Magazine Cultura
La statuaria di Monte Prama
di Marco Rendeli
La “profezia sul passato”
Si potrebbero produrre molti altri esempi pertinenti ad altre civiltà che si affacciano sul Mediterraneo in questa fase per giungere comunque alla conclusione che nel caso di Monte Prama si tratta di un apprestamento tanto singolare quanto anomalo. La peculiarità della forma, fino a oggi descritta, acquisita come dato certo, forse anche un poco scomodo nella sua novità e nella desolante assenza di corredi che potessero essere pari all’eminenza del monumento, deve far riflettere: infatti la scelta di realizzare un siffatto apprestamento funerario risponde evidentemente all’elaborazione di un progetto che ha alle sue spalle un disegno non casuale, quello di un “serpentone” recintato, esito di una scelta che ha un senso compiuto e che, come tale, deve essere riconosciuta e interpretata. In contributi precedenti, anche sulla scorta delle osservazioni di Tronchetti (Tronchetti, 2005; Tronchetti, Van Dommelen, 2005), avevo seppur timidamente espresso una curiosità nei confronti di tale apprestamento e l’avevo attribuito alla volontà di ricreare, riecheggiandolo, un modello del passato: in altre parole la pianta del complesso, quale emerge dal disegno elaborato nel corso dello scavo e pubblicato da Tronchetti, poteva proporre una rivisitazione del modello più noto dell’Età del Bronzo medio e recente, ovvero la tomba dei giganti. Si differenziava in maniera forte e programmatica rispetto al modello per quella volontà di superare una forma di deposizione “comunitaria” a favore di singole deposizioni, di pari dignità e ognuna costituente un contesto chiuso a se stante, inserite in questo singolare disegno. Alcuni amici e colleghi, quando provai a suggerire questo nesso, mostrarono la loro contrarietà con una serie di osservazioni giuste e giustificate: esse riguardavano soprattutto i modelli di riferimento rispetto ai quali, nell’apprestamento di Monte Prama, risultavano assenti elementi importanti. Da quelle discussioni e da quelle giuste critiche avevo tratto la convinzione che fosse conveniente non dare eccessiva importanza al fenomeno. In quella sede però non mi ero reso conto di un fattore importante che avrebbe cambiato completamente l’approccio alla interpretazione: ovvero, se queste opere sono state concepite e realizzate per creare un complesso funerario monumentalizzato (e tutto sembra convergere verso questa interpretazione), anche le tombe, la loro disposizione, il disegno dell’area funeraria rientrano fra quegli elementi che formano il sistema e, come tali, vanno analizzati e interpretati come parte del programma. Oggi direi che di questi elementi non si può proprio fare a meno, non si può prescindere da essi nel momento ricostruttivo e in una visione globale della storia che emerge dal monumento. In questo
senso dovremmo trovare una risposta anche al disegno del complesso che non appare perfettamente rettilineo: pur all’interno di un’area recintata composta da lastre disposte a coltello, la genesi di questo nucleo sepolcrale potrebbe essere ricostruita con una serie di interventi avvenuti in più riprese (ne conterei almeno quattro) con forme di deposizione scaglionate nel corso di alcune generazioni. Questo spiegherebbe anche il numero veramente alto di tombe per quel che potrebbe essere un complesso legato a un’emergente aristocrazia del Sinis. Se questa intuizione coglie nel vero sarà possibile annotare che la gran parte degli elementi che abbiamo riconosciuto come parte di questo sistema semantico, pur essendo declinata al presente, si riferisce con tutta evidenza al passato. Un mondo che non c’è più domina la scena in un sistema complesso: i modelli di nuraghi complessi, le statue con i loro volti e i loro occhi che con evidenza non sono pertinenti a questo mondo ma a un mondo altro (e quindi a un passato remoto in cui ricercare le proprie radici), la forma stessa della necropoli e la sua organizzazione che potrebbero ricollegarsi ancora al passato trasformando il modello della tomba dei giganti (Rendeli, in corso di stampa, a e b). È un passato declinato in tutte le sue forme e che riporta il corso del tempo a un’età più antica, quella non solamente degli avi e delle radici, ma soprattutto a quella nella quale si crede si possa trovare l’origine della casata o della schiatta: tutti gli elementi che compongono questo quadro vengono allontanati dal presente e restituiti a un tempo mitico, e forse anche mitizzato, idealizzato, dove ogni elemento aveva un preciso significato simbolico che costituiva una parte della storia che la committenza crea, elabora e chiede a un artigiano o a una bottega di artigiani di realizzare. Avevano