Anna Lombroso per il Simplicissimus
Non passa giorno che insieme a qualche sciabolata non ci venga inflitta qualche puntura, come quelle provocate dalle spine delle rose, che quando ci passi un dito ti rammentano il piccolo dolore o il malumore. Viviamo tempi di feroce riscatto di premier fighetti, ministre squinzie, ancorché, ambedue le categorie, pericolosissime, esponenti quanto mai rappresentativi di batterie allevate nel privilegio e destinate a coronare ambizioni, collezionare successi facili, percorrere carriere puntellate da fidelizzazione, appartenenza, assimilazione spregiudicata.
Di sicuro sono più gradevoli a vedersi di no tav incazzati, operai di Pomigliano umiliati, inservienti di Autogrill stremati, che vengono di tanto in tanto mostrati in ostensioni dolorose quali esponenti di un’altra Italia, resi casualmente visibili come monito e raccomandazione a subire, a ubbidire, per non finire nella loro stessa voragine di esclusione.
E così si può far finta che, a meno che non si provenga appunto da sacri lombi, da famiglie e dinastie, da allevamenti ben curati di legioni sia pure esigue di vincenti, esistano ancora pari opportunità sia pure a costo della rinuncia a dignità e rispetto di sé, a costo di conformismo o di illegalità, a costo di compromessi e abiure.
Così se si vuole pubblicare un libro o si paga un editore Juke box, o ci si prostituisce con qualche illustre protettore e sponsor, o su cucina in Tv, o si partecipa al più feroce dei reality. Oppure, meglio ancora, si è figli di … E ieri sera la Sette – che non manca mai di proporci vecchi e nuovi boiardi, trasgressori redenti da rughe e muscoli frolli, venerati maestri che ammirano nei giovani coglioni la memoria di come sono stati, tutti in odor di renzismo, che se qualche volta dà voce alla luce dell’intelligenza e dell’anticonformismo, lo fa fuori dalle fasce protette, vedi mai che mietano qualche vittima – ha esibito il “divertentissimo” ma al tempo stesso profondo parto letterario di una figlia di.. che il un barlume di autocoscienza ha intitolato proprio così il suo libro edito da Rizzoli. Il tutto davanti a un Remo Bodei sconcertato di essere stato chiamato a dialogare e discettare con quei due monumenti di fatuità, arroganza, iattanza giovanile e non, futilità vanesia: Gruber e appunto la figlia di, in questo caso, Fuksas, l’archistar più costosa di Calatrava, più burbanzoso di Piano, più snob di Mendini. Il tema, prendendo spunto dal libro della graziosa e schizzinosa ragazza che ne parla così: “Non è la mia storia, ma quella di coloro che come me cercano di realizzare se stessi”, era l’originale confronto tra padri e figli, i patti generazionali, i vincoli che gli uomini hanno stretto tra loro anche nelle grotte di Altamira e che oggi sembrano farsi più labili, più fragili, più minacciati.
Di architetti ne conosco, spesso invece di progettare nuvole vorrebbero trovarne una dove collocarsi invece di insegnare applicazioni tecniche, di figli di architetti ne conosco e di solito i genitori li dissuadono da seguire le loro orme, a meno che non siano titolari di studi ben avviati e tenacemente posizionati nel sistema di piccoli e grandi appalti. Così a pensarci bene anche se la giovane Fuksas ha studiato architettura, le dobbiamo gratitudine, meglio un probabile brutto libro, che un ponte sbilenco, una nuvola inutile, un altare di cemento dedicato allo sperimentalismo e inabitabile.
Guardandola, pensosa, meditativa, con quel distacco dalle terrene miserie come a volte succede di vedere negli imbecilli riflessivi, sollecitava l’immancabile urlo: va in miniera, va a lavura’, servono braccia all’agricoltura e più ancora alla raccolta dei rifiuti. Soprattutto sentendo quella sua delicata rivendicazione di “servizio”, quella sua ammissione di appartenenza al ceto privilegiato che la leggiadra creatura offre come un dono agli altri, perché conquistino ragione di esistenza, coscienza di sé e si “risolvano” anche nelle complicate relazioni con padri ingombranti, in quanto ricchi, potenti, affermati, prevaricatori, influenti.
Mai vorrei tornare indietro, in famiglia si raccontava che le due intelligenti e creative figlie di Cesare Lombroso, che spesso il padre italiano dell’antropologia criminale condannava a ruoli di ghost writers da vero padre padrone, per affrancarsi scrivessero favole, una con il nome di Zia Mariù (e qualcuna di quelle storielle morali è arrivata anche agli ultimi sussidiari). Mai vorrei che giovani donne di genio fossero costrette ad esprimersi tramite diari segreti, destinati a veder la luce alla loro morte. Mai vorrei che una mente creativa fosse condannata alla rinuncia ragionevole, al sacrificio ineluttabile della propria vocazione. Ed è per questo che quella spina punge, tramite quella signorina di buona famiglia, affetta dall’ineluttabile complesso di Edipo, che invece di andare in terapia, trova accoglienza nella prestigiosa casa editrice e poi su tutti i media, come esemplare rappresentativo e molto carino dello scontro generazionale, risolto per i tipi della Rizzoli.
Verrebbe da dire come Woody Allen che non dobbiamo niente alle generazioni future, visto che loro non hanno fatto niente per noi. Invece , proprio come Bodei ha cercato di dire tra una ciarla e una risatina, un sospiro e un pigolio, ci sono doni da consegnare e dovremmo sentirci in dovere di trasmettere a chi viene dopo di noi, almeno qualcosa in più di quello che abbiamo ricevuto in sapere, bellezza, conoscenza, civiltà. E invece sono questi, ben al di là dei tormenti privati, delle battaglie emotive dei singoli, la nostra condanna, la nostra inadeguatezza, il nostro fallimento, non lasciare un’impronta salvo quella del tallone di ferro di nuove miserie, di autoritarismi che annientano conquiste e diritti, della rinuncia obbligatoria all’utopia e a un futuro che ha perso la luminosa bellezza del desiderio e della speranza.