Ne avevo già parlato, della necessità e del dovere e della bellezza di un ‘leggere’ liberato da quell’alone d’intellettuale elitarismo che soprattutto dalle nostre parti è diventato col tempo allergia nazionale e cronica disabitudine alla lettura.
Poi, nel supplemento domenicale del Corriere della Sera, ecco alcune pagine dedicate a #ioleggoperché, un’iniziativa nazionale per la promozione del libro e della lettura organizzata dall’Aie (Associazione Italiana Editori) con la partnership del Corriere, di Repubblica, di Mondadori e di Raitre.
Veniamo così a conoscere i Summer readings statunitensi e la filosofia open source di Peter Brantley – per cui occorre “leggere dappertutto, qualunque cosa e su qualunque supporto” – per poi andare in Sudafrica a confrontarsi con programmi e progetti educativi portati avanti da Neville Alexander (compagno di lotta di Nelson Mandela) fino a tornare in Italia, con le letture ad alta voce di Libriamoci e con le molte altre iniziative portate avanti da associazioni, fondazioni e librerie varie: conquistare nuovi lettori, riavvicinare ai libri gli ex lettori e formarne di futuri, perché, come evidenziato anche alcune settimane fa alla Fiera del Libro per Ragazzi di Bologna, lettori non si nasce, si cresce.
A seguire, in un altro articolo – che però non compare nel supplemento – leggo le parole dell’amministratore delegato di Giunti (casa editrice che non aderisce all’AIE) che considera iniziative quali #ioleggoperché poco efficaci e ribadisce che il lettore, tendenzialmente, non si recuperi: si formi. Segue un invito agli (aspiranti) scrittori perché si facciano avanti, si propongano, si facciano sentire. E per finire vari interventi d’altri giornalisti che criticano apertamente #ioleggoperché e il programma televisivo con cui è stato promosso, critiche senza dubbio pertinenti e condivisibili, incentrate soprattutto sulla bassa qualità dei libri e degli autori proposti e sulla perfetta rappresentazione ‘mediatica’ dei mali che affliggono l’editoria (la televisione, la politica, la società) italiana: l’ennesimo teatrino di ospiti, chiacchierate da pomeriggio domenicale, un po’ talk show, un po’ dibattito, un po’ promozione, un po’ bella presenza, un po’ tradizione e poca, pochissima innovazione. Impietoso il confronto con gli esempi del nostro passato quali “Chi legge?” di Soldati, “Pickwick” di Baricco e “L’arte di non leggere” di Fruttero e Lucentini.
In fin dei conti il miglior invito alla lettura sta o non sta nella qualità della trasmissione con cui la si vuole promuovere?
E che tipo di lettura – e di produzione letteraria – si è promossa in televisione?
Al di là delle polemiche – per carità sempre sacrosante in un Paese che non sembra sapersi nutrire d’altro (viene in mente ancora una volta l’articolo di Madame de Staël sulla Biblioteca Italiana del 1816, in cui si invitavano gli italiani a perdersi meno in chiacchiere e a guardare un po’ di più a ciò che accadeva fuori dai nostri confini) quello che mi ha stupito maggiormente è stato il costante mettere in evidenza una certa questione (il nostro essere in fondo a tutte le classifiche come numero di lettori) per poi perseguire in maniera tutto sommato invariata politiche di penetrazione, ricerca, produzione, promozione e distribuzione che invece di risolvere il ‘problema’ sembrano lasciarlo invariato.
Da dove parte l’amore per la lettura in un popolo e in una nazione?
Quanti figli vedono i propri genitori leggere un libro?
Quanti genitori leggono libri ai figli fin dalla tenera età?
Quante famiglie entrano in una libreria almeno una volta al mese?
E al di là delle famiglie, quanto si promuove la lettura e la condivisone di storie negli asili nido e nelle scuole materne?
Quanto il dovere di leggere coi propri figli viene sostenuto nelle (e dalle) istituzioni scolastiche?
Iniziative quali #ioleggoperché (con tutte le critiche che possiamo rivolgergli) sono entrate ed entrano quotidianamente all’interno delle scuole?
In quanti sanno che l’amore verso le storie è anche uno stimolo alla creatività e alla capacità di immaginare, vivere (e cambiare) il Paese che abitiamo?
Quando ero bambino mio nonno amava recitarmi passi interi della Divina Commedia. Per lui, emigrante siciliano con in tasca una licenza di terza media e un posto da operaio nel Nord Italia, saper leggere e capire quello che si stava leggendo significava soprattutto cominciare ad affrancarsi da quello stato di sottomissione e sfruttamento che rendono popoli e singoli uomini schiavi di gerarchie, lobby e corruzione.
Tutto questo, oggi, sembra avere il sapore romantico di un mondo che non c’è più, eppure sotto molti punti di vista non è così.
