di Alessandro Volpi e Piotr Zygulski
Le Elezioni Europee, un appuntamento che potrebbe rivelarsi decisivo per il futuro del Vecchio Continente, sono imminenti. L’importanza dell’evento non è legata tanto alla composizione del Parlamento Europeo che si avrà, visto lo scarso potere decisionale di questa istituzione, quanto al fatto che costituisce un termometro importante per valutare l’atteggiamento dei cittadini nei confronti del “sogno europeo”. La scelta di portata storica che siamo chiamati a fare è, in primo luogo, tra “più UE” e “meno UE” (o “niente UE”); tutto il resto può passare in secondo piano, anche perché spesso è conseguenza di tale decisione.
Scandagliando l’intero ventaglio elettorale, le posizioni nei confronti delle politiche europee presentano differenze rilevanti o sfumature che, però, possono essere determinanti. In questa tornata elettorale, dopo anni di crisi economica generalizzata, e di continui fallimenti di quelle politiche di austerity prescritte dalle istituzioni europee, quasi nessuno ha ancora il coraggio di sostenere “questa Europa”, se non coloro che hanno beneficiato di questa situazione e con ottusità vogliono mantenerla, in testa la cancelliera tedesca Merkel. Nei paesi più colpiti dalla crisi economica, tra cui la nostra Italia, nessuno può sperare di ottenere consensi elettorali difendendo l’austerità, tuttavia molte critiche restano “europopulisticamente” retoriche, per cui vi è chi, come Matteo Renzi, promette di cambiare l’Europa e di far ripartire la crescita rimanendo nel vincolo criminale del Fiscal Compact e degli altri trattati europei. La logica è quella del cagnolino fedele che attende il biscottino messo in premio dai burocrati eurocratici, con buona pace della democrazia e dello stato sociale, smantellato pezzo per pezzo da anni di politiche neo-liberiste e da privatizzazioni mostrate come indispensabili per “salvare” l’Italia, in realtà solo una ghiotta occasione data alle oligarchie per fare shopping a buon mercato.
Rimanendo nel fronte europeista, ma in netta contrapposizione alle politiche europee di rigore, troviamo Alexis Tsipras, leader della coalizione della sinistra greca SYRIZA, candidato del Partito della Sinistra Europea per la Presidenza della Commissione Europea. In Italia gode del sostegno di una lista ad hoc, denominata L’Altra Europa con Tsipras e composta da Azione Civile, Partito della Rifondazione Comunista, Sinistra Ecologia e Libertà e Verdi del Sudtirolo/Alto Adige. L’impianto ideologico, che taluni definiscono “euro-scetticismo soft” (o “euro-criticismo”), unisce alla forte opposizione alle misure di austerity, con accenti anti-capitalisti ed anti-atlantici alla convinzione della necessità di un rafforzamento e ripensamento dell’Unione Europea come unico fronte possibile per l’uscita dalla crisi economica attraverso una svolta a sinistra. La proposta per una “Europa dei Popoli” implica il ripensamento della BCE, la sospensione del Fiscal Compact e di ogni politica di austerità, la lotta alla disoccupazione con il varo di un New Deal europeo, maggiore tutela sociale, sostegno alle piccole e medie imprese e un bilanciamento macroeconomico tra gli stati membri, con una parziale condivisione del debito pubblico che può essere data ad esempio con l’emissione di eurobond. Pur presentando una posizione alternativa e con numerosi spunti interessanti, la proposta di Tsipras – dal momento che non è minimamente intenzionata a mettere in discussione il dogma della moneta unica europea – rischia di rimanere una mera carta di intenti, utile soltanto a creare l’altra faccia della medaglia di quel dominio eurocratico che ha gettato le nazioni in questa condizione. Una critica che accetta senza se e senza ma l’unità monetaria, pensando come unico fronte d’azione quello interno alle istituzioni europoidi – quasi sempre si tratta solo dell’insignificante Parlamento Europeo – ha una possibilità di riuscita molto bassa e può diventare un’utile stampella per gli euristi vacillanti.
