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La scrittura segreta delle lumache

Creato il 07 aprile 2011 da Cultura Salentina

di Lorenzo De Donno

© Gianfranco Budano

© Gianfranco Budano: Houses

 

La primavera non arrivava mai inaspettata in quel cortile, stretto fra due file di vecchie case, nel centro di Maglie. Alla fine dell’inverno, tante vecchie latte, catini di creta e ogni recipiente che potesse contenere una manciata di terra rossa diventava un vaso dove piantare zinnie, dalie, fucsie, bocche di leone di tutti i colori, gerani rossi e viola, piccoli garofani profumati.

E’ banale associare le rondini alla primavera, eppure in quella zona, la porzione di cielo che si vedeva alzando lo sguardo, fra i muri di pietra leccese imbiondita dal tempo, era un intreccio di voli e un concerto di garriti, specie nel tardo pomeriggio, quando gli uccelli banchettavano con le zanzare ed i moscerini.

Il nonno sistemava queste piante su assi di legno appoggiate su grossi conci di pietra, che erano in quel cortile da secoli, nell’angolo più soleggiato. Sulle assi più in fondo i gigli bianchi e gli amarilli rossi, coltivati nei catini e nelle latte più capienti. Davanti, invece, le piante più basse e folte. Sul muro di lato fioriva, nonostante affondasse le esili radici   nel pavimento di chianche, un cespuglio di gelsomino semplice, dai piccoli fiori bianchi e profumati e dalla chioma scomposta e ricadente come i capelli di una vecchia pazza.

Ogni pomeriggio, appena il sole scendeva oltre i muri, il nonno  annaffiava le sue piante attingendo l’acqua dalla cisterna, che era proprio al centro del cortile. Sollevava il coperchio di ferro ed apriva un passaggio in  un mondo misterioso e oscuro.

Avevamo qualche attimo per vedere il riflesso dell’acqua ferma, qualche metro più sotto. Il secchio vuoto, lasciato cadere con gran fragore di catena, lo spezzava in mille frammenti, poi riemergeva, pieno d’acqua, portando su il profumo umido e freddo della cisterna.

Come fa un bambino a definire uno spazio buio oltre una “botola”? All’epoca non si riteneva utile dare spiegazioni ai bambini. E i nostri vecchi avevano un modo infallibile per tenerci lontani dai pericoli: la paura! Bisognava stare lontani dalla cisterna e, men che meno, tentare di usare il secchio, perché “potevano” tirarti giù in acqua in un attimo, mentre serravi fra le mani la catena pesante. “ Potevano”, certo, ma chi? Ognuno di noi piccoli, davanti a situazioni non conosciute, era libero di fare le proprie deduzioni sulla base delle sue, limitate, cognizioni tecniche e della sua smisurata immaginazione.

Infatti, se mai avessi creduto all’esistenza di creature misteriose, sirene e mostri acquatici, pesci dai grandi occhi, sicuramente avrebbero abitato quelle acque scure. Grotte, passaggi segreti, tutto poteva essere reale in quel luogo inaccessibile.

Il secchio risaliva lentamente, sfiorando le scie luminescenti di bava lasciata dalle lumache sulla bocca della cisterna, frenato dal peso del suo contenuto e riversando un po’ dell’acqua raccolta ogni volta che una delle mani cambiava la presa, mentre l’altra si allungava verso il basso a trovare il punto più lontano della catena. Intanto il riflesso del cielo, sotto, si ricomponeva piano piano.

Scie di bava che diventava lucente come madreperla sulle pietre scure di muffa, che disegnavano scritture indecifrabili, forse minacce degli abitanti dell’acqua buia contro chi avesse mai tentato di avventurarsi in quel mondo liquido e sotterraneo. Per questo ogni volta che riuscivo a sporgermi all’interno della cisterna, sorretto dalle forti mani del nonno, gridavo con tutta la mia voce:  – SCEMO!!!!!!

E attendevo che le creature dell’acqua, indispettite, mi rispondessero “scemo…emo….emo…”


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