STORIA DI UNA NASCITA
Non mi credevano.
“È il secondo figlio!” li inseguivo rivendicando credibilità.
Sono aggrappata alla portiera dell’auto. Accanto a me, a pochi metri, due ambulanze e qualche infermiere: osservano da un sabato qualsiasi il mio altrove assoluto.
Pioviggina. Non lo sento. Ho un maglione largo con me, non lo indosso nemmeno. La felpa grigia cala il suo cappuccio molle sulle scapole. Non sento niente.
Arrivò un infermiere, m’impose una sedia a rotelle e mi traghettò nella massa, dentro, oltre le porte di vetro. Vorrei andare direttamente in sala parto, non ho più dubbi, mi sono mangiata la cucina avanti e indietro, sono così insicura che anche sta volta ho temporeggiato. Un bagno in vasca, passa non passa, esco, aspetto, guardavo i minuti nella sveglia. E poi di colpo c’era mia madre alla porta: “Vai, vai!” Si è presa Patrick, chiuderà casa. Non ho nemmeno fatto in tempo a salutarlo. Appena tutto si diraderà, sarà il mio primo, urgente pensiero.
E poi di colpo sono davanti a un desk: “La prego, mi porti in sala parto!”, due mani avvinghiate al bracciolo. “C’è un protocollo da seguire, Signora. Deve salire prima in maternità.”
Il protocollo aveva la forma allungata di due corridoi infiniti: il primo, giunti di linoleum che mi trafiggono quando finalmente la carrozzella avanza, lasciando indietro quella sala d’attesa, lasciando indietro pazienti di mille altri mali e inquietudini. Pazienti che non soffrono quanto me, eppure con il dolore vuoto in grembo, mentre io procedo con la vita che grida.
Il secondo su, al piano della maternità. Mi hanno mollata come si lascia un libro sul comodino la sera. Al mio fianco, sedute e placide, altre madri: aspettano il monitoraggio oltre termine.
Mathias è andato a cercare qualcuno. Sono Sola. Con una S tanto grande da divorarmi.
Pensavo solo a due cose: a resistere, e che quelle giovani donne si sarebbero senz’altro spaventate dinanzi a un’anteprima in carne ed ossa di ciò che le attendeva.
La prima ostetrica che arriva ha i capelli biondi, un ombretto troppo azzurro su occhi invecchiati dall’età e dalla professione, mi invita ad accomodarmi nella stanzetta dei monitoraggi: “Venga, si sieda qui e aspetti.”
C’era una poltrona di pelle marrone, l’ho guardata brevemente, sapevo che non mi ci sarei mai seduta. Lo sapevamo, tu e io. E così imploro: “Non avete capito! Sta nascendo, devo spingere!”
La donna s’impietosisce, mi porta nello stanzino opposto, mi fa sdraiare.
“C’è già la testa! C’è già la testa!” ripete due volte.
Credo di averle risposto: “E io che vi avevo detto?” riuscendo a non smentire la mia natura spavalda nemmeno lì.
Allora mi hanno finalmente creduto.
Sai perché avevo fretta in quei giorni? Me lo ricordo ogni anno. Ogni, preciso week end di ottobre che ruota intorno a quel 16: perché c’era la sagra del quartiere.
La mia paura più grande era che tu volessi sceglierti proprio quella domenica: nessun’automobile sarebbe entrata o uscita da quell’area cintata. I miei non sarebbero facilmente arrivati a prendere tuo fratello, né io sarei riuscita a raggiungere l’ospedale. Ero terrorizzata. Avevamo un piano d’attacco, lasciare la macchina fuori dalla zona sabato sera, prenderla di domenica mattina, andare tutti dai nonni, al sicuro, e semmai fosse incominciato il travaglio avrei potuto muovermi di lì agevolmente. Ma avevo paura lo stesso. Una donna prossima al parto ha sempre paura. Soprattutto se si aggiungono sfide superflue, se altre carte del gioco sfuggono al controllo. Una donna che sta diventando madre ha bisogno di certezze, di punti saldi.
E noi li abbiamo fregati. Tutti quanti.
Chiamano giù in sala parto, e la lettiga corre. Corrono i neon appesi sul soffitto, sfilano le pareti dentro a un tempo immobile.
Nascere è il fermo immagine di un miracolo.
Alle 16.40 di quel sabato, con poche spinte efficaci e nessuna analgesia perché non ce n’è stato il tempo, sbucava la tua testa rossiccia. La vedo mentre sei ancora a metà, tra il tuo mondo e il nostro.
Ti afferro io, e tu mi segui. Vieni a nascere sulla mia pelle.
Domenica pioveva, righe sottili su un vetro troppo grande: spifferi di freddo su quel tavolino verde acqua color degli ospedali che abbiamo collocato in stanza per cambiarti. C’è vento, c’è buio. Là, a casa nostra, le vie sono chiuse, la sagra starà facendo il suo corso. È lontana. Lontano tutto, anche la paura.
Sono passata tante volte accanto a quell’ospedale, guardo su, tra fronde di alberi che inseguono stagioni: ora abbreviate dai giardinieri, ora snudate dall’inverno, ora rigonfie di estate. Localizzo dov’era, finestra più finestra meno, la nostra. Ne scelgo una, mi dico è quella. E ti faccio nascere ancora. Perché mentre cresci e scorri come la vita che intuivo là sotto, ho bisogno di ritrovare quel grande vetro, il mentre che azzerava tutto.
Anche quest’anno la sagra si ripete, addobbano le strade, riempiono il porfido di bancarelle e di voci. In giro hanno già messo i divieti, i segnali di rimozione forzata, e le botteghe si riempiranno di fiati e forestieri: per me la sagra è quella di allora, sfiorata col pensiero, mentre ti metto un pannolino pulito, davanti alla finestra.