Se SYRIZA in patria, pur con notevoli contraddizioni e ambiguità, ha dimostrato di essere un partito di opposizione al PASOK, i sostenitori italiani di Tsipras molto difficilmente riusciranno ad emanciparsi da quel piano inclinato che li porta abitualmente ad avvicinarsi ai partiti ulivisti “democratici” – che, non dimentichiamocelo, in Italia sono stati i principali artefici delle politiche euro-liberiste e di privatizzazione – di cui hanno sempre costituito un utile ricettacolo dei voti degli elettori più radicali, dando alle varie coalizioni l’illusione di rappresentare le classi sociali più deboli. Sia SEL che il PRC si sono più volte presentanti in coalizione con (P)DS e PD, spesso fungendo da stampella per i loro governi, ma con un peso decisionale pressoché nullo. Il sospetto che abbiamo è che l’operazione Tsipras non sia altro che una “strategia Obama-style per l’UE”, quale risposta all’improponibilità elettorale degli artefici dell’austerity, un maquillage delle istituzioni “comunitarie” – sappiamo benissimo che in esse di comunitario vi è ben poco – per mantenere vivo il “sogno europeo”.
Si cambia volto, e si diventa più ipocriti. Una prova di ciò è data dal fatto che i primi promotori italiani della Lista Tsipras – i cosiddetti “garanti” – siano le massime gerarchie del Clero Intellettuale di sinistra, quello che per un ventennio dalle colonne del giornale-partito La Repubblica si è prestato al teatrino del berlusconismo/antiberlusconismo, al fine di rendere innocuo il malcontento, canalizzandolo in questo falso scontro. Anche qui, la presunta radicalizzazione delle posizioni, senza però mettere in discussione le regole fondamentali del gioco – perché, come insegnava Adorno, “la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta” – è garanzia della conservazione dello status quo; si ripropone ancora una volta la gattopardesca espressione: “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Il fatto che La Repubblica oggi “diversifichi” il proprio sostegno elettorale tra la Lista Tsipras e il Partito Democratico – con tanto di articoli ed editoriali a sostegno vuoi dell’una, vuoi dell’altro – non deve essere letto come un sintomo di schizofrenia, ma deve muoverci il sospetto che quelle che vengono mostrate come alternative siano in realtà riconducibili ad un’unica adesione al progetto eurocratico, in Italia spalleggiata dal potente gruppo CIR-L’Espresso dell’oligarca De Benedetti. Un altro segnale è Nichi Vendola – quello del “f”ogno europeo – il quale dichiara di essere “con Tsipras, ma non contro Schultz”, provando così a tessere un accordo di desistenza tra i “socialisti” europei – che con i liberali dell’ALDE e i popolari del PPE costituiscono la triade più decisamente eurofila – e le sigle della “sinistra europea”.
Se invece si prendono le mosse da quello che per noi è un incontestabile dato di fatto, cioè dalla natura intrinsecamente neoliberista dell’UE, dei suoi trattati, delle sue istituzioni e della pianificazione criminale di tale scenario – in Grecia a causa delle misure imposte dalla Troika più di un terzo della popolazione è a rischio di esclusione sociale e il 19,5 dei greci vive in una condizione di grave povertà (dati ELSTAT 2012) – risulterà evidente l’assurdità di quel progetto di riforma dell’UE dall’interno che Tsipras asserisce di voler portare avanti. Come ha esposto efficacemente Leonardo Mazzei, questi “altreuristi” «che vorrebbero l’estate senza l’afa, la rosa senza spine, l’uovo senza colesterolo» non tengono conto del fatto che, se «in astratto tutto è riformabile, pure la CIA e la P2», realisticamente non è possibile «credere alla riformabilità di questo mostro edificato con tanta pazienza in 57 anni», nel corso dei quali i partiti (euro)comunisti hanno avuto un peso elettorale anche molto più consistente di quanto non abbia oggi la sinistra europea. Questo non significa rifiutare una prospettiva europeista (si parla di anti-UE, non anti-Europa), cioè un’auspicabile cooperazione alla pari tra stati europei, ma abbandonare il “lager eurocratico” – i morti si contano già a migliaia – che è la negazione palese di tutto ciò.
