Mario Monti, terminata anticipatamente l’esperienza di governo, ha ufficialmente assunto la guida del centro attraverso un’ampia coalizione di moderati che dovrà anche essere espressione del sentimento di rinnovamento morale e personale che i cittadini richiedono agli esponenti politici.
Ipotizzando una quasi sicura vittoria elettorale del centrosinistra, il centrodestra è impegnato nella persona di Silvio Berlusconi in una affannosa ricerca di alleanze strategiche che, se non assicureranno la vittoria, quantomeno potrebbero essere in grado di garantire un buon posizionamento in Parlamento. Nella fattispecie, l’ultimatum lanciato alla lega di Roberto Maroni è stato lapidario: o si fa una alleanza strategica o cadranno le giunte di Piemonte e Lombardia.
Da un quadro così incerto e frammentario si ricavano poche certezze se non quella che, a distanza di un anno dall’ interruzione delle attività proprie di un governo legittimato dal consenso elettorale, i principali attori della politica italiana si sono presentati all’elettorato offrendo, se ve ne fosse bisogno, un’immagine ancora più deludente.
Risulta difficile immaginare delle serie dinamiche di cambiamento laddove i programmi elettorali degli schieramenti risultano se non coincidenti quantomeno fortemente simili.
Mancano comprensibili progetti di riforma nel campo occupazionale. Parlare in senso astratto di crescita e di rilancio del lavoro è fin troppo facile se le esternazioni e gli intenti non sono accompagnati da una chiara pianificazione delle riforme da cui comprendere come verranno acquisite le risorse da immettere nella ricerca e nella reale creazione di posti di lavoro.
La lotta all’evasione e l’abbattimento della corruzione sono operazioni dalle dimensioni straordinarie che, proprio in virtù di ciò, comportano sacrificio e tempo. Molto denaro potrebbe affluire nelle casse statali ma i risultati migliori e maggiormente visibili si vedrebbero nel lungo corso.
Ma proprio il “fattore tempo”è oggi molto scivoloso poiché la gravità dei dati che caratterizzano gli indici economici e sociali è sempre più allarmante.
Più volte si è accennato alla composizione del debito pubblico e di come un’ampia porzione dello stesso si trovi nella titolarità di soggetti esteri: capire se in che misura sia possibile ridurne la consistenza ,azzerandolo anche solo parzialmente, costituirebbe una proposta politica di sicuro interesse.
Non è poi privo di interesse il tema legato alla nazionalizzazione delle banche e delle grande imprese. Un diretto controllo statale potrebbe costituire un elemento di controllo sulle posizioni debitorie delle medesime senza dover attendere negli anni la precipitazione della stabilità occupazionale.
Negli Stati Uniti alcuni dei primi a sollevare l’idea della necessità eventuale di una nazionalizzazione bancaria furono lo scorso autunno gli editorialisti del Wall Street Journal e l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan. Tuttavia, il concetto di base può portare a degli equivoci.
Nazionalizzare nel senso di “ripulire” i beni deteriorati e rimettere nel mercato un nuovo istituto che potrà essere acquisito da nuovi investitori rappresenta un operazione di nazionalizzazione temporanea e strumentale, e per ciò stesso pericolosa, non essendovi in tale evenienza alcuna idea che una banca possa essere acquisita e gestita in modo permanente non per gli interessi degli investitori privati ma per il più ampio interesse pubblico della nazione e dei suoi cittadini.
Sempre negli Usa, questi “beni deteriorati” sotto forma sia di “mutui deteriorati” sia di “cartolarizzazioni deteriorate” ammonterebbero ad una cifra che oscillerebbe tra i 4.000 e i 6.000 miliardi di dollari stando a diverse fonti come Fortune Magazine ed il Journal.
Quanto agli aspetti negativi, si tenga presente che affinchè un’operazione di nazionalizzazione funzioni è necessario disporre di una via d’uscita ed oggi nessuno è in grado di acquistare una delle grandi banche, date le loro enormi dimensioni. L’esempio di un paese qualle Svezia non è rilevante perché le sue dimensioni, quanto a popolazione, economia e sistema bancario, sono grosso modo pari a quelle di un stato americano piccolo.
Tuttavia, fatte e discusse queste premesse, una seria proposta politica in questa direzione attirerebbe l’interesse di un elettorato, quale quello italiano, senza dubbio logorato sia dal mordente della crisi reale sia dalle litanie dei leader politici ormai privi di alternative in grado di generare la discontinuità richiesta dalla contingenza.
Spesso gli effetti deteriori del capitalismo sfrenato non sono neppure richiamati in nome di un progressismo inconsistente. La sommatoria delle esigenze e delle domande reali di trasformazione ( sociali, ambientali, democratiche..) non sono sufficienti se fatte sotto la veste di un formale e nebuloso roosveltismo proclamato come soluzione della grande crisi. E che dunque un capitalismo riformato dal volto umano sia l'unico orizzonte concreto per cui battersi.
Non si scorgono proposte nuove. Si intravede, invece, la consueta rincorsa verso una gestione delle alleanze che privilegia la certezza della vittoria sulla qualità delle idee e dei progetti.
E’ quanto meno chiaro che dal 2008, l’inizio della grande crisi economica, un’ampia fetta della storia della politica e delle sue prassi siano state quanto meno messe in seria discussione.
Cristian Curella