Alcuni giorni fa, nel tanto criticato programma televisivo “Amici” di Maria de Filippi, Roberto Saviano ha parlato a una platea di 1300 ragazzi (e a chissà quanti altri che in quel momento lo stavano seguendo da casa) del ‘diritto’ a leggere quando si è giovani. “Un libro non sono semplici parole” ha detto, “dentro c’è tempo, è qualcosa che starà con voi per un po’; quando leggo mi sembra di moltiplicare il tempo come se la mia vita non mi fosse bastata. Non perché hai più nozioni, ma perché hai più possibilità di percepire le strade dell’esistenza. Leggere” ha continuato, “è come avere un’immortalità al contrario, vivi di più, sei qualcosa in più”. Il libro che lo scrittore partenopeo aveva portato ad “Amici” era Le notti bianche di Dostoevskij, perfetto per sviscerare il tema della potenza del sentimento e del diritto ad esprimerlo, con in più la possibilità, ben sfruttata dall’autore di Gomorra, di ricollegarsi ad alcuni significativi esempi sull’alto prezzo che molti giovani hanno dovuto pagare in vari paesi del mondo per aver semplicemente condiviso un’emozione. “In molte nazioni” dice Saviano “la condivisione della felicità è vista come un pericolo: si ha paura dell’amore perché per un momento, quando provi quell’emozione, pensi che le cose possano cambiare”. Un bel modo, convincente ed efficace (soprattutto considerando la platea a cui si rivolgeva) per ricollegare certo mondo giovanile al libro che aveva tra le mani: “Le notti bianche” ha concluso Saviano, “parla della potenza rivoluzionaria del sentimento che trasforma il quotidiano”.
Ecco, tra tutte le iniziative dell’ultimo mese e tra le tante, troppe polemiche che ne sono seguite, mi è sembrata questa la maniera più semplice e convincente per avvicinare il pubblico televisivo a quello delle pagine scritte.
Ma Saviano ha a sua volta un folto schieramento di critici e delatori, e la sua incursione ad “Amici” com’era prevedibile ha fatto storgere il naso a molti: basta dunque questo? È dunque tutto qui?
No, naturalmente; ma che si tratti di un semplice passo, un piccolo e ben riuscito sforzo nella direzione del cambiamento e del sostegno al piacere-diritto-dovere del leggere, quello sì.
Viviamo in un paese dove sono in molti a vergognarsi d’essere visti fuori (o dentro) casa con un libro in mano. Critichiamo volentieri multinazionali e globalizzazione (le cause di tutti i mali giusto?) per poi girare per strada con smartphone made in china e finte borse di marca acquistate da immigrati della cui presenza ci siamo fino a un attimo prima lamentati. Ogni riforma della scuola è una guerra di posizione che comporta sempre più vittime lasciando pressoché immutato il fronte (eppure gli esempi d’eccellenza ci sono, basta guardarsi attorno), si accusano gli italiani di non leggere ma si lasciano troppo spesso fuori dalla lista degli imputati il mondo dell’editoria, le famiglie, i media e le istituzioni dello stato: il link tra educazione alla lettura, istituzione scolastica, media e singoli individui resta il primo e il più importante su cui lavorare: ma gli uni non possono esistere e funzionare senza gli altri. Gli editori (spesso dipinti come semplici vittime dell’intera faccenda) dovrebbero prendersi a loro volta le proprie responsabilità: per quanto sacrosanto sia l’invito agli (aspiranti) scrittori a farsi avanti e ad avere coraggio, lo stesso invito dovrebbe essere rivolto al mondo dell’editoria, perché le logiche di selezione, scelta e promozione dei libri sono logorate da quegli stessi mali che le case editrici vedono all’esterno di sé, e perché troppi (aspiranti) scrittori non trovano interlocutori mentre troppi editori non hanno tempo (e denaro) da perdere con gli (aspiranti) scrittori.
La lezione migliore, in tutto questo, credo che allora l’abbia data ancora una volta Saviano ad “Amici” (e qui sono pronto a sorbirmi la mia piccola dose di fischi) con umiltà e senza tanto clamore, ed è da queste sue notti bianche che forse dovremmo anche noi ripartire: andare a parlare di Dostoevskij a chi ha appena finito di condividere su Facebook un video di Pharrell Williams non solo è l’unica strada percorribile ma è anche la più coraggiosa, la più attuale e senza dubbio la più stimolante: ma per farlo occorre sapersi mettere in gioco, occorre reimparare a rendere vivo ciò che si giudicava morto, ad avvicinare quel che si credeva distante e ad attualizzare i classici per renderci capaci di crearne di nuovi, con più spregiudicatezza e con meno polemiche: o aspettiamo che sia l’ennesima Madame de Staël a venire ancora una volta a ricordarcelo?
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