Sul fronte opposto, alla guida di un’eterogeneo schieramento di partiti che sostengono la necessità dell’uscita dall’Euro, troviamo Marine Le Pen, leader del Front National francese, anche se de facto non è candidata alla presidenza della Commissione Europea. Questa galassia però non raccoglie tutte le forze dell’“Euroscetticismo hard”, ne rimangono escluisi, per evidenti motivi di incompatibilità ideologica quei partiti, sì sovranisti, ma di matrice comunista, come il KKE. In realtà, anche tra i vari alleati europei, Marine Le Pen non può contare una completa coesione politica: si va dall’UKIP di Nigel Farage, che chiede l’uscita della Gran Bretagna (che ancora gode di moneta sovrana) dall’Unione Europea, alla più modesta proposta della Lega Nord di Matteo Salvini che vuole solo l’uscita dall’Euro. Ci sono pertanto molte sfumature di anti-europeismo, che spesso cavalca malcontenti e problemi nazionali.
Il grande merito che si deve attribuire a Marine Le Pen e soci è quello di aver posto come prioritaria la necessità dei singoli pesi di riconquistare la propria sovranità, poiché l’UE si è palesata come un dispositivo – per dirla con Foucault – irriformabile. Il completo disinteresse del destino dei popoli europei da parte delle istituzioni europoidi che hanno un peso decisionale è conseguenza necessaria delle proprie premesse costitutive. Già dalla lettura del Trattato di Maastricht, che nel 1992 creò l’UE, si poteva comprendere come la libera circolazione di merci, servizi e capitali e persone (anch’esse trattate alla stregua di merci) fosse il fine primo di questa “unione”, appunto fondativamente liberoscambista. Per citare alcuni passi del Trattato: “eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”, “un regime inteso a garantire che la concorrenza non sia falsata nel mercato interno”… La compiuta realizzazione di questo progetto è ovviamente la moneta unica europea; affidando la gestione della moneta – che, come sosteneva due secoli fa David Ricardo, dovrebbe essere un bene pubblico – nelle mani di burocrati proni alle oligarchie economiche, i singoli Stati vengono privati della possibilità di attuare politiche economiche autonome, e si trovano costrette a rispettare i diktat europei.
Crediamo ragionevolmente che si possano esprimere due riserve nei confronti di questo schieramento euroscettico.
Uno riguarda il retaggio razzista e islamofobo del Front National che, anche se affievolitosi nel tempo, rimane vivo, se non altro con l’intento di mantenere quei serbatoi di voto “identitario”, ossia per ravvivare il sostegno dei “vieux frontistes” affezionati ai riferimenti simbolici cari a Jean-Marie Le Pen che ammiccano al neofascismo. Questo anche per mascherare il graduale parricidio ideologico che la figlia Marine sta portando avanti. Un fenomeno analogo avviene per quanto riguarda la Lega Nord in Italia, che, pur avendo posto la questione “anti-euro” come prioritaria – tanto da sostituire per le europee nel simbolo la dicitura “Padania” con “Basta Euro” – non ha abbandonato la retorica anti-immigrati “che portano l’ebola” e anti-meridionali “puzzoni” per garantirsi l’appoggio dello zoccolo duro leghista (circa un milione di elettori) che si riconosce quasi esclusivamente in queste battaglie propagandistiche che spesso restano sul terreno del “folklore padano” (Carroccio, Pontida, Dio Po, ecc.). In Italia, tuttavia, sono in pochi a comprendere che larga parte degli oltre tre milioni di voti ottenuti in passato si sono dileguati dopo gli scandali giudiziari degli ultimi anni e difficilmente torneranno tutti all’ovile, quindi se la Lega riuscirà a ristabilirsi sulle cifre degli anni d’oro sarà merito dell’afflusso di un elettorato differente, anche dal punto di vista delle esigenze politiche da soddisfare.
L’altro dubbio sul Front National, a nostro avviso ragionevole, è speculare alla critica che muoviamo a Tsipras. Se Tsipras vuole il socialismo senza l’uscita dall’euro, quindi senza la necessaria mediazione dello stato-nazione, al contrario, c’è il rischio storicamente fondato che alcuni nazionalismi possano portare avanti il progetto di un’“Europa delle Nazioni” senza socialismo, cioè alleandosi con le oligarchie nazionali. In questo senso arrivano segnali contrastanti dai vari partiti, anche se sia Marine Le Pen in Francia, sia il “comunista padano” Matteo Salvini – che vuole l’abolizione della Legge Fornero ed è insofferente alla precarizzazione del lavoro – in Italia sembrano approdati a posizioni sociali anche avanzate.
