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C'è chi parla di identità come di una gabbia e forse lo è per chi, vantandosi di essere cosmopolita, tema di essere scambiato per un provinciale. Immancabilmente finisce per esserlo, provinciale intendo, come quelle domestiche sarde che tornavano in vacanza in paese parlando con un buffo accento romanesco. Pensare alla identità come ad una gabbia è una sciocchezza, ma è vero che, secondo come lo si riempie di contenuti, o un concetto buono e positivo, rispettoso delle diversità, o un concetto cattivo e negativo, eliminatorio delle diversità. Può essere la affermazione di una cosa statica o di una cosa dinamica. Sentir parlare, come abbiamo sentito fare con patriottarda retorica in questi anni di santificazione della Unità d'Italia, di identità nazionale italiana provoca in spiriti liberi una duplice reazione: di riconoscimento del buon diritto degli italiani di riconoscersi in quella identità e di irritazione per la pretesa del nazionalismo granditaliano di escludere, attraverso la esclusività della identità italiana, la identità di altri popoli e di altre nazioni comprese nella Repubblica italiana. Io posso essere felice, anzi lo sono, che la nazione italiana celebri la propria identità, purché vi si riconosca e la identifichi senza mistificazioni; non digerisco il fatto che questa celebrazione abbia spesso comportato nella mente di troppi la cancellazione di altre identità nazionali, la valdostana, la friulana, la sarda, la slovena, la sudtirolese, né più né meno di come un inglese non accetterebbe che l'identità italiana pretendesse di sovrapporsi alla propria.
Possiamo avere nei confronti della Padania e della identità padana atteggiamenti di simpatia, di antipatia o di indifferenza, ma non si può accettare che se ne neghi l'esistenza: a nessuno dovrebbe essere consentito di affermare – per dire – che l'identità padana è posticcia o che il popolo padano non esiste; non si può pontificare la inesistenza del popolo sardo. Nel momento in cui una collettività umana rintraccia le proprie radici e in queste si identifica, nel momento in cui questa collettività si sente popolo, essa è popolo e a nessuno dovrebbe esser permesso di metterlo in discussione. È una specie di identità, questa esclusiva ed escludente, che non va bene. Almeno non dovrebbe trovare legittimità in una società democratica. Così come, però, non è apprezzabile un concetto di identità immobile, che pure è presente, almeno come seduzione, in non pochi sardi. Un concetto che può essere così riassunto: noi sardi siamo quel che siamo dal primo momento in cui abbiamo cominciato a calpestare questa terra. È anche questo un concetto esclusivo ed escludente, quasi razzista, anche se quasi mai chi afferma una enormità del genere è conscio di esserlo. Appare, piuttosto, una reazione poco riflessiva alla pretesa del nazionalismo granditaliano di aver cancellato, centocinquanta anni fa, le identità preesistenti, quasi che l'improvvida frase di Massimo D'Azeglio secondo cui, fatta l'Italia, andavano fatti gli italiani fosse un progetto genetico o antropologico, anziché un programma politico. Gli italiani, naturalmente, esistono e la loro identità è in fieri culturalmente da un bel po' di secoli e politicamente da poco più di un secolo e mezzo. Questo vuol dire che il fulcro del programma espresso con efficacia da D'Azeglio ha avuto uno sviluppo nel tempo, non è concresciuto con l'antropizzazione della penisola italiana. Anche l'identificazione con il progetto Italia, in altri termini con la nascita della identità nazionale italiana, ha avuto un inizio. C'è la pubblicità di una banca senese che afferma a un certo punto che quella raccontata nello spot è “una storia italiana dal 1492” il che, nella più benevola delle osservazioni, è da considerarsi una licenza poetica. Nel 1492 l'Italia era – come dirà nell'Ottocento il conte austriaco von Metternich – una espressione geografica e comprendeva oltre alla penisola, la Sicilia, Malta, la Sardegna e la Corsica, non certo una nazione luogo di identità, anche se – è noto – élite intellettuali avevano attraverso la lingua toscana da tempo cominciato a costruire la identità italiana. Non è statica questa, non lo è l'identità della Sardegna che pure è in fieri da molte centinaia di anni prima. I tre popoli che abitavano l'isola alla fine del Neolitico, gli Iliensi, i Balari e i Corsi, attraverso processi di reciproca acculturazione svilupparono una comune identità – si direbbe oggi – nazionale, come è dimostrato dai più di diecimila nuraghi sparsi non solo in Sardegna ma anche nelle isole minori e come raccontano gli altri monumenti di quell'era. Il processo identitario e quello di identificazione sono di lunghissima durata, insomma, e del resto non si è mai concluso, a dispetto di quanti, forse per troppa autostima, pensano alla nostra identità – e alla conseguente nostra diversità – come un dato affermatosi per sempre. Con tutti i popoli succedutisi nell'isola, dai greci ai romani, dai cartaginesi ai pisani c'è stata – al di là dei conflitti anche sanguinosi – una acculturazione. Un processo di scambi il quale ha fatto sì che il dominio esterno sia trascorso senza sconvolgere, come si potrebbe pensare, quel quiddam che ci fa sentire sardi. A ben pensarci, espressioni come Sardegna punica, Sardegna romana, vandala, catalana, spagnola, sabauda, italiana sono in definitiva aggettivazioni dell'unico sostantivo che appare immobile: Sardegna appunto. La quale, infatti, continuò, così come continua, ad essere abitata da sardi principalmente e da rappresentanti, non