ben ragione Tronchetti e Sirigu (Tronchetti, 2005; Tronchetti, Van Dommelen, 2005; Sirigu, 2007; Pianu, 2008, p. 246) quando sottolineavano la prepotente presenza di antenati protettori che vengono idealizzati attraverso le forme della scultura e fanno riemergere «il mito delle origini» nel quale «le sculture di Monti Prama sembrano aver svolto già in antico la funzione di segni della memoria culturale» (Sirigu, 2007, pp. 44-5). Si può, a mio avviso, compiere un ulteriore passo in avanti mediante la definizione di modelli e di spazi utilizzando a questo punto tutti gli elementi che possono far parte del sistema al fine di disegnare uno spazio nel quale si giustifichi questa preponderanza del passato, ma che contempli anche il presente e il futuro. Questo spazio è dettato dal limite del complesso sepolcrale, dalla tomba 1 alla tomba 33, recintato: il modello è quello della tomba dei giganti nella sua articolazione sub terra ma, a mio modo di ricostruire il complesso, anche supra terram. Infatti le statue, disposte una accanto all’altra con una progressione che potrebbe ricordare un’esedra, potrebbero rispondere a quell’assenza di elemento strutturale che è proprio delle tombe dei giganti. Un’esedra di straordinarie dimensioni, con un’ampiezza delle due ali che si misura in una diretta relazione al numero delle statue, ad oggi 25, ma forse più numerose: si potrebbe ipotizzare anche una sequenza con ai lati i cosiddetti pugilatori e, nella zona centrale, il gruppo di statue che al momento comprende portatori di scudo rotondo, posto davanti al proprio corpo e retto da entrambe le mani, ai due lati e arcieri. In questa ricostruzione il centro della scena è dominato dalle due statue degli arcieri che, a quel che ci è pervenuto, sono le figure meno numerose: non casualmente sono proprio le due figure di arciere, assieme a quelle dei portatori di scudo, ad aver avuto una grande attenzione nella definizione dell’aspetto generale dei corpi, più curati, dell’organizzazione dell’apparato decorativo che si evidenzia nell’abbigliamento, nelle armi d’offesa e di difesa, nei particolari anatomici, dalle trecce alle ciocche dei capelli, alle unghie delle mani. Non sarei sorpreso se alle spalle di questa esedra “umana” si innalzasse un tumulo la cui dimensione potrebbe essere dettata dall’ampiezza dell’esedra: su di essa si deve conformare il disegno e la dislocazione dei gruppi di singole tombe a partire da quelle che potremmo definire “della prima generazione”. Si manterrebbe nel tempo il concetto di area recintata con lastre disposte a coltello, ampliata con successivi inserimenti, fino all’ultimo gruppo
che, per rimanere all’interno delle misure dettate dal complesso, viene costretto a inserirne tre su una seconda fila. Dunque potremmo immaginare un tumulo che accoglie esponenti eminenti di un gruppo familiare allargato per più generazioni e non mi sorprenderei se il disegno delle tombe rispecchiasse anche quel che poteva trovare posto sulla superficie del tumulo: in altre parole se, sul tumulo, alle sue pendici e sulla sommità, trovassero posto i modelli di nuraghi complessi. Essi creerebbero il paesaggio del passato, delle origini mitiche del gruppo che viene sepolto nel complesso monumentale: sarebbe parte integrante della memoria ed elemento caratterizzante dello stesso messaggio al quale si riferiscono le statue, quello di uno spazio definito e consacrato all’interno dei limiti dettati dal tumulo. Potrebbe sembrare un gioco arguto di parole, ma saremmo di fronte a kolossoi che delimitano lo spazio di una tomba di giganti, che difendono uno spazio sacro e definiscono in maniera netta il limite fra quello che, ai nostri occhi, può apparire il kosmos originario, il mondo ordinato degli antenati, e la società dei vivi: da qui, appunto, esce prorompente allo scoperto la profezia sul passato (con la quale si vuole alludere ad alcune straordinarie pagine di Mazzarino, 1965, pp. 29-37) che si contrappone al messaggio del “presente”, dell’attuale, dell’Età del Ferro. Una profezia che declina il passato attraverso il mito degli antenati, di quegli eroi lontani e con un volto stilizzato e sempre identico a se stesso che difendono questo luogo sacro: con esso il mondo “interpretato” nel mito delle origini ha bisogno di una lettura e una interpretazione per divenire storia, la storia. Il passaggio dalla ricostruzione eroica e mitica del passato alla storia avviene attraverso la creazione di un complesso monumentale all’interno del quale vengono ospitate le sepolture di esponenti eminenti di una famiglia allargata non per un solo momento ma per più generazioni, se la nostra interpretazione coglie nel vero. Il complesso monumentale, però, non ha