Come è triste vedere archiviate troppo in fretta pagine di storia che avrebbero ancora qualcosa da dirci e, soprattutto, tanto da darci. A Umberto II, ultimo re d’Italia, gli italiani hanno finito con attribuirgli responsabilità oggettivamente eccessive, come una certa complicità col regime fascista; sono accuse rivolte a un uomo che ha avuto una sorella deportata nei lager nazisti.
«Poco importa a me d’essere giudicato da voi» scriveva comunque Umberto, «mio giudice è il Signore». Nella sua scrivania, dopo la morte, è stato trovato un biglietto con questo riferimento alla Lettera di san Paolo ai Corinzi. Era insieme a un altro appunto che riportava le parole di Pietro I, vladica del Montenegro: «lo mi avanzo pieno di speranza alle soglie del / Tuo Divino Santuario / la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato / dai miei passi mortali. / Alla Tua chiamata io vengo tranquillo …»
Non ha importanza, qui, misurare i passi mortali di quest’uomo, con tutte le incoerenze che, giustamente o meno, si possono mettere sul suo conto. Più opportuno sarebbe, invece, guardare a quella “fulgida luce” che, indubbiamente, ne ha illuminato il cammino. Morendo egli portò con sé nella tomba il sigillo reale dei Savoia; intendeva sottolineare, in questa maniera, che la dinastia si estingueva con lui. Destinò allo Stato italiano, nonostante gli avesse riservato tremende umiliazioni, l’archivio storico, un patrimonio di inestimabile valore. Per testamento, donò al Papa la sacra Sindone, custodita dalla famiglia nel corso della sua storia secolare e gloriosa; un gesto, questo, con il quale Umberto – al di là di ogni diversa considerazione – voleva dare compimento al lungo cammino per condurre nuovamente la Casa Savoia in seno alla Chiesa cattolica.
La tradizione cattolica della dinastia sabauda, infatti, rappresentata per esempio dai Beati Umberto III e Amedeo IX, col tempo si era affievolita, rimpiazzata da un acceso anticlericalismo che era giunto persino, con la conquista di Roma, a privare il Papa della libertà. Ma con l’ingresso nella famiglia reale di Elena di Montenegro, andata in sposa al re Vittorio Emanuele III, le cose avevano cominciato a prendere un indirizzo del tutto diverso. A volte bastano i semplici gesti di una donna per imprimere, agli avvenimenti, un radicale cambiamento. Fu proprio la nascita di Umberto l’occasione della svolta. La regina volle che al bambino fosse attribuito il titolo di Principe di Piemonte, invece di quello di Principe di Roma, che forse gli spettava; ella sapeva che, per un cristiano, un solo principe poteva essere legittimamente riconosciuto nella città eterna: il Principe degli Apostoli. Il gesto, proveniente da una famiglia che poteva essere considerata un avversario storico della Chiesa, commosse il popolo cristiano.
Umberto, sin dall’adolescenza, avvertì la responsabilità di prendersi cura della Sindone, l’oggetto più importante di Casa Savoia. È noto che suo padre non manifestava grande interesse nei confronti della fede. Inoltre, con l’inizio della prima guerra mondiale, era partito per il fronte. Il “re soldato” visse in quegli anni, di fatto, lontano dai suoi palazzi. Fu dunque il principe, nonostante la sua giovane età, a vigilare che questa reliquia fosse preservata dai rischi delle «temute incursioni aeree nemiche». Come ricorda P.L. Baima Bollone in Sindone o no (SEI, 1990), nella fase più rischiosa del conflitto, dal 6 maggio 1918 al 28 ottobre 1919, il Telo, dalla Cappella del Guarinl, fu segretamente trasferito in un bunker del Palazzo Reale, due piani sotto terra, dove venne tenuto al buio, chiuso dentro una cassaforte e protetto da un grande telo di amianto. Il principino si recò di persona in quei sotterranei per controllare lo stato di conservazione del misterioso lenzuolo; raccontò il vecchio custode, unico testimone presente: «Era come se volesse fare compagnia alla reliquia. Se ne stava lì immobile a lungo, con un’espressione assorta, insolita per un ragazzino di 14 anni» (L. Regolo, Il re signore, Simonelli 1998). In questo periodo, Umberto cominciò anche a mettere insieme quella che diventerà la più importante collezione iconografica sulla Sindone mai raccolta e ad archiviare la copiosa documentazione della quale riuscirà a venire in possesso.
