Le due stragi terroristiche compiute ieri e oggi a Volgograd riportano alla ribalta la guerra “sporca” in Dagestan, la repubblica caucasica indipendentista oggetto di attenzione internazionale in occasione di attentati con vasta eco, sebbene non trascorra settimana senza che un agguato dei ribelli islamici o un’operazione delle forze di sicurezza russe costringa ad aggiornare il conto dei morti e dei feriti. I media hanno parlato molto del Dagestan dopo gli attentati di Boston della scorsa primavera, quando due ventenni d’origine caucasica fecero esplodere un ordigno durante la famosa maratona che si tiene annualmente nella capitale del Massachusetts, uccidendo tre persone. Dalle successive indagini si scoprì che uno dei due attentatori, Tamerlan Tsarnaev (morto poi in un conflitto a fuoco con la polizia), nel 2012 aveva trascorso sei mesi in Dagestan: l’uomo, sposato e papà di un bambino, dopo essere rientrato negli Usa a giugno, non venne obbligato ad alcuna misura di sorveglianza speciale, sebbene l’Fbi, nel 2011, l’avesse fermato e poi rilasciato dopo una “soffiata” di un’intelligence straniera (forse l’Fsb russo), che l’aveva indicato come un possibile terrorista visti i suoi messaggi di esaltazione della jihad lasciati sui social network.
Ad aprile il sito d’informazione israeliano Debka, ritenuto molto vicino ad ambienti militari di Tel Aviv e ai servizi segreti del Mossad, spiegava questa “falla” nei sistemi di sicurezza Usa con un’ipotesi inquietante: Tsarnaev sarebbe stato reclutato anni addietro dall’Fbi e dall’intelligence saudita per essere infiltrato all’interno della guerriglia caucasica, dove poi sarebbe stato convertito alla guerra santa e “rigirato” contro gli Usa da al-Qaeda. Un’indiretta conferma giungerebbe da Dzhokhar Tsarnaev, l’altro attentatore implicato nella faccenda, che durante gli interrogatori ha affermato che le bombe assassine erano state fabbricate artigianalmente seguendo i dettami di Inspire, un magazine pubblicato da una casa editrice ritenuta vicina all’organizzazione fondata da Osama bin-Laden.
Al-Qaeda ha una struttura orizzontale, paragonata da alcuni analisti ad una sorta di “franchising del terrore” che mette armi, denaro e struttura logistica a disposizione delle cellule terroristiche in ogni parte del globo, lasciando poi a loro la decisione di quando entrare in azione. Una di queste, quella comandata dall’“Emiro” Doku Umarov, è da anni operativa in alcune repubbliche del Caucaso russo come Nord-Ossezia, Inguscezia, Cecenia e appunto Dagestan, dove punta a creare un Emirato islamico retto dalla sharia, la legge coranica in vigore in numerosi paesi della penisola arabica, inclusa l’Arabia Saudita.
Un indipendentismo di natura economica più che religiosa, perchè proprio la destinazione del viaggio di Tamerlan Tsarnaev nel 2012, il Dagestan, si affaccia su quella gigantesca miniera energetica che è il Mar Caspio: un enorme giacimento di petrolio e di idrocarburi che nel 2015 potrebbe raggiungere una produzione giornaliera di greggio pari a 4,3 milioni di barili, con riserve petrolifere equivalenti ad un quarto di quelle dell’intero Medioriente, e con riserve di gas che, insieme a quelle già in uso, andrebbero a costituire nel sottosuolo del bacino una riserva pari ad oltre 9,2 trilioni di metri cubi.
Basterebbero appena queste cifre a far capire l’importanza strategica di quest’area e gli appetiti che essa suscita. Potrebbe perciò non essere un caso che, nel corso degli ultimi dieci anni, canali informali legati all’Arabia Saudita abbiano fatto giungere nelle repubbliche caucasiche russe un enorme quantitativo di denaro che ha permesso la costruzione di scuole coraniche e moschee dove si predica l’Islam più radicale. Azioni mirate a creare influenza in un’area geopolitica di estrema rilevanza per il governo di Riyad, il principale produttore ed esportatore mondiale di greggio, la cui leadership è seriamente minacciata dalla Russia.
Nei suoi rapporti con il terrorismo caucasico di matrice wahabita, l’Arabia Saudita continua a mantenere una posizione molto ambigua. Come il comportamento tenuto nelle ore immediatamente successive alla strage della Boston Marathon.
Sebbene non fosse nell’Agenda della Casa Bianca, il 17 aprile 2013, due giorni dopo l’attentato, il principe Saud al-Faisal vola precipitosamente a Washington per un incontro – rigorosamente a porte chiuse – con Barack Obama e il suo Consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon, mentre tv e giornali sauditi danno vita ad una tre-giorni mediatica contro il terrorismo, con tanto di appelli e prese di distanze dalla jihad di figure religiose ed esponenti della monarchia saudita, che hanno rimarcato la totale incompatibilità tra l’islam e l’esplosione di Boston.
Perchè tutto questo, se in quella data nessun riferimento ad una pista saudita era stata fatta dagli inquirenti? Quelle del principe al-Faisal e dei media sauditi sono due mosse non proporzionate alla situazione del momento, a meno che non fossero state dettate da una forte tensione, tipica di chi si sente sospettato e cerca di sviare le indagini. Come se Tamerlan Tsarnaev fosse stato veramente una pedina saudita inviata nel Caucaso russo, e poi finita da tempo fuori controllo: questo spiegherebbe perché, in concomitanza con il suo viaggio in Dagestan, Riyad avrebbe inviato alle autorità Usa una lettera – la cui esistenza è stata rivelata dal quotidiano britannico Daily Mail grazie ad una fonte top-secret all’interno del governo saudita – contenente informazioni “confidenziali” su Tsarnaev, con la quale allertava i servizi americani sul potenziale pericolo derivante da quella “scheggia impazzita”.