detto, all’estero non fanno festa ai nostri imprenditori, che spesso anzi vengono ostentatamente snobbati.

Non occorre andare tanto lontano con gli esempi. Si prenda la storia dell’azienda tedesca Opel, che gli investitori russi non sono riusciti ad acquistare nonostante la trattativa avesse ottenuto l’approvazione del governo della Germania ed il giudizio positivo dei sindacati tedeschi. Oppure quelle situazioni inaudite in cui all’imprenditoria russa, che ha investito ingenti risorse in attività all’estero, viene semplicemente negato di godere dei diritti d’investitore. Tali situazioni si verificano abbastanza sovente nell’Europa centrale e orientale.

Tutto ciò impone una riflessione sulla necessità di rafforzare il sostegno politico-diplomatico alle iniziative degli imprenditori russi sui mercati esteri, di fornire un supporto più efficace a importanti e significativi progetti d’affari. Non va dimenticato però che la Russia è in grado di adottare contromisure speculari nei confronti di chi ricorre a metodi di concorrenza sleale.

Il governo e le associazioni imprenditoriali dovrebbero coordinare in modo più chiaro i propri sforzi in direzione del commercio estero, promuovendo con maggiore determinazione gli interessi del business russo ed aiutandolo ad affermarsi nei nuovi mercati.

Voglio concentrare l’attenzione su quel fattore essenziale che in gran parte determina il ruolo e il posto della Russia nel presente e nel futuro scacchiere economico-politico internazionale: il territorio enorme del nostro Paese. Anche se occupa meno di un sesto della superficie del pianeta, la Federazione russa è pur sempre lo Stato più grande al mondo e il più ricco di risorse. Non mi riferisco solo a gas e petrolio, ma anche alle foreste, ai terreni agricoli, alle riserve d’acqua dolce pura.

In breve, il territorio della Federazione russa è la sorgente del suo potenziale di forza. In passato gli enormi spazi del nostro Paese sono serviti come protezione dalle aggressioni esterne. Oggi, attuando una buona strategia economica, essi possono divenire il fondamento decisivo per accrescere la nostra competitività.

Voglio rammentare in particolar modo la progressiva carenza a livello mondiale di acqua dolce. È prevedibile che in un futuro non lontano si svilupperà una competizione geopolitica per le risorse idriche e per la necessità di realizzare prodotti che hanno un alto contenuto di acqua. Ci troviamo quindi ad avere un asso tra le mani. Il nostro Paese è consapevole che questa ricchezza ereditata deve essere commerciata in modo parsimonioso e strategicamente impeccabile.

Il sostegno ai connazionali e la dimensione umanitaria

Il rispetto verso la propria Patria si determina anche a partire da come essa è in grado di difendere i suoi cittadini e connazionali all’estero. È importante non dimenticare mai gli interessi di quei milioni di compatrioti che vivono in Paesi stranieri, né di quei cittadini che viaggiano all’estero per ferie o in trasferte di lavoro. Ci tengo a sottolineare che il Ministero degli Affari Esteri e tutte le rappresentanze diplomatiche e consolari sono obbligati a fornire sostegno e assistenza concreta ai connazionali 24 ore su 24. Le reazioni da parte dei nostri diplomatici ai conflitti che possono sorgere tra i nostri concittadini e le autorità locali, così come agli infortuni, agli incidenti sui trasporti etc., devono essere immediate, senza aspettare che i media locali inizino a lanciare l’allarme.

Nel modo più deciso possibile otterremo dalle autorità di Lettonia ed Estonia il rispetto delle molteplici raccomandazioni di autorevoli organizzazioni internazionali relativamente all’osservanza dei diritti comunemente riconosciuti alle minoranze nazionali. Non si può accettare la vergognosa condizione di “apolide”*. Così come non si può accettare che un sesto degli abitanti della Lettonia e un tredicesimo degli abitanti dell’Estonia, in quanto “apolidi”, siano privi dei più elementari diritti politici, elettorali e socioeconomici, nonché della possibilità di utilizzare liberamente la lingua russa.

Si prenda ad esempio il referendum sullo statuto della lingua russa, tenutosi alcuni giorni fa in Lettonia, che ha nuovamente mostrato alla comunità internazionale la gravità del problema. La partecipazione al referendum è stata infatti negata a più di 300.000 apolidi. Ed il rifiuto, da parte della Commissione Elettorale Lettone, di concedere alla Camera Sociale Russa lo status di osservatore davvero non sta né in cielo né in terra. Dal canto loro, le organizzazioni internazionali, responsabili dell’osservanza degli standards democratici, sono rimaste mute come pesci.

