“Il ministro Teruzzi con foglio riservatissimo ha comunicato al generale Bastico che il Duce ha deciso che tutti gli ebrei della Cirenaica siano riuniti in un campo di concentramento della Tripolitania…”. Come spiega la nota dei carabinieri italiani del 28 febbraio 1942 la “soluzione degli ebrei di Tripolitania”, per usare le parole del console tedesco a Tripoli, era stata decisa su iniziativa di Mussolini.
In realtà, l’operazione di pulizia era cominciata prima, con le leggi razziali anticipate dal “Manifesto della razza” del ‘38 e che prefiguravano, oltre alle disposizioni per l’Italia, anche le limitazioni da imporre agli ebrei residenti nelle colonie per “…togliere loro le posizioni acquisite in assoluta sproporzione con la loro entità numerica, ponendoli e tenendoli in un piano razziale inferiore”.
Gli ebrei di Libia erano diverse migliaia. Solo a Tripoli ce n’erano almeno 15mila di cui forse mille di origine italiana. Erano mercanti e imprenditori che figuravano soprattutto nell’élite locale, ma non solo. Ce n’erano di provenienza italiana, francese, spagnola. Vivevano nelle città, ma i più poveri, i “trogloditi della montagna”, vivevano di agricoltura e di piccoli commerci. A sentire il generale Badoglio, che ne scrive nel 1930, gli “israeliti d’Italia son meglio degli israeliti di Tripoli… veri indigeni… (in cui) prevalgono l’egoismo, il disinteresse per gli altri, la pigrizia materiale e morale”. La macchina dell’Olocausto era pronta comunque per tutti loro – ebrei di serie A o di serie B come la gerarchia razzista di Badoglio li aveva catalogati – e gli italiani la misero in moto istituendo un campo di concentramento a Giado, nel Gebel tripolitano, dove nel maggio del ‘42 vennero trasferite 2.597 “unità”, come le chiama il linguaggio asettico della burocrazia coloniale.
Oggi Giado è una cittadina della municipalità di Yefren e del campo di concentramento non restano nemmeno più le macerie. Per vedere com’era bisogna ricorrere a Mushi Meghidish, Moshe per gli amici, che in un garage vicino a Tel Aviv l’ha ricostruito in scala sulla base dei suoi ricordi di internato: “ci dissero – ha raccontato a Eric Salerno – che ci avrebbero ucciso tutti. L’ordine era arrivato dall’alto. Da lontano”. Non tutti furono ammazzati ma Salerno, l’autore di “Uccideteli tutti“.
Si stima che nel 1943 nel campo di concentramento fascista di Giado morirono circa 600 persone “… uomini, donne, e tanti bambini perché sono i primi a cadere”.
Molti altri passarono il mare perché Giado era solo un avamposto nella macchina dello sterminio. Furono trasferiti in Italia e da lì a Bergen-Belsen “una delle anticamere della soluzione finale”.
Il libro di Eric Salerno non riempie solo un vuoto storico della memoria collettiva su un capitolo dell’Olocausto poco indagato. Restituisce dignità agli ebrei di Libia e a quelli che vivevano nel Magreb, fa giustizia del duplice razzismo che li colpì: come ebrei e anche come africani. Uomini appartenenti a un mondo in cui noi italiani eravamo andati a portare la cosiddetta fiaccola della civiltà che avrebbe dovuto illuminare il cammino di popolazioni inferiori per carnagione, costumi e tradizioni oltre che per fede.
Volutamente dimenticati dall’Italia, paradossalmente gli ebrei di Libia furono in qualche modo dimenticati persino da Israele: discriminati al processo ad Eichmann dove le sollecitazioni degli ebrei di Libia e Tunisia, che vi volevano testimoniare, vennero respinte. In parte questa storia nascosta degli ebrei del Magreb si deve anche a una sorta di loro vergogna o timidezza nel rivelare quel capitolo buio che costò la vita ad almeno mille persone.