Raggiunta la maggiore età, Umberto andò a risiedere stabilmente al Palazzo Reale di Torino. Ed è qui che la sua vita cominciò ad intrecciarsi strettamente con le vicende del sacro Lino, grazie anche alla sintonia che si instaurò tra lui e il cardinale Gamba. Questi rappresentò per il principe di Piemonte un vero padre che seppe guidarlo in anni, per lui, fortemente drammatici. Fu l’arcivescovo ad adoperarsi per rimuovere gli ultimi ostacoli verso il cammino di riconciliazione dei Savoia con il Papa. Un processo avviato con i Patti Lateranensi del ‘29 e continuato, quello stesso anno, con una serie di udienze concesse dal Pontefice ai membri della casa reale: il 5 dicembre fu ricevuto Vittorio Emanuele III, il giorno 7 il principe ereditario e successivamente tutti gli altri principi.
Era desiderio di Umberto di Savoia che questo nuovo corso fosse suggellato con la celebrazione del suo matrimonio, ormai imminente, con Maria José del Belgio. Voleva che si tenesse presso una delle maggiori basiliche romane, come Santa Maria Maggiore o San Giovanni in Laterano; una circostanza che poneva una serie di problemi di non facile soluzione. Non pareva conveniente a tanti, infatti, che la Santa Sede concedesse l’agibilità di queste basiliche ai Savoia che, dal canto loro, tenevano sostanzialmente il Papa “prigioniero” all’interno delle mura vaticane. Se al Papa – si osservava – essi impedivano di recarsi nelle basiliche patriarcali, come potevano chiedere al Pontefice che un simile privilegio fosse concesso al principe ereditario? La soluzione del caso, tutt’altro pretestuoso, vide nell’arcivescovo di Torino un attivo protagonista. Purtroppo, proprio nella fase decisiva delle trattative, il cardinale Gamba morì.
Il rito nuziale del principe con Maria José si tenne presso la Cappella del Quirinale l’8 gennaio 1930. A causa del lutto nella Chiesa torinese, non poté aver luogo la prevista ostensione del sacro Lino, rinviata all’anno successivo. La venerazione del principe di Piemonte per il Telo sindonico comincia a divenire, in questo periodo, di dominio pubblico: i giornali pubblicano le fotografie di Umberto vestito con il saio della Confraternita del Santo Sudario e gli stessi principi inseriscono, sul retro della medaglia coniata a ricordo del primo anniversario di matrimonio, una raffigurazione della Sindone.
L’ostensione del ’31 fu tutt’altro che un momento celebrativo, un semplice ossequio ad un’antica tradizione. Fu l’occasione per l’avvio di quegli studi scientifici che, in maniera imprevista, cominceranno a interessare un numero sempre crescente di studiosi; lo stesso Pontefice si definì, in quella circostanza, uno “studioso” del Telo: «Abbiamo seguito personalmente gli studi sulla sacra Sindone» ebbe ad affermare Pio XI, «e ci siamo persuasi dell’autenticità». L’erede al trono si adoperò per il buon esito dell’evento: già da due anni si era messo in contatto con Paul Vignon, professore ordinario presso l’Institut Catholique de Paris, e con altri sindonologi di fama. L’incarico di eseguire nuove fotografie del lenzuolo fu affidato a Giuseppe Enrie, fotografo di prestigio internazionale, al quale si devono i primi esperimenti per la stampa tipografica delle fotografie. Fu allestita anche una mostra di 61 pezzi che, per la prima volta, espose al pubblico quella ricca collezione iconografica di dipinti e stampe delle diverse ostensioni che il principe aveva cominciato a raccogliere quando era ragazzo.