Per concludere, sull’“euroscetticismo hard” padano il nostro giudizio non può che rimanere sospeso: da un lato lasciano ben sperare alcune candidature di spessore, come quella del professor Borghi, ma non si può nemmeno dimenticare il fatto che in passato aveva vergognosamente ratificato i trattati di Maastricht, di Lisbona e il pareggio di bilancio in Costituzione; non è quindi da escludere che sia solo una mossa elettoralistica.
In alternativa all’europeismo dommatico tsipriota e all’anti-europeismo frontista-leghista si pone una terza via, tutta italiana, rappresentata dal Movimento Cinque stelle. Affronta questa tornata elettorale forte dell’importante opposizione fatta in Parlamento durante l’ultimo anno, in cui si sono distinte sono distinte alcune personalità che stanno diventando anche familiari all’opinione pubblica, dopo una prima fase di anonimato. Se alcuni elettori più indecisi sono rimasti delusi dal mancato sostegno ad un governo di centrosinistra, chi ha compreso l’irriducibile diversità del movimento dai partiti tradizionali dediti ad alleanze ha soltanto rafforzato la propria convinzione perché ha avuto modo di apprezzare la forte coerenza dimostrata. La posizione ufficiale del M5S è compendiata nei “7 punti per l’Europa” presentati da Beppe Grillo durante il V-Day 3, svoltosi a dicembre a Genova e sottoscritti, più o meno entusiasticamente, da tutti i candidati di questa tornata elettorale.
Già qui è evidente una contraddizione tra scelta democratica dei candidati e imposizione del programma da parte di una volonté générale di rousseauiana memoria; ma lasciamo perdere queste sfumature ed entriamo nel merito. Se si analizzano i “7 punti” in una prospettiva d’attuazione sincronica, risulta evidente la contraddittorietà tra le misure contenute che, in una disordinata sovrapposizione, palesano l’ambiguità strutturale della proposta, che si riflette ovviamente anche nei discorsi di molti candidati a cinque stelle. La sovrapposizione di cui si parla è tra l’ideologia tsipriota dell’“Europa dei popoli” e quella frontista-leghista dell’“Europa delle nazioni (sovrane)”. Tuttavia sembra scomparrire nel momento in cui si attui una prospettiva diacronica della proposta pentastellata.
Infatti, come suggeriscono in ogni occasione i candidati del M5S (qui un esempio), il “piano A” sarebbe quello di andare in Europa a “sbattere i pugni sul tavolo” per far “cambiare rotta” all’UE“, ridiscutendo tutti i trattati. Con questa mossa il M5S spera di ottenere in un colpo solo:
- l’abolizione del Fiscal Compact (punto 2)
- l’adozione degli Eurobond (punto 3)
- l’esclusione degli investimenti in innovazione e nuove attività produttive dal limite del 3% annuo di deficit di bilancio (punto 5)
- finanziamenti per attività agricole e di allevamento finalizzati ai consumi nazionali interni (punto 6)
e, in un orizzonte temporale più ampio, maggioranze parlamentari italiane permettendo,
- l’ abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione (punto 7).
Solo nel caso in cui non si riuscissero a preseguire questi risultati si ricorrerebbe al piano B che prevede il famigerato “referendum per la permanenza nell’Euro” (punto 1), sul quale il popolo italiano verrebbe interpellato direttamente. Comunque sia, anche presi singolarmente, questi punti risultano elusivi della questione fondamentale: una presa di posizione chiara e realistica sulla moneta unica. Nulla da fare: checché ne dicano molti, il M5S è sin troppo moderato. L’attendismo – che ancora presumiamo in buona fede – del «bisogna prima informare gli italiani» nella formulazione dello stesso Grillo, rischia concretamente di alimentare fughe di capitali, speculazioni di vario tipo e prolungare ulteriormente l’attuale crisi. Come osserva a tal proposito il professor Rinaldi, tutti i punti del programma del M5S potrebbero essere soddisfatti – senza alimentare l’ennesima spirale di illusioni e delusioni, in questo caso sulla riformabilità dell’eurocrazia – con l’uscita dall’Euro, che farebbe decadere molti dei vincoli stringenti.
