Più gli anni passano, più le epoche cambiano, più complesso è comprendere quale sia il meccanismo che trasforma due semi differenti in un individuo autonomo.
Perché sebbene ormai si sappia, raggiunta l’età del giudizio – e anche molto, molto prima -, che i bambini non nascono sotto i cavoli e non è la cicogna a deporli nelle rispettive culle, nessuno riesce tuttora a spiegare perché una donna sceglie di essere madre e un uomo di essere padre.
Se Schopenhauer definisce l’eros come l’impulso utile solo al perpetuarsi della specie nel dolore che è l’esistenza, questa visione non può, di fatto, appartenere ad una donna che sceglie di essere madre. Forse, ma lo dico da donna, potrebbe appartenere ad un uomo costretto a vivere la crescita di un embrione nel corpo della propria compagna: potrebbe appartenere solo a chi “innesta”, a chi dona il suo seme per la causa di una nuova vita, ma è condannato a non poter accogliere nel suo stesso corpo quella potente, piccola promessa che ha scelto – o meno, a seconda dei casi - di generare, perché l’uomo è uno spettatore passivo e disordinatamente partecipe, per forza di cose, alla gravidanza. Eppure ne è il fondamentale coautore.
Come spiegare ad un bambino o a una bambina che vengono al mondo – e al mondo crescono – che essere donna o uomo significa, un giorno, anche desiderare di essere padre o madre? E, ancora, cosa significa essere madre o essere padre?
Michele Placido offre il suo contributo alla discussione accostandosi alla maternità con una sensibilità sincera, con grazia e grande delicatezza nel suo nuovo film “La scelta” liberamente ispirato a “L’innesto” di Luigi Pirandello, riuscendo ad affrontare sia il tema della violenza sulle donne che quello dell’aborto senza retorica e soprattutto senza improntare la sua “indagine” con una visione “maschile” della vicenda. Perché non deve essere facile per un uomo raccontare di una donna che lotta per poter essere madre e subisce una violenza.
Una Puglia cupa nella fotografia di Arnaldo Catinari e, in particolare, una Bisceglie medioevale dalle pietre lucide, squadrate e bianche che nasconde ferocia e smarrimento nella semplicità delle sue linee architettoniche, ospitano proprio come un grembo la storia di Placido, come un grembo ricco di nutriente suggestione.
Quando la vita di Laura (Ambra Angiolini) e Giorgio (Raul Bova) viene sconvolta, sono le terre della masseria dei genitori della donna ad accoglierla sofferente: la terra è stata scorticata dal sole, ma adesso aspetta che le mani delicate di Laura tornino a rassodarla per seminare, oppure a spazzare via la polvere della cappella di famiglia. Perché Laura, delicata e rigorosa, ha un’attenzione particolare per la vita e per la bellezza: all’offesa e alla mortificazione della violenza, risponde con un silenzio raccolto non complice, né vittimistico, ma forte e coraggioso. Un silenzio che ride apertamente delle apprensioni di una madre troppo preoccupata da quello che gli altri potrebbero pensare. Un silenzio che per Giorgio pesa troppo, che lo rende fragile e sperduto.
Il dilemma esplode angosciosamente e le inquadrature si fanno sempre più strette sui volti dei personaggi, sulle loro fughe e sul rincorrersi frenetico. Ambra Angiolini, intensa e concentrata, dà spessore al suo personaggio costruendo una Laura delicata e pura perché consapevole del proprio essere donna, che non intende rinunciare alla propria fisicità, né sceglie di mortificarsi e nascondersi come se la violenza sia una sua colpa. Quello che ha subito le dà la forza di non piegarsi di fronte alla madre (Monica Contini) e alla sorella (Valeria Solarino) – che vorrebbero la soluzione più ragionevole per “una donna che non è sola” – e a Giorgio stesso, che vacilla nel suo essere uomo.
Raul Bova affronta con timidezza il suo personaggio, ma riesce con gli scatti nervosi degli sguardi e i sorrisi spezzati a renderne la scissione profonda, quel continuo interrogarsi su cosa significhi per lui amare Laura. Così, anche se bello, forte e sicuro di sé, Giorgio è costretto a mettersi in discussione come uomo e come padre rispetto a Laura che ama e che, proprio per questo, deve rispettare e proteggere anche da se stesso.
Gli amici – ottimi il compianto Manrico Gammarota e Marcello Catalano – si eclissano, la coppia resta sola a pensare al proprio futuro affiancata da un paziente e sensibile Maresciallo, interpretato dallo stesso Placido, che diventa una figura parentale, paterna per Laura e una guida silenziosa per Giorgio. La domanda non sarà più «Cos’è l’amore?» ma «Cosa significa amarsi?».
In questo film la musica ha un ruolo a sé, le mani di Laura descrivono l’ampiezza e l’intensità dei giochi canori delle voci bianche (i bambini del teramese Coro Nisea) di cui è maestra al Conservatorio: duetti (delizioso il “Duetto buffo di due gatti” di Rossini), risate che sembrano spontanee ma hanno conquistato la loro leggerezza dopo studio e sforzo. Le musiche di Luca D’Alberto – che per tutta la narrazione sviluppano l’intimità dei personaggi e fanno eco al loro tormento e allo slancio vitale – contribuiscono a rendere ancora più solida la psicologia di Laura. Lo stesso Placido sembra dirigere seguendo una scrittura musicale ben determinata, da canone inverso, mostrando grande attenzione alle pause, ai respiri, al fraseggio tanto che verrebbe voglia di mettersi ad ascoltare segretamente i respiri di due innamorati che si stringono in silenzio nella notte, per rubarne l’immensa e feroce tenerezza.
Written by Irene Gianeselli
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