sempre ostili, di altri popoli. Questa costante della nostra autoctonia spinge una parte dei sardi a pensare a una comunità impermeabile, sulla quale scivolano le diversità che l'hanno volta per volta conquistata. Le cose non stanno evidentemente così: al di là dei momenti di scontro spesso armato, le diversità altrui hanno instaurato un rapporto dialettico con la nostra identità, cambiandone aspetti, senza cancellarla. Si pensi alla lingua – che è elemento fondante del nostro essere popolo e nazione distinti – e al suo radicamento. C'è chi afferma che la lingua parlata dai sardi al tempo della invasione romana era più o meno la stessa di quella parlata dai latini che ci invadevano. E che ciò spiega come mai un popolo che ha lungamente contrastato in armi i romani parlasse la lingua degli invasori con tanta apparente arrendevolezza. Ma pur non accettando questa teoria della continuità del professor Alinei, non può sfuggire ad alcuno che le lingue dei dominatori, pochissimo i punici, molto i romani e poi i pisani e i genovesi e quindi i catalani, gli aragonesi e gli spagnoli e infine gli italiani si siano semplicemente innestate nella lingua sarda che diventa così l'antifona della identità. È cambiata nel corso dei secoli restando diversa da quella dei popoli che, diciamo così, ci hanno pesantemente visitato. A che cosa serve una identità che, in realtà, non è identica a se stessa nello svolgere del tempo? Sembrerebbe un oggetto inutile, poco spendibile sul mercato della cultura e superfluo in quello della politica. Ed è, invece, moneta ottima, a patto, naturalmente, che in questa identità i sardi si identifichino utilizzandone non le seduzioni ideologiche, ma le potenzialità. In primo luogo la lingua e tutto ciò che si produce in lingua sarda (ma lo stesso vale, chiaro, per le altre lingue della Sardegna, dal gallurese al tabarchino e dal catalano d'Alghero al Sassarese). È, se così si può dire, il recipiente che dovrebbe contenere tutti i disegni di emancipazione della Sardegna, che sia il federalismo o l'indipendenza, l'autonomia radicale o la sovranità nazionale. L'illusione, che pure serpeggia anche in menti raffinate, secondo cui si può fare a meno dell'identità e dei suoi elementi non solo per dare una aggiustatina all'autonomia ma persino per conquistare l'indipendenza della Sardegna è un abbaglio. È, per parafrasare uno statista europeo, come illudersi che sia possibile avere regali di nozze senza le nozze. È anche una fissazione, un malore che coglie chi, vivendo agiatamente solo usando una lingua dominante e una identità in prestito, è convinto che la sua sia una condizione ideale per cambiare la Sardegna. Tanto è vero che, per esempio, non pochi, nella società letteraria e in quella universitaria, sostengono che narrativa sarda sia quella scritta in italiano e, per rafforzare la tesi, rimuovono o denigrano la narrativa scritta in sardo, che pure è almeno quantitativamente notevole, avendo accumulato più di duecento romanzi. I più anziani ricorderanno come nei cosiddetti anni della Rinascita, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, ma anche più oltre, identità e sviluppo furono descritti come antitetici. Nessuno sviluppo sarebbe stato possibile continuando a coltivare i cosiddetti elementi arcaici: dalla lingua al canto a tenore, dagli usi consuetudinari alla coscienza di sé, l'identità appunto. Lo sviluppo non ci fu, o almeno non fu quello promesso, e gli elementi identitari ebbero un duro colpo. I maggiormente afflitti dall'economicismo negarono ai figli l'insegnamento familiare della lingua sarda e la stima per altri cosiddetti arcaismi. Se oggi, come rivela una ricerca universitaria, c'è ancora un 64,8 per cento di sardi che parlano la loro lingua (ripeto, il sardo, il gallurese, il tabarchino, il sassarese e l'algherese), e se quasi il novanta per cento ritiene la lingua sarda un elemento fondante l'identità, lo si deve forse al fatto che i sardi, anche quelli politicamente progressisti, sono in fondo culturalmente conservatori. Basti pensare, sia detto per inciso, che i maggiori poeti in lingua sarda hanno un cuore politicamente progressista e culturalmente identitario. C'è contraddizione solo per chi ha della identità una concezione museale, folcloristica e, in definitiva, statica. Se appena appena si riflettesse che mai come in questi momenti una lingua antica come il sardo si serve per svilupparsi del computer, dell'internet e di Facebook, capiremmo come la sorte della nostra identità (e di conseguenza della nostra diversità) sia strettamente legata alla sua dinamicità. Un po' come, fatte le tare opportune, è del resto successo nel passato, quando la nostra identità ha preso dalle esterne con cui entrava in contatto tutto ciò di cui aveva bisogno certo non per restare identica a se stessa ma per adeguarsi e, se mi passate l'apparente contraddizione, per sfuggire il rischio dell'arcaismo. L'identità nazionale del popolo sardo – tutti concetti entrati nel lessico più della politica che della cultura accademica sarda – non può essere ignorata, denigrata o messa in un cantuccio solo perché comporta conseguenze politiche e istituzionali (ma anche personali, come l'obbligo morale di imparare la lingua sarda). Si potrebbe forse frenare, ritardare, persino scongiurare queste conseguenze, ma la storia dovrebbe insegnare che questa identità esiste ed è come un fiume carsico. Dove meno te lo aspetti, lì torna in superficie. Come pare succeda di questi tempi, quando in grande maggioranza i sardi dichiarano la propria identità e diversità.
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