La sfida del Venezuela: l’opportunità che nasce dalla crisi

Creato il 09 marzo 2015 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Il testo seguente è quello pronunciato da Daniele Scalea, Direttore Generale dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) al convegno “La situazione attuale in Venezuela“, svoltosi a Roma lo scorso 4 febbraio.

 
Il mio ruolo oggi è di fare una breve introduzione di quelle che sono le tappe che hanno portato alla situazione attuale del Venezuela. Inizierò presentando qualche dato che permette di delineare un brevissimo profilo del Paese, concentrandoci poi sul petrolio ed il gas che hanno permesso i successi della politica di Chávez, terminando con la dipendenza da queste risorse – problema che si è evidenziato con il brusco calo del prezzo del petrolio, nel secondo semestre dello scorso anno, e che pone il Venezuela davanti ad una necessità/opportunità, quella della diversificazione economica e dunque del progresso del suo sistema produttivo.

Il Venezuela ha una superficie territoriale tripla rispetto a quella dell’Italia ma vi è una disparità di terra arabile. Il Venezuela è molto ricco di acqua ma è poco ricco di terreni che possono essere sfruttati dall’agricoltura. Questo è essenziale, perché ha determinato la necessità per il Venezuela di importare beni alimentari. Ha una popolazione che è meno della metà di quella italiana ma è molto più giovane di quest’ultima. Il tasso di crescita è decisamente più alto e c’è una forte disparità nell’età media: l’Italia è un Paese decisamente invecchiato, mentre il Venezuela è un Paese giovane.

Ho voluto riportare anche alcuni dati che mi incuriosivano, perché il Venezuela è un Paese socialista e spesso, quando pensiamo al socialismo qui in Italia, ci viene in mente un paese in mano alla burocrazia, dove tutto il denaro finisce nelle mani dello Stato, dove lo Stato governa tutto. Tra questi dati ho trovato molto interessante il consumo statale sul PIL – in Venezuela è il 13,2% mentre in Italia è del 20,6 % – e l’insieme delle tasse e delle imposte – che in Venezuela ammontano al 28,1% del Pil, molto meno del 47,6% purtroppo raggiunto nel nostro Paese.

La grande risorsa e ricchezza di questo Paese è il petrolio: da un po’ di tempo le riserve provate del Venezuela hanno superato anche quelle dell’Arabia Saudita divenendo le prime al mondo. Il Paese è il 13° produttore al mondo, l’8° per esportazioni di petrolio greggio e l’11° per quelle di petrolio raffinato. Per il futuro si preannuncia anche una nuova promessa, quella del gas naturale, perché in Venezuela oggi si hanno le ottave riserve provate al mondo; ma si è ancora molto indietro nella produzione (è il 30° produttore al mondo e produce solo per il consumo interno). Ha moltissime potenzialità di sviluppo negli anni a venire.

Chávez, presidente per 14 anni circa, dal 1999 al 2013, ha condotto una politica a livello sociale ed economico rivoluzionaria. Alcuni dei suoi successi non possono essere negati nemmeno dai più accaniti detrattori perché sono indicati e mostrati chiaramente anche da alcune statistiche che non possono mentire. Per esempio il fatto che in 14 anni la povertà si sia abbassata da quasi il 50% al 25,6% (è ancora un dato molto elevato ma se pensiamo che oggi in Italia sfiora il 30 % riusciamo a contestualizzarlo). L’Indice di Gini è l’indice statistico che indica l’equità della distribuzione del reddito: più è basso più la distribuzione è equa. L’Indice di Gini nel periodo della presidenza di Chávez è passato da 50 a 39: è un dato molto più alto rispetto a quello europeo (dove abbiamo, ancora per poco mi verrebbe da dire, uno Stato sociale che permette una certa ridistribuzione del reddito) ma per l’emisfero occidentale è notevole, poiché solo il Canada è paese più equo, mentre gli Usa decisamente non lo sono (l’Indice di Gini negli Stati Uniti è di 45).

La spesa per l’educazione con Chávez è passata dal 3,4 al 6,9% del Pil (molto più alta che in Italia). La spesa per la sanità dall’1,6 al 5,2% (una cifra ancora bassa per gli standard occidentali ma è decisamente aumentata). La malnutrizione è calata nettamente, dal 21% al 6%.

Va citato, perché ha attinenza con quello che sta succedendo in questi giorni, anche il dato della missione Mercal, ossia i 17000 punti vendita che sono sostanzialmente dei supermercati gestiti dallo Stato dove vengono venduti i beni essenziali, soprattutto alimentari, con una sovvenzione statale ad un prezzo decisamente minore rispetto a quello di mercato, in media del 30%.

Come ha fatto Chávez ad ottenere questi successi? Essenzialmente agendo sulla redistribuzione dei proventi del petrolio. L’industria petrolifera in Venezuela era già stata nazionalizzata nel 1976, quando era nata la PDVSA, ma questa nazionalizzazione non era stata completa: la nuova compagnia di Stato aveva semplicemente incorporato le vecchie compagnie private (a livello di personale, anche dirigenziale).