solamente un intento celebrativo del passato e la volontà di una ricerca delle proprie radici: in questo processo infatti il committente, e il gruppo familiare che rappresenta, trova la forma dell’autolegittimazione per l’esercizio di un potere nel presente e per il futuro. Parrebbe riproporsi, seppure in tutt’altro contesto e con diverso ordine di problemi, il senso della “profezia sul passato” che Epimenide cretese, interpretato da Mazzarino, elabora per risolvere i mali di Atene. La rappresentazione del passato mitico, che serve per legittimare il presente e per assicurare il futuro, chiude il sistema semantico del complesso di Monte Prama. Il compimento dell’autolegittimazione del presente si compie nello spazio antistante l’esedra, si lega e collega in maniera forte anche con lo spazio oltre l’esedra, con le statue, il rituale della sepoltura, il disegno della necropoli. In essa il passato, rappresentato dalla forma, trova una declinazione del presente nella definizione di un’organizzazione del complesso per singole sepolture, strettamente connesse fra di loro, e nelle quali i defunti, se non ricordo male, vengono adagiati in posizione che sembra seduta. In questo è il segno del cambiamento, di discontinuità e di autorappresentazione del singolo (che è parte di una comunità o gruppo), di un personaggio eminente che esce allo scoperto conscio del suo ruolo sociale e del potere che gli è stato conferito dal gruppo che rappresenta. E ciò che lega il passato, in cui credere perché è il proprio mito e la propria storia “rappresentata”, e il presente profondamente “trasformato” riemerge anche nella società all’interno della quale emerge il “responsabile” della committenza: una società trasformata ma che con quei valori che si esprimono nel passato convive, crea un saldissimo legame e in quei valori fermamente crede. Che questa interpretazione del complesso sia solamente un tentativo, come tanti altri presentati in questi anni, di proporre una delle possibili soluzioni al problema del “paesaggio monumentale” che le statue di Monte Prama pongono all’attenzione degli studiosi mi pare scontato ricordarlo: in esso si sono aggiunti alcuni elementi dai quali non si può prescindere nella volontà di legare il complesso statuario a un paesaggio possibile con l’obiettivo di creare un complesso monumentale unico nel panorama della Sardegna e, più in generale, del Mediterraneo. Il risultato si fonda sulla prospettiva di coniugare un sistema semantico complesso in un monumento che potesse essere rappresentativo di un passato e al tempo stessa fungere da fondamento sul quale costruire il presente e offrire una ragionevole prospettiva per il futuro. Ciò ai miei occhi non è frutto di una casualità: fa parte di un disegno che una delle famiglie aristocratiche emergenti del Sinis può mettere in pratica avendo la possibilità di usufruire di forme di techne specializzata nella lavorazione della pietra nella sua monumentalità. Grazie a questa possibilità non cambia la natura o il pensiero dell’aristocrazia, ma essa esce allo scoperto elaborando in forma sintetica il modo di ricostruire la storia attraverso il mito, in questo caso degli antenati, e le radici più profonde della propria società. Il mito si fonda su un universo coerente che è quello delle età precedenti, sulle torri e sui suoi abitanti: un mito che diventa storia del presente, dell’Età del Ferro, poiché tutti questi elementi, benché caduti in disuso o rifunzionalizzati, sono parte integrante e caratterizzano in maniera importante il paesaggio. Il collegamento con il passato offre il senso anche del cambiamento avvenuto e che si sta compiendo nelle società tardo-nuragiche: una trasformazione che modifica l’organizzazione, i modi di vita, le forme economiche, i rapporti sociali. Tale mutamento, a mio modo di vedere, fa uscire la società della Sardegna dell’Età del Ferro da una confusa quanto indeterminata unitarietà ponendo alla nostra attenzione i modi e le differenti declinazioni nelle quali le diverse peer polities rispondono, emergono, escono allo scoperto. Sono peer polities strutturate che possono parlare alla pari con il mondo che le circonda: esse hanno una strutturazione forte, in prospettiva pronta anche a concedere spazi, tangenti al cuore del loro territorio, a mercanti che chiedano di stabilire “teste di ponte” per i loro scambi, governando e controllando il fenomeno. In tutti i casi la società che possiamo definire da questa esperienza nel Sinis è forte, articolata, complessa e propulsiva perché, fra le altre cose, è capace di creare una “profezia sul passato” per autolegittimarsi nel presente e per governare il futuro.
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