Da diversi anni ormai gli scrittori italiani, quelli, anagraficamente parlando, dell'area TQ in ispecie, sembrano sentire l'obbligo di compiere il loro doveroso atto di responsabilità: un altare all'impegno che affonda le sue radici nella convinzione, oramai divenuta nuovo vangelo, credo, degli intellettuali, di vivere nella stordita dimensione di un presente d'inesperienza, del trauma del "senza trauma" per citare una volta ancora il Giglioli fresco di stampa (in verità prospettiva sociologica, in Italia, nata vecchia, se si pensa che già nel suo opuscoletto uscito nel 2006 per Bompiani, La letteratura dell'inesperienza, Antonio Scurati ci aveva edotti sul trauma dell'inesperienza, per non dire di Benjamin e degli altri).
L'orfananza di traumi reali porterebbe a riprodurre, come esperimenti in laboratorio, condizioni, sfondi, situazioni narrative "estreme", codificandosi in uno stile dell'eccesso che macina insieme e liofilizza, sulla pagina, cronaca e plasticosa aggressività linguistica, assunta a garanzia indubbia di iper-realismo (come dire, avere entrambi i piedi ben piantati nel terreno della nostra Storia presente). Sembra quasi che nessuno degli scrittori sappia svicolare dalla gabbia di un engagement che debba misurarsi con il collage dei soliti usati elementi (si pensi all'ultima di questa serie di narrazioni, Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo, che sin dal titolo aspira all'apostrofe inquisitoria, e nella sua costruzione ne realizza pienamente, in chiave più o meno consapevolmente meta-narrativa, il modello). Tutti a rincorrere, in virtù della comune maledizione dei tempi di un immaginario "bloccato", un coercitivo sfondo (imposto e mai concretamente esperito), la fotostatica copia di una storia sempre uguale (nei modi, nei tempi, nel linguaggio): un correre masochisticamente a braccia aperte verso il muro grigio di un presente che, guardato sprezzantemente in faccia, rende miope il nostro scrutare.
Risultato: una narratologia che, di variazione in variazione, rimane uguale a se stessa; costretta a galleggiare sull'usato e vischioso fondale della dittatura dei media, dell'exploit dei favolosi anni Ottanta, dell'avvento del berlusconismo (male più recente, tra i molti del nostro Paese, erroneamente e a lungo creduto come corpo estraneo, e invece tara genetica indubbia di una nazione). Ma ciò che davvero preoccupa di questa stagione di "giovanile" irreggimentato neo-impegno intellettuale è il suo lugubre biglietto da visita: il vestire i panni sempre più di un ineluttabile destino, da abbracciare e percorrere.
Ma questo, come, nel tentativo di rendere più salubre il clima intellettuale, fa bene a ricordare Vittorio Giacopini ("Pietrificati dalla Medusa d'oggi", Sole24ORE, 2 ottobre 2011), non è il solo dei possibili destini, «non è un percorso obbligato», ma si può anche fare (si deve) altrimenti, «si può sempre».
Questo rinfrescare la memoria rispetto a una condizione sentita come obbligata e in realtà derivata da una masochistica e depotenziante autocastrazione, mi pare oggi più che mai un monito sacrosanto. Dismettere i panni del cronista, abbracciare uno sguardo traverso sul nostro presente, squarciare la camicia di forza neo-verista: tornare a quello strabismo (Giacopini chiama in causa il mito della Medusa che pietrifica e di Perseo col suo scudo che riesce a non soccombere) che sappia frapporre, fra noi e la realtà, un diaframma, segnare un punto di dialettico distanziamento: tornare per vie altre, davvero, a raccontarla, perché «farsi non-contemporanei vuol dire stare ai propri tempi, senza subirli».
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