Nel 2001 Chávez ha varato una legge sugli idrocarburi che serviva a correggere quello che non era stato fatto nel 1976, nel tentativo di spostare una quota sempre maggiore dei proventi del petrolio verso il bilancio statale per investirlo nel sociale. Ciò scatenò una serie di scioperi condotti dalla compagnia, che si legavano con una fase drammatica della politica del Venezuela, perché gli scioperi di inizio del 2002 sono strettamente connessi con il golpe che cercò di spodestare il governo di Chávez; mentre la nuova serrata del 2003 si concluse con quella che Chávez stesso chiamò la rinazionalizzazione. Quella che ha portato la quota statale dal 20% al 60% dei proventi totali, fornendo quindi una grossa disponibilità di denaro che il Venezuela ha potuto impiegare in tutte quelle missioni sociali che hanno dato i risultati appena descritti.

Ci sono state anche alcune ombre del governo Chávez che vengono spesso rimarcate: quello che qui più ci interessa è l’aggravarsi di una dipendenza dell’economia venezuelana dal petrolio. Una dipendenza che è arrivata oggi a contare per il 96% delle esportazioni del Venezuela. Questo significa che, dal momento che il Venezuela produce poco dei beni essenziali all’interno, ha bisogno di importare e per importare è necessaria una moneta forte, che in genere è il dollaro statunitense. Questa moneta forte in Venezuela si può acquisire tramite la vendita del petrolio, e dipendere dalle importazioni della moneta forte al 96% dal petrolio significa esporsi a problemi derivanti dai cambiamenti del prezzo dello stesso. Un cambiamento enorme lo abbiamo avuto nell’ultimo semestre.

Da cosa deriva questo calo del petrolio? Ci sono diversi fattori, ma il primo che non andrebbe mai dimenticato è un fattore non strutturale ma che forse lo sta diventando, quello della speculazione. Perché nessun evento naturale, economico, industriale e tecnologico arriva a giustificare questa altalenanza del valore del petrolio. Quello che la determina più di tutti in verità sono i movimenti di mercato, i movimenti speculativi che tendano ad esacerbare le tendenze, al rialzo come al ribasso. Ci sono anche questioni strutturali: la crisi globale del 2008 che ha calato, soprattutto in alcuni paesi come l’Europa e il Giappone, la richiesta del petrolio; il fatto che la Cina, al momento il paese che più di tutti conta per l’aumento della domanda di petrolio, stia investendo fortemente nello sviluppo dell’energie rinnovabili; le nuove tecnologie, l’introduzione nel mercato del petrolio bituminoso e del gas di scisto soprattutto negli Stati Uniti. E non ultima la decisione recente dell’Arabia Saudita di non reagire a queste tendenze al ribasso del prezzo, di non tagliare la produzione e mantenerla costante.

Dietro questa decisione ci sono essenzialmente motivazioni di natura strategica e politica: sicuramente c’è la volontà di provare a tagliare fuori la concorrenza rappresentata dal gas di scisto e dal petrolio bituminoso, che sono fondamentalmente più cari rispetto a quelli tradizionali. Abbassare il prezzo significa renderli non concorrenziali. E poi ci sono importanti fattori politici. Anche l’Arabia Saudita perde da questa politica, ma ha ingenti riserve finanziarie che le permettono di resistere più di altri paesi. Gli Stati Uniti sono stretti alleati dell’Arabia Saudita e hanno la possibilità di influenzarne la politica. Vogliono vedere indeboliti la Russia, l’Iran e il Venezuela, che è uno dei paesi che più sta pagando questa politica.

Ciò crea una necessità che è anche un’opportunità che il Venezuela può cogliere, perché ancora ha delle riserve di denaro da gestire anche se stanno calando rapidamente; ha ancora l’appoggio della Cina che recentemente ha concesso dei nuovi prestiti al Venezuela. Questa è la scommessa della diversificazione economica e in particolare dello sviluppo dell’industria manifatturiera. Perché l’industria del Venezuela, che è già rilevante come percentuale sul Pil (il 34,9%, sopra la media mondiale), è essenzialmente industria estrattiva.

Il vero problema è che l’industria manifatturiera in generale un po’ in tutta l’America Latina non ha un grosso peso. Il Venezuela, in particolare, è molto indietro per quanto riguarda l’alta tecnologia, quella che dà più valore aggiunto e che ha più ricadute a livello sociale: essa è solo al 2% sul complesso del suo export manifatturiero, molto indietro rispetto a tutti gli altri paesi sudamericani, in particolare rispetto a Messico e Brasile che superano il 10%. Il Venezuela ha un’elevata dipendenza dalle importazioni. In verità il dato in sé non è cosi pregnante: tutti i paesi avanzati tendono a dipendere con percentuali del 30% dalle importazioni. Nel caso venezuelano però si tratta di importazioni di beni essenziali, non di beni che poi vengono lavorati e producono un valore aggiunto: si tratta di beni che semplicemente vengono consumati.


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