L’evento suscitò grande entusiasmo popolare e un interesse, mai registrato prima, da parte della comunità scientifica. Da allora si incominciò a guardare alla Sindone come a una reliquia particolare, capace cioè di rivelare, con metodi rigorosamente scientifici, aspetti importanti della Passione di Cristo. Il negativo di Enrie entrò in tutte le case e anche nella storia della fotografia. L’autorevole critico Italo Zannier, nella sua Storia e tecnica della fotografia (Laterza 1982), ha avuto parole di apprezzamento per “la tecnica meticolosa” con la quale è stata eseguita la seconda riproduzione fotografica del sacro Lino e per la felice scelta di designare, per l’esecuzione, uno dei fotografi più geniali dell’epoca come era Enrie.
Alle ore 16 del 3 maggio 1931, vigilia della festa liturgica dedicata alla Sindone, presenti il nuovo arcivescovo di Torino Maurilio Fossati e il cappellano maggiore di Sua Maestà monsignor Giuseppe Beccaria, si dà inizio all’attesa ostensione. Il principe di Piemonte, secondo la ricostruzione che ne ha fatto Luciano Regolo ne Il re signore, «si avvicina all’arcivescovo e gli consegna le chiavi dell’urna. La cassa viene aperta, nastri e sigilli si spezzano, in un’aura sacrale. Umberto è il primo a genuflettersi senza cuscino e a baciare la reliquia. Lo seguono tutti i principi. Il sacro Lino, poi, viene condotto giù per lo scalone guariniano all’altare maggiore del Duomo. Umberto guida la processione con una torcia in mano. Per 21 giorni persone di ogni condizione e qualità vanno ad adorare la Sindone, giorno e notte, dall’Italia e dall’Estero. Il 24 maggio il principe di Piemonte, seguito a distanza dalla consorte velata di nero, è ancora lo ieratico testimonial della chiusura dell’ostensione. Il giorno dopo, alle 10.30, nella Cappella del Guarini, assiste all’arrotolamento del lino. È proprio lui a suggerire a monsignor Fossati di far ripiegare nel senso contrario la reliquia per eliminare le vecchie pieghe. Anche Maria José fu attratta dai misteri di quell’effigie in tutto simile al Cristo, impressa col sangue sull’antico tessuto e, d’accordo con il marito, offrì il suo manto di nozze, da cui furono ricavate otto pianete. Quattro furono donate alla Cattedrale di Torino per le celebrazioni liturgiche delle successive ostensioni, quattro all’Opera per le chiese povere di Roma».
Ma l’attenzione per la Sindone non venne meno con la chiusura dell’ostensione. Appena due anni dopo, dal 24 settembre al 15 ottobre 1933, se ne sarebbe tenuta una nuova, in occasione dell’Anno Santo della redenzione, e i preparativi erano già entrati nel vivo. Intanto, il 22 luglio del ’32 il principe di Piemonte, che l’anno precedente aveva spostato la sua residenza a Napoli, si era recato in visita al Santuario di Montevergine, presso Avellino, un luogo destinato ad entrare nella storia del sacro Lino. A questo santuario era rimasto legato sin da quando, all’età di tredici anni, mentre infuriava la Grande Guerra, la madre lo aveva condotto per la prima volta in pellegrinaggio. Ci tornerà ancora il 27 gennaio dell’anno successivo, probabilmente per chiedere alla Vergine il dono di un figlio che tardava a venire; negli stessi giorni, infatti, la moglie Maria José sarà in Germania a consulto da un illustre ginecologo. Ma quella fu anche l’occasione, per Umberto di Savoia, per compiere un misterioso “giro di ricognizione” nella zona, dove furono eseguite anche numerose fotografie. Era mosso da esigenze prettamente militari di controllo del territorio o, forse, pensava già di trasferire lì la Sindone? Non si può dire con certezza, me è un fatto la sua iniziativa di far costruire rapidamente una strada per raggiungere, più agevolmente, Montevergine in automobile; e senza questa decisione il Telo, probabilmente, non avrebbe potuto, qualche anno dopo, arrivare a quella destinazione. Il collegamento stradale, realizzato a tempo di record dal X Reggimento del Genio militare di Napoli, sarà inaugurato il 24 ottobre 1934.