Ma anche il ritorno alla valuta nazionale, che riteniamo essere “la” via d’uscita, non deve essere preso sottogamba. Infatti, i professori Brancaccio e Garbellini in due saggi di prossima pubblicazione analizzano le conseguenze economiche di numerosi episodi di “crisi valutaria” e giungono alle conclusioni che, pur ipotizzando un aumento dell’inflazione temporaneo e relativamente contenuto, fenomeni di questo tipo comportano in media una riduzione della quota salari (cioè della quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori subordinati), mentre il salario reale nei paesi ad alto reddito impiega qualche anno per tornare ai livelli pre-crisi. I due economisti osservano che si tratta di dati medi, perché la «variabilità delle dinamiche può essere anche molto elevata» a seconda dei contesti nazionali e delle politiche economiche adottate. E citano due casi differenti: Italia 1992, in cui si ebbe una riduzione sia del salario reale, sia della quota salari, e Argentina 2002, che «affrontò l’abbandono della parità con il dollaro con una politica salariale espansiva, che comportò un notevole incremento delle retribuzioni e della quota salari». Inoltre non va mai dimenticato che, in assenza di una siffatta alternativa, siamo condannati alla deflazione salariale imposta all’Eurozona che, nel caso greco tra il 2009 e il 2013, ha segnato uno spaventoso -22%, con una quota salari diminuita circa dell’8%.
Ferma restando l’incognita di ogni evento futuro, è possibile quindi imprimere una direzione redistributiva alla crisi valutaria durante la sua gestione; si tratta in gran parte di volontà politica. La stessa che, per affermare il perseguimento di una vera sovranità monetaria, non può esimersi dal nazionalizzare la banca di emissione, che va ricondotta al ministero del Tesoro per contenere lo sciacallaggio sugli interessi, per pianificare in maniera coordinata politica economica e politica monetaria, introducendo misure di sano protezionismo che prevedano un controllo stringente sulla circolazione di merci e capitali. Cosa di fatto impossibile nel mercato unico europeo e all’interno dell’UE; sarà pertanto inevitabile uscire anche dall’intero baraccone eurocratico e dal sistema di alleanze nordatlantico. Ma per fare tutto ciò abbiamo bisogno di una politica – e soprattutto di una classe dirigente – determinata e inflessibilmente orientata al bene comune; nulla di tutto ciò sembra profilarsi all’orizzonte, ma non abbandoniamo la speranza nelle energie di questa nazione. In tal caso si potrebbero adottare provvedimenti di più ampio respiro in grado di rivoluzionare strutturalmente il sistema economico: per avere un’“economia umana” non basterà di certo separare le banche d’affari da quelle commerciali, ma occorrerebbero ripensamenti assai più radicali, a partire dall’escludere gli intermediari finanziari dal regime di imprese di mercato. Però, perlomeno in questa sede, un passo alla volta; torniamo dunque alle imminenti consultazioni elettorali.
Come abbiamo evidenziato nell’articolo, tutte le prospettive elettorali mostrano lacune e punti deboli, più o meno marcati. In ogni caso è importante farsi un’idea della composizione delle liste e cercare di conoscere i singoli candidati, perché si possono trovare persone valide.
Nonostante le molte perplessità, pensiamo che orientativamente la scelta migliore sia quella di mantenere un atteggiamento di simpatia critica nei confronti del M5S e di sostenere in particolare quei candidati maggiormente euro-scettici che potrebbero spostare la linea del movimento sempre più verso la presa di coscienza della necessità di uscire dal progetto eurocratico, per tornare alla sovranità monetaria, che è il presupposto di quella politica. M5S perché, pur con tutte le contraddizioni interne e le debolezze della proposta programmatica, è stato l’unico a dimostrare sul campo di fare una reale opposizione in Parlamento, perché assume una posizione davvero popolare (e perché no, anche orgogliosamente populista) contro le élites, perché crede nella partecipazione comunitaria di tutti i cittadini alla vita pubblica, che si rivela il miglior antidoto a leaderismi e ad antipolitica, perché è coerentemente intransigente e imprevedibile al tempo stesso, ma soprattutto perché una sua affermazione sopra le percentuali del PD potrebbe infliggere un colpo difficile da digerire per quei governi oligarchici – tecnocratici, o comunque tecnoguidati – delle larghe intese che, nel nome degli interessi di pochi, hanno devastato la nostra nazione.