“Quanti anni hai?”
“Diciassette… più o meno.”
Alì non conosce di preciso la sua età perché non sa quando è nato. L’ho incontrato sul treno diretto a Zurigo da Milano. Era attento, un po’ nervoso, si guardava intorno come chi non è sicuro di dove stia andando e come ci arriverà. L’abbigliamento era sportivo e un po’ trasandato. Jeans, un vecchio maglione, giacca invernale. Il tutto coperto da una specie di patina sottile di polvere e smog. Mi ricordava i miei amici tunisini che a Verona, quando gli va male con il lavoro, passano da una casa occupata all’altra, estate e inverno sempre con gli stessi vestiti, una specie di divisa irrinunciabile per sopravvissuti.
Quando l’annuncio del capotreno ci ha avvisati che avrebbero soppresso la corsa per un guasto meccanico, mi sono reso conto che non parlava né l’italiano, né il tedesco. Però oltre al parsi, la sua lingua madre, parlava abbastanza bene l’inglese.
“Che cosa hanno detto?”
“Che dobbiamo cambiare treno. Vieni con me, lo troviamo insieme.”
Mentre passiamo in rassegna i binari in cerca del collegamento per Chiasso, mi segue con cieca fiducia, come se si fosse rassegnato all’idea che non ci sia altro modo per proseguire il suo viaggio che seguire quel buffo sconosciuto incontrato per caso. Deve essere passato molto tempo da quando qualcuno gli ha offerto una mano l’ultima volta.
“Da dove vieni?”
“Grecia.”
“Sì, ma prima?”
“Oh, molti posti… big problem.”
Alì è nato in Afganistan durante gli ultimi anni del regime talebano, in un villaggio non lontano da Kandahar, nel sud, la seconda città del Paese nonché uno dei principali centri culturali della comunità Pashtun. Quando era ancora in fasce suo padre è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco tra bande. Alì non ne sa molto perché nella sua famiglia non se ne è mai parlato granché. In un Paese dove da trent’anni si muore senza motivo, le cause di un’altra vittima tra le tante non sono un argomento molto rilevante.
Quando è rimasta sola, la madre di Alì ha preso il figlio e la sorella maggiore e li ha portati in Iran, a Teheran, dal fratello del padre. Lì Alì è rimasto fino a un paio di anni fa – “uno, due… non so” – quando è partito da solo per cercare una vita serena in Europa. Dall’Iran è arrivato in Turchia, poi in Grecia.
In ricordo del suo lungo viaggio gli rimangono delle cicatrici sulle mani che si è procurato restando aggrappato per ore sotto i rimorchi dei camion, per ottenere un passaggio e sfuggire ai controlli doganali. Qualche volta gli autisti lo scoprivano e doveva tornare indietro, qualche altra si facevano dare un po’ di soldi di quei pochi che sua madre gli ha consegnato prima di vederlo partire per sempre.
“Com’era vivere in Iran?”
“Iran… un bellissimo posto, ma non facile. Big problem.”
Ovviamente non c’era racconto o spiegazione che non cominciasse con “big problem”. In questo caso si riferiva ai problemi di integrazione della comunità afgana in Iran. Come tutte le nazioni confinanti con territori perennemente in guerra, l’Iran è divenuto la sponda di un enorme flusso di profughi e immigrati clandestini, con gli inevitabili problemi di ordine sociale che ne conseguono e le altrettanto puntuali questioni di integrazione e razzismo.
In Iran Alì è riuscito a frequentare per qualche anno le scuole pubbliche, imparando l’inglese e a leggere il Corano in arabo. Quando è diventato un po’ più grande cercava di aiutare la madre e la sorella nell’economia domestica con ogni genere di lavoretto, dal manovale sui cantieri al garzone nei negozi. Grazie a un amico che aveva un centro servizi di informatica ha imparato a usare i computer, anche se più di tutto gli piace smontarli e smanettare con le componenti hardware.
Poi la sorella si è sposata con un ragazzo afgano emigrato in Germania anni prima. Quando anche lei l’ha raggiunto con i due figli, Alì e la madre sono rimasti per un po’ di tempo con lo zio, ma quest’ultimo si prendeva scarsamente cura di loro. Alla fine il mio giovane amico si è deciso a partire, ha preso i pochi soldi che la madre aveva raccolto per lui e si è incamminato verso il confine con la Turchia. Qualche carro di bestiame, sotto i rimorchi dei camion, in autostop, a piedi… Alì ha attraversato tutta la Turchia fino in Grecia.
“La Grecia è bellissima. Molto, molto bella…”
“E perché non sei rimasto in Grecia?”
“Oh, no… big problem.”
Quando in Grecia lo hanno trovato senza documenti, Alì è scappato dai poliziotti ed è corso verso il mare. Si è tuffato in acqua e ha cominciato a nuotare: pensava di raggiungere l’Italia. Quando l’hanno ripescato l’hanno messo in una prigione destinata agli immigrati clandestini nonostante fosse ancora minorenne.
“Quanto sei stato in prigione?”
“Un anno… forse.”
Evidentemente il tempo ha scarso valore per un ragazzo che non sa nemmeno quando è nato. Dopo essere uscito di galera con un foglio di espulsione, è tornato al suo mezzo di trasporto preferito: aggrappato ai rimorchi dei camion. In circa una settimana è arrivato a Milano.
“Ero stanco, non conoscevo nessuno, non avevo soldi e non mangiavo da giorni. Mi facevano male gambe e braccia. Faceva freddo…”
A Milano Alì dormiva per strada, al freddo. Quando è riuscito a mettersi in contatto con la sorella, lei gli ha mandato 200 euro tramite un conoscente. Alì ha comprato un vecchio cellulare e un biglietto per Zurigo, dove ora lo aspetta suo cugino. Il telefono squilla spesso, è la sorella che si preoccupa per lui.
“Guarda… fa le foto! Non ci posso credere che fa le foto…”
“Perché, in Iran i cellulari non scattano fotografie?”
“Certo. Gli smartphone. Ma non avevo mai visto una cellulare così vecchio fare le foto.”
Ah, ecco.
Mentre viaggiamo verso Chiasso gli spiego che forse potrebbero salire a bordo dei poliziotti per il controllo doganale, ma è improbabile perché siamo su un treno sostitutivo pieno di passeggeri traditi dall’Eurostar cancellato. Lui resta guardingo sul sedile in parte al mio, poi quando arriviamo a Lugano si rilassa.
“Benvenuto in Svizzera.”
“Grazie. Quanto costano le sigarette in Svizzera?”
“Troppo. Passa al tabacco.”
Mentre lui si gira una sigaretta con il mio tabacco, io gli scrivo qualche parola in italiano e in tedesco su un foglietto di carta. Lui mi aiuta a ripassare un po’ di arabo, ma lo parla quasi peggio di me. Alla fine gli chiedo cosa ne pensa dei talebani.
“Big problem.”
Ovvio.
Alì è musulmano, non mangia maiale ma beve vino e birra.
“Bere poco non è male. Bere tanto è male.”
Io sorrido e gli dico che secondo me le religioni sono come una lingua molto diffusa, come l’arabo o l’inglese. La gente si parla assieme e pensa di capirsi, ma ognuno segue le sue regole.
Quando arrivo a Zug lo devo salutare. Lui si era quasi addormentato, quando lo sveglio per dargli la mano e augurargli buona fortuna sembra un po’ spaesato. Spero che trovi presto suo cugino. Spero che non rimanga di nuovo da solo a lungo.
Wahamdilillah, sarà come vuole Dio…