La sera è arrivata della fine dei giorni di festa.
Il mio gatto, dovrei dire che è dei miei ma non ci riesco, si appallottola sul mio profilo.
Ho ascoltato oggi per la prima volta che gli anni passano.
Prima lo percepivo, adesso l’ho ascoltato.
Affondo le mani nel suo pelo rosso, guardo i poster di quando ero ragazza: i Beatles, la cometa di Hale-Bopp, che ripasserà tra nonsoquanti milioni di anni, due stampe naïf, un olio su tela e una foto intitolata Monfalchino.
La nostalgia è una voragine che mi si apre nello stomaco, un senso di inquietudine antico. Antico, perché la sentivo anche già in quinta elementare, questa voragine che mi proiettava nel mondo delle fiabe, a quando ancora ci credevo, un mondo che già da undicenne sentivo essermi sfuggito dalle mani per sempre.
Adesso la fiaba lascia il posto alla realtà, ma quel giardino che è stata la mia infanzia e la mia adolescenza e tutti i miei errori è ancora vivo e rigoglioso nel mio essere.
Dentro di me c’è quella bambina che sognava e si inventava le storie riscrivendole a rovescio, l’adolescente nostalgica che ad aprile annusava dai tetti il profumo dei gelsomini, la ragazza che sognava di partire e per questo si iscrisse a traduzione, quella che partì davvero e da allora non è ancora tornata, che ha imparato allora, dalla nonna di una sua amica, che il profumo dei fiori d’arancio è dolce da raccogliere nel proprio seno; quella che da adulta ha vissuto in riva al mare e ancora non se lo dimentica, che ama il vento perché rende tutti nervosi e invece lei ci si perde.
C’è la donna che adesso ama le sue rughe e i suoi primi capelli bianchi, che non vuole nascondersi dietro la chirurgia, che ama i suoi anni e che si vedano perché sono suoi e nessuno glieli può togliere.