In generale, il modo in cui la problematica dei diritti dell’uomo viene utilizzata a livello internazionale difficilmente può lasciarci soddisfatti. Innanzitutto, gli USA ed altri Paesi occidentali tendono a monopolizzare il tema della difesa dei diritti, politicizzandolo ed usandolo come strumento di pressione. Essi non sopportano però la critica che viene loro indirizzata e la percepiscono con estrema irritazione. Inoltre, gli oggetti di monitoraggio della difesa dei diritti sono selezionati in modo arbitrario: non sulla base di criteri universali, bensì secondo il discernimento dei Paesi che hanno “privatizzato” questo dossier.

La Russia avverte su di sé la mancanza di obiettività, il carattere pregiudiziale e l’aggressività della critica portata avanti contro di essa, una critica che talora oltrepassa i limiti dell’immaginazione. Quando ci vengono indicate le nostre manchevolezze con cognizione di causa, ce ne possiamo solo rallegrare traendone le debite conclusioni. Ma quando invece la critica è indiscriminata, ininterrotta, ed in modo pianificato si cerca di condizionare sia i nostri cittadini nell’atteggiamento verso le istituzioni russe, sia di influenzare direttamente la situazione politica interna al Paese, allora è chiaro che dietro tutto ciò non si celano gli alti e morali princìpi democratici.

La sfera dei diritti dell’uomo non può essere concessa in monopolio a nessuno. La Russia è una democrazia giovane. E sovente noi manifestiamo un’eccessiva modestia, preservando l’amor proprio dei nostri partners occidentali. Ma anche noi abbiamo la nostra da dire, perché per quanto riguarda l’osservanza dei diritti dell’uomo ed il rispetto delle libertà fondamentali nessuno è perfetto. Anche nelle antiche democrazie si verificano serie violazioni, dinanzi alle quali non si possono chiudere gli occhi. Naturalmente, un lavoro di questo tipo non può essere condotto secondo la logica del “tu fai anche peggio”: invece, procedendo da una discussione costruttiva dei problemi nell’ambito dei diritti dell’uomo tutte le parti trarranno beneficio.

Il Ministero degli Esteri della Federazione russa alla fine dell’anno ha pubblicato la sua prima relazione “Sulla situazione dei diritti dell’uomo in diversi stati del mondo”. Credo che questa attività vada intensificata, anche al fine di contribuire ad una collaborazione più ampia e di carattere paritario su tutto lo spettro dei problemi umanitari, sulla promozione dei principi della democrazia e dei diritti dell’uomo.

A questo proposito, quanto detto sinora è soltanto una parte del sostegno di informazione e di propaganda della nostra attività diplomatica e di politica estera, della formazione di un’immagine corretta della Russia all’estero. Dobbiamo riconoscere che in questo campo abbiamo ottenuto ben pochi successi. Nella sfera dell’informazione veniamo sovente surclassati. È questo un problema a sé stante e dalle molte facce, che merita di essere studiato seriamente.

La Russia ha ereditato una grande cultura, riconosciuta come tale sia in Occidente che in Oriente. Ma sino ad ora abbiamo investito troppo poco nelle industrie culturali, nella loro promozione sul mercato mondiale. La rinascita di un interesse universale verso la sfera delle idee, della cultura, che si manifesta attraverso il coinvolgimento delle società e delle economie nella rete dell’informazione globale, offre ulteriori opportunità alla Russia ed ai suoi comprovati talenti nel campo della produzione di valori culturali.

La Russia ha cioè la possibilità non soltanto di preservare la sua cultura, ma anche di utilizzarla come potente fattore di promozione sui mercati mondiali. Lo spazio russofono coincide praticamente con tutti Paesi dell’ex URSS e con una parte significativa dell’Europa orientale. Non un impero, ma un’opera di promozione culturale; non i cannoni né l’importazione di sistemi politici, bensì l’esportazione di istruzione e cultura consentiranno di creare le condizioni favorevoli per le merci, i servizi e le idee provenienti dalla Russia.

Dobbiamo rafforzare la nostra presenza nel mondo in termini di cultura ed istruzione, a maggior ragione in quei Paesi in cui parte della popolazione parla o capisce il russo.

È necessaria una seria riflessione su come sfruttare in modo proficuo i grandi eventi per offrire una percezione obiettiva della Russia: il vertice APEC nel 2012, i summits del G-20 e del G-8 nel 2013 e nel 2014, le Universiadi di Kazan’ del 2013, le Olimpiadi invernali del 2014, i campionati mondiali di hockey e di calcio nel 2016 e nel 2018.

* * * * *

La Russia intende continuare a garantire la propria sicurezza e gli interessi nazionali attraverso una più attiva partecipazione alla politica mondiale ed alla risoluzione dei problemi globali e regionali. Siamo pronti ad una cooperazione commerciale che sia reciprocamente vantaggiosa e ad un dialogo aperto con tutti i partners stranieri. Ci sforziamo di comprendere e tenere in considerazione i loro interessi, ma chiediamo di rispettare anche i nostri.

(Traduzione di Dario Citati)


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