Estrazione della pietra della follia (1555) di Jan Sanders Van Hemessen
(Ma non sperate che sia così facile)
Il rapporto della stampa e della politica con le lingue italiana e inglese mi rende perplesso. Da una parte si fa a gara nell’usare (male) espressioni inglesi a sproposito perché evidentemente sono considerate più eleganti, più tecniche, più ggggiuovani, più moderne e più fighe. Così è tutto un profluvio di «authority», «catfight», «flop», «finger food», «premier», «fashion» etc. etc.. Alcune vanno sicuramente a riempire spazi vuoti, per i quali non esiste nessuna alternativa migliore, ma altre sono francamente di troppo, se non addirittura dei doppioni (Virgin Radio ultimamente diffonde la pubblicità di una rubrica che si occupa di «Arte, moda, cultura, fashion» e io mentre guido rischio di andare a sbattere pensando a quale sia la differenza fra moda e fashion).
D’altra parte periodicamente qualche cruscante di ritorno innalza geremiadi alla crisi della lingua italiana (che non è mai stata tanto parlata, scritta e letta come negli ultimi cinquant’anni rispetto ai precedenti ottocento). Poi ovviamente gli stessi che fanno gli ultranazionalisti quando si tratta di chiudere i negozietti cinesi dietro l’angolo si impancano a difensori del loro indecifrabile dialetto locale rispetto a una lingua nazionale che poi sono costretti ad usare se si recano a fare un comizio nella provincia accanto (sì sto parlando del trucido capataz sbilenco e verdolino).
In più mentre pronunciare male il francese è ancora considerato ridicolo e imperdonabile, pronunciare male l’inglese è un peccato veniale, quando non direttamente obbligatorio. Per esempio l’onnipresente “bipartisan” dovrebbe essere pronunciato “baipartisan”, ma ovviamente tutti lo leggono come si scrive. Una volta ho chiesto a un amico gazzettiere: «ma perché anche tu che sai l’inglese lo pronunci male?» «Non voglio che gli altri pensino che me la tiro» mi ha risposto. Quindi pronunciare bene una lingua significa tirarsela.
Un altro doloroso capitolo, ora che esiste internet, sono gli errori di traduzione che si moltiplicano, da quando per fare i giornalisti su Repubblica o sul Corriere basta appropriarsi di roba altrui apparsa su siti stranieri e tradurla sommariamente con qualche simpatica chiosa personale alla fine. Mi ricordo uno svarione particolarmente divertente su Repubblica, l’articolista raccontava di una donna il cui corpo emetteva misteriosamente gas tossici (i tipici articoli impegnati di Repubblica insomma) e che era morta di tumore al cervello. Ricordavo di aver letto la stessa notizia su un giornale americano e sono andato a ripescarla, l’espressione era «cervical cancer», tumore alla cervice sì, ma dell’utero.
Questo scambio fra genitali e cervello mi sembra, chi sa perché, assai illustrativo del rapporto con la nostra e le altrui lingue, forse per questo non riusciamo ad estrarci la pietra della follia: la cerchiamo nel posto sbagliato!