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La sinistra, Marchionne e l’ordine nuovo

Creato il 11 novembre 2012 da Albertocapece
La sinistra, Marchionne e l’ordine nuovo

La fabbrica fiat in Serbia: “noi siamo ciò che creiamo” dice la scritta. Chissà che Marchionne non voglia macchine anche alla catena di montaggio

E’ domenica e si parla tanto della sinistra assente, di come farla rinascere, di quali vie trovare per poter avere una qualche rappresentanza nel parlamento del futuro governo Quisling, alias Monti. Soprattutto mi chiedo se essere a sinistra oggi, sotto l’attacco massiccio del capitalismo finanziario, non significhi soprattutto e in primo luogo difendere la democrazia, i diritti, il welfare e il principio di equità, vale a dire le conquiste ottenute al tempo del capitalismo produttivo. Se insomma la sinistra possibile sia quella residuale delle vecchie elites che alternativamente si isolano dentro torri d’avorio che rischiano di essere ben presto svendute ai “compro oro” o si intruppano nei grandi contenitori già arrese al copyright del pensiero unico. Oppure una sinistra più generica che sappia formare un fronte anti liberista, tesa soprattutto a ricreare le condizioni di una elaborazione politica in grado di influire sulla realtà e non solo comparire nella lista delle occasioni perdute.

Ma non voglio rispondere con  astrazioni, voglio farlo partendo da una notizia che ha suscitato interesse e sberleffi alla volta del manager mannaro, ossia Marchionne. La notizia è che la Fiat Serbia ha dovuto aumentare del 13%i salari dei propri 2500 operai, concedere la tredicesima e anche un’ una tantum per evitare scioperi. Insomma una sorta di vendetta contro chi ha scassato le relazioni industriali in Italia con il favore di sindacati gialli e politici di ogni parte. anzi di ogni risma, che ogni giorno ricatta e fa strame delle leggi dello stato. Magari molti immaginano un Marchionne angosciato, anche se vende la produzione serba a peso d’oro in Italia, quasi quanto una golf prodotta da operai che hanno un salario di un terzo superiore a quello italiano e sei volte quello serbo. Ma non è così, a Marchionne gliene frega poco o niente, quello a cui tiene veramente è l’ordine in fabbrica, la possibilità che le esigenze del profitto diventino la legge  con la L maiuscola.

L’aumento di salario era inevitabile, visto che i prezzi in Serbia sono aumentati in un anno del 13% e non rinviabile anche perché lo stato Serbo che partecipa al 30% nell’azienda non può permettersi un massacro di retribuzioni in termini reali ed esige che l’esenzione fiscale concessa alla Fiat e i 10 mila euro regalati per ogni operaio assunto (più altri contributi dati sotto forma di  installazioni e servizi) vengano in qualche modo ripagati. Tuttavia il costo del lavoro diretto in un’azienda automobilistica incide per il 7-8 per cento sul totale. Parola non mia, ma di Marchionne stesso che nel 2006 ne deduceva:  «E dunque è inutile picchiare su chi sta alla linea di montaggio pensando di risolvere i problemi».

Ma allora non c’era la crisi e perciò non si era ancora presentata la grande occasione per spazzare via diritti e instaurare un “ordine nuovo” partendo dalla fabbrica. Infatti appena due anni dopo ha finto di cambiare parere ed è sembrato che i destini produttivi della Fiat fossero legati alla riduzione della pausa pipì e all’esclusione degli oppositori della Fiom dal lavoro oltre che dalla riduzione di salario. In presenza di un governo complice e di una politica inesistente, il gioco è stato facile, così com’è stato facile diffondere attraverso i media che quella era l’unica strada per recuperare competitività e dunque tornare a produrre. Ma in realtà ciò che può interessare a questi grandi delocalizzatori sono i massicci aiuti degli Paesi in via di sviluppo, le esenzioni fiscali e più di ogni altra cosa il controllo sociale e l’esiguità dei diritti che sono un goloso investimento per il futuro. Il costo del lavoro in se stesso – almeno in questo settore – è abbastanza marginale e non è un elemento di concorrenza, semmai una gratifica in più per gli azionisti e per i manager.

Tutto questo mi è servito per dire quali sono gli obiettivi per una sinistra possibile: arginare questo piano a tenaglia che nasce nelle fabbriche, prosegue negli uffici e si completa con governi di sostanziale osservanza finanziaria che pongono le condizioni per un ciclo continuo di declino civile che rischia di suscitare rassegnazione invece che reazione, guerra tra poveri invece che coscienza di classe o consapevolezza civile . Forse è molto poco per chi sogna la rivoluzione, deludente per chi non si stanca di analizzare, privo della potente mitopoietica dei simboli per altri. Ma temo sia l’unica strada davvero percorribile, senza stare troppo a chiedere il pedigree al compagno di strada.


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