Una sensazione che tutti abbiamo provato ma di cui non ne serbiamo il ricordo. Qualcosa che abbiamo perduto o che ancora non abbiamo raggiunto. Quel senso di leggerezza e profondità di cui abbiamo bisogno ma che abbiamo smesso di cercare perché non ci crediamo più. Cos’è la spensieratezza? Dov’è? E, soprattutto, che forme assume?
Ecco il quarto e penultimo film della rassegna:
AMERICAN BEAUTY di Sam Mendes (1999)
TRAMA: La famiglia Burnham abita in una casa normale, in una stradina normale, di una normale periferia statunitense. Ma dietro tutta questa normalità si nasconde ben altro: infelicità, solitudine e frustrazione. Lester, il padre, Carolyn, la madre, e Jane, la figlia adolescente, intraprenderanno ognuno a proprio modo un percorso di redenzione cercando di sfuggire al demone della mediocrità.
“Era una di quelle giornate in cui tra un minuto nevica. E c’è elettricità nell’aria. Puoi quasi sentirla. E questa busta era lì. Danzava. Con me. Come una bambina che mi supplicasse di giocare. Per quindici minuti. E’ stato il giorno in cui ho capito che c’è tutta un’intera vita dietro ogni cosa. Un’incredibile forza benevola, che voleva sapessi che non c’era motivo di avere paura. Mai.”
(Ricky Fitts riguardo alla busta di plastica che ha filmato)
La spensieratezza come… ricerca della bellezza. Come bisogno di sapere di essere ancora in tempo per tornare indietro e di poter fare quello che ci fa sentire bene. Come voglia di assaporare ogni momento come se fosse l’ultimo. Delicato e prezioso come un petalo rosso. Rosso come il sangue che scorre in ognuno di noi e che ci fa compiere gesti di cui non credevamo di essere capaci. Spensieratezza quindi come abilità di sorprendersi. Di noi stessi e di quello che ci circonda. Perché la vera bellezza è proprio lì. In quella porzione di spazio che avevamo escluso dalla nostra visuale, troppo occupati a crogiolarci nella nostra amata infelicità quotidiana. E’ lì la bellezza. Nell’occhio vitreo di un uccello morto, nella pelle simile a carta delle mani della nonna, in una busta di plastica qualunque che danza con il vento e con le foglie. Fiera della propria mediocrità e del proprio essere simile a tante altre buste come lei. Solo che, a dispetto delle altre, questa busta ha capito una cosa. Una cosa che anche Lester, nell’ultimo infinito istante della sua vita, capisce. E cioè che non bisogna inseguire la bellezza, ma fermarsi ad osservarla e lasciare che ci invada e che ci riempia. Ed esserle grati per questo.