La prima cosa che faccio nella vita online quotidiana è controllare la posta.
Apro il mio account @kelios.it che è in hosting dentro Gmail, intanto ne approfitto per scorrere il calendario, chiudo e vado ad aprire Google reader, scorro le cose che mi interessano e magari faccio qualche ricerca con Google.it.
Non posso dimenticarmi di aprire le news e visto che ce l’ho a portata di neurone, apro Google news.
Poi se ne ho voglia e se qualche notificata che mi è arrivata in posta mi ha stuzzicato apro finalmente Facebook.
Credo sia per questo che uno dei primi a registrarsi in Google + sia stato il fondatore di Facebook.
Credo che sia per questo che Zuckerberg si prepara ad annunciare qualcosa di entusiasmante prossimamente in Facebook.
Per ora c’è la corsa ad accapparrarsi inviti dentro la nuova piattaforma e condividersi nel popolo dei buzzer che possono spettegolezzare sugli infiniti segreti del nuovo sitema social.
Non ho l’account ma stando ai rumors non mi pare ci siano innovazioni paradigmatiche.
Google+ si basa sulle funzionalità già ampiamente sperimentate, familiarizzate e utilizzate dagli utenti Google.
Copernico era molto più visionario e cosmico.
C’è un vago sapore di GBuzz/GWawe nell’aria.
Idea cardine di Google+ sono i circles, cerchie, come sono state tradotte nella home page italiana.
Si tratta di gruppi ristretti e delimitati, piccoli mondi antichi, piccole patrie, comunità devote, il bar dello sport.
Un concetto molto americano oppure molto latino? La community o la familias?
Una cerchia è un mini social network, quello che si può creare con Ning, con Buddy Press, con decine di altre piattaforme.
Il suo valore aggiunto è la facilità di creazione e delimitazione delle autorizzazioni verso chi vogliamo.
In questo luogo gli amici sono amici, i conoscenti sono conoscenti, gli estranei sono fuori.
Il numero del cellulare lo sanno solo gli intimi gli altri devono cercarci sulle pagine bianche (forse).
Funziona? Facebook ha funzionato perchè ha tradotto la voglia di conoscere gente nuova con il termine amicizia.
Una delle pulsioni umane è conoscere, è voglia di qualcosa di nuovo, è rischiare facile.
Facebook ha usato il concetto di amicizia, truffaldinamente e in modo destabilizzante, è bastato definire i contatti come amici per innescare un meccanismo di desiderio sociale e affettivo.
L’ontologia, la maietica e la questione nominalistica dell’amicizia.
Quante persone, da quel momento, hanno cominciato a trattare il leader politico o il vip come l’amico di lunga data o il vicino a cui chiedere lo zucchero?
Non ci sono molti studi di sociologia da fare per capire questo assioma semplice, roba da Vanna Marchi, lo so.
Ma Zuckerberg nel suo essere un nerd psicopatico e nevrotico aveva un desiderio semplice, avere tanti amici e averli in modo facile, facendosi definire come tale.
Sono molti gli Zuckerberg senza amici o con difficoltà nel relazionarsi, quelli che vanno alla ricerca di una religione, di un dogma terapeutico, di una Vanna Marchi a cui regalare tempo e denaro.
L’accumulo di persone è rassicurante, nella folla ci si perde e ci si deresponsabilizza, si demanda al leader ed al trascinamento della corrente principale. Si viene calpestati se si cade. Ma è un rischio calcolato e accettabile.
La mandria non è una cerchia e il richiamo della foresta è più forte dell’aspettare di essere chiamati col nostro singolo nome da un amico che non chiama da troppo tempo.