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La storia del Risorgimento nel cinema di Mario Martone: “Noi credevamo”… l’apologia della sconfitta

Creato il 15 gennaio 2014 da Federbernardini53 @FedeBernardini

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Ieri ho ricordato Felice Orsini. Ripropongo un mio vecchio articolo nel quale la sua figura è inquadrata nel contesto degli anni tempestosi in cui si tesseva la tela dell’unità nazionale.

Ho visto “Noi Credevamo” appena uscito. Prima della proiezione, Martone ci ha presentato gli interpreti e ha brevemente illustrato la “filosofia” del suo film: l’Italia, purtroppo, non l’hanno fatta i mazziniani, non è nata per volontà popolare ma per la volontà annessionistica dei Savoia, che hanno aggredito stati sovrani, taluni più ricchi ed economicamente sviluppati del Piemonte, spodestando i legittimi regnanti e sostituendosi ad essi.

Un’occasione perduta, secondo Martone, un malinconico tributo a una generazione di generosi sognatori, sconfitti dalla grande politica e dalla forza delle armi. Grandi applausi. Pochi e poco convinti dopo la proiezione, perché?

Premesso che, dal mio punto di vista, anche se l’avessero fatta i mazziniani, l’Italia sarebbe ugualmente nata male e non certo per volontà popolare, ma settaria, le quasi tre ore e mezza di proiezione (a onor del vero senza noia) si rivelano una sconsolata e desolante riflessione sul velleitarismo e sull’inadeguatezza, ideologica, politica e militare di una generazione perduta, costituzionalmente votata alla sconfitta e minata spesso dalla follia o da frustrazioni sublimate in un’azione inconcludente, quando non dannosa, e del tutto avulsa da un rapporto con il popolo, che rimane inerte sullo sfondo e, quando agisce, lo fa spesso in modo viscerale, facendo coincidere i propri interessi con quelli dei legittimi sovrani.

Una generazione, in fondo, disperata, perduta nella nebbia, come uno dei protagonisti che si aggira, in una delle sequenze più simboliche, in un’atmosfera brumosa, che gli impedisce di distinguere sia i suoi compagni sia il nemico. Era l’insurrezione del ’34 in Savoia, quella che fallì anche perché Gerolamo Ramorino, incaricato da Mazzini di gestire i fondi raccolti per l’impresa (ventimila franchi oro, se non ricordo male) ne aveva speso la metà in gioco champagne e donnine (questo Martone non lo dice). La stessa insurrezione in occasione della quale, quel codardo di Mazzini svenne alla prima schioppettata e fu portato al sicuro in Svizzera dai suoi fedelissimi (e neanche questo Martone lo dice).

Tragica la figura di questo protagonista, devastato dal suo fallimento personale che, dopo aver ucciso uno dei suoi compagni per motivi che giustifica col tradimento, ma rimangono oscuri, indirizza la sua furia distruttiva prima partecipando all’attentato di Orsini e poi tradendolo, ma senza scampare alla ghigliottina.

Per conoscere quello straordinario e contraddittorio personaggio che fu Felice Orsini, un simbolo del fallimento della sua generazione,  è indispensabile leggere il suo epistolario: “ Lettere di Felice Orsini, a cura di Alberto Ghisalberti, Vittoriano, Roma, 1936″ che, oltre a rappresentare una straordinaria testimonianza personale e storica, è un vero capolavoro di stile epistolare, sia in lingua italiana sia in lingua francese, che l’Orsini padroneggiava perfettamente.

Garibaldi è un fantasma. Appare in una sola scena, in campo lunghissimo, in un contesto oleografico degno della più bieca iconografia patriottarda.

Dalla nebbia che avvolge le menti dei protagonisti maschili emerge solo la lucida intelligenza di Cristina Trivulzio di Belgioioso che però esce di scena anch’ella sconfitta e dedita all’oppio.

Le conclusioni sono affidate al terzo protagonista, che assiste a un surreale discorso di Crispi, mazziniano della prima ora e poi feroce manutengolo dei Savoia, in un’aula parlamentare vuota. E’ una dichiarazione di sconfitta di quelli che avevano creduto, con la quale Martone, dopo averci mostrato quella generazione in tutto il suo desolante squallore, tenta di nobilitarla come quella che “avrebbe potuto”, ma potuto cosa? contraddicendosi platealmente.

Fra le recensioni, generose ma non generosissime, scelgo due chicche che dimostrano l’ottusità di un critico che non nomino per carità cristiana.

Costui ci fa notare come il Mazzini, impersonato da Servillo, ci venga presentato come un vecchio intorno al ’30, quando aveva venticinque anni…ma Mazzini è nato vecchio e vestito a lutto, caro mio.

E questo è nulla se lo confrontiamo con la sua acuta osservazione che rivela a noi sprovveduti spettatori la presenza, in una scena del film, di una struttura di cemento armato, un piccolo ecomostro, la cui valenza simbolica mi pare talmente evidente da non dover essere esplicitata.

Concludo con Ramorino. Durante la Prima Guerra d’Indipendenza era generale dell’esercito piemontese. Fu condannato a morte e fucilato per non aver obbedito agli ordini e aver abbandonato, con conseguenze catastrofiche, le sue posizioni.
Morì con la dignità con cui non aveva vissuto. Affrontò la morte con eroico coraggio e volle comandare lui il plotone d’esecuzione…un bischero di cappellano gli negò il funerale religioso, considerandolo un suicida…mah!

Federico Bernardini

Illustrazione: Felice Orsini davanti ai giudici, fonte http://it.wikipedia.org/wiki/File:Processo_Orsini.JPG



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