La devozione sindonica dell’erede al trono è documentata anche in questo periodo partenopeo, nonostante la lontananza da Torino. Tra le sue carte, il giornalista Luciano Regolo ha rintracciato un autografo, databile verso la fine del ’33, con una preghiera che recita: «Signore, che nella Santissima Sindone, entro la quale il Vostro corpo adorabile, deposto dalla croce, venne avvolto… Fateci la grazia che nel giorno della Resurrezione siamo fatti partecipi di quella gloria, nella quale Voi regnate eternamente». Si tratta di un appunto in cui Umberto di Savoia trascriveva il testo di un’orazione formulata da Pio IX e che anche papa Pio XI, il 23 aprile del ’34, vorrà sottoscrivere. Pure a questo periodo risale il telegramma che egli indirizzò a Vignon per comunicargli il personale «interesse a seguire i suoi sforzi per un trionfo rapido e completo del Santo Sudario». Non aveva idea, evidentemente, degli imprevisti che si sarebbero presentati. Gli anni che seguirono, con il nazismo e la guerra, segnarono infatti l’inizio del periodo più buio per la storia dell’umanità.
Il 7 settembre 1939 l’abate di Montevergine fu convocato in Vaticano. Mons. Giovan Battista Montini gli aveva telegrafato per ordinargli di presentarsi urgentemente presso la Curia romana. AI suo arrivo presso la Santa Sede venne immediatamente condotto in Segreteria di Stato dove lo attendeva il cardinale Maglione. Secondo alcuni, il Segretario di Stato riferì all’abate che il re, “data la situazione internazionale”, aveva fatto trasferire la sacra Sindone al Quirinale. Ora riteneva che però questa sistemazione non fosse priva di rischi e aveva chiesto di spostarla all’interno delle mura vaticane. La Santa Sede, comunque, certa che nemmeno in Vaticano potesse considerarsi al sicuro, era giunta alla determinazione di nasconderla presso il Santuario di Montevergine.
La situazione politica internazionale fu, certamente, fonte di preoccupazione per i Savoia; in particolare si temeva il pericolo delle incursioni aeree nel corso di quello che sembrava un conflitto inevitabile. E in effetti il Palazzo Reale di Torino, durante la guerra, fu duramente colpito da bombardamenti degli alleati. Ma questo poteva spingere i Savoia a spostare la Sindone nell’Italia meridionale? Che elementi potevano esserci per ritenere che questa zona sarebbe stata risparmiata dalle devastazioni della guerra? Non era più prudente spostarla in un Paese neutrale come la Svizzera, tra l’altro molto più vicina a Torino e molto meglio presidiata dai membri di casa Savoia?
Forse è necessario, a questo proposito, prendere in considerazione un’altra ipotesi. La partenza del sacro Lino da Torino ha una data ben precisa, che segue di pochi giorni quel 22 agosto del 1939 in cui Hitler definì il principe ereditario un «perfido furfante», un’espressione che nel lessico del Führer aveva un significato particolare, non per nulla “perfidi” erano chiamati gli ebrei. Umberto comprese che la sua persona non era gradita ai nazisti, con tutto quello che tale “mancanza di gradimento” comportava. E si trattava di un timore fondato: un piano per la deportazione della famiglia reale nei campi di concentramento c’era davvero, come dimostra la vicenda della principessa Mafalda di Savoia che, infatti, troverà la morte a Buckenwald. Le toccò di essere arrestata dopo che fu catalogata, nel “bestiario” nazista, come «piccolo animale». Una conferma, questa, della stretta relazione che i nazisti avevano stabilito tra il proprio lessico e la realtà del lager. Dunque, all’origine del trasferimento presso Avellino ci potrebbe essere, più verosimilmente, la preoccupazione di salvare il Telo dalle razzie dei nazisti.
(Prima parte. Continua)
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Revisione di un articolo pubblicato sulla Rivista del Collegamento pro Sindone