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La storia di Attilio Manca, vittima non riconosciuta della mafia

Creato il 10 maggio 2010 da Antonellabeccaria

Attilio Manca, vittima non riconosciuta della mafiaMancavano pochi giorni al suo trentacinquesimo compleanno quando il 12 febbraio 2004 venne trovato senza vita nella sua casa di Viterbo, città nella quale si era trasferito un paio d’anni prima per lavorare all’ospedale Belcolle. Attilio Manca, un urologo siciliano nato a San Donà di Piave ma trasferitosi da bambino con la famiglia a Barcellona Pozzo Di Grotto (Messina), venne ucciso da un mix di eroina, Tranquirit – uno psicofarmaco a base di diazepam – e alcol e, svolti i primi accertamenti, si parlò di overdose e suicidio.

Sulla vicenda oggi pende la terza richiesta di archiviazione da parte della procura di Viterbo. Richiesta a cui la famiglia si è opposta ancora una volta perché ritiene che di omicidio si tratti. E, nello specifico, che si tratti di omicidio di mafia, tanto che oggi Attilio Manca viene considerato una vittima non riconosciuta della criminalità organizzata. La tesi del suicidio, infatti, non sembra giustificare la fine di una promessa della medicina. L’urologo, malgrado la giovane età, era già noto per aver effettuato per primo in Italia interventi alla prostata in laparoscopia, tecnica appresa durante cicli di specializzazione all’estero. A Viterbo, poi, aveva un buon rapporto con colleghi e paramedici. Solo con il primario, Antonio Rizzotto, sembrava andare meno bene: Attilio lo considerava “autoritario, un gerarca”, ha detto la madre Angelina Gentile, tanto che voleva tornare a Roma.

Single, una vita brillante, una carriera già decollata, Attilio Manca non sembrava dunque avere alcun motivo per gettarsi nelle spire degli stupefacenti né per togliersi la vita. Solo nei suoi ultimi giorni è sembrato preoccupato, anche se il motivo rimane ignoto.

La voce delle voci
Dalle ultime quarantotto ore all’ombra di cosa nostra

Nessuno vede più Attilio Manca dal 10 febbraio 2004. A differenza del solito, dà forfait ai colleghi, che si trovano per cena. E non si presenta nemmeno il giorno successivo, l’11 febbraio, a un appuntamento a Roma, al policlinico Gemelli, dove deve incontrare Gerardo Ronzoni, primario di urologia di cui era stato assistente. Quella mattina però, vero le 9 e mezza, telefona alla madre e le chiede di far riparare la motocicletta che custodiva nella casa di villeggiatura, a Tonnarella (Messina). Strano, ha pensato la donna, dato che Attilio non l’avrebbe utilizzata prima di agosto. E strano anche perché il mezzo era in perfette condizioni. Ma su questo punto ci si tornerà.

Lì per lì, dunque, impossibile dare peso alla sua richiesta a cui segue di nuovo il buio. Cosa accada infatti nella notte tra l’11 e il 12 febbraio non si sa. C’è solo un vicino di casa che racconta qualcosa. Racconta che poco dopo le 22 di quell’ultima sera sentì la porta dell’appartamento del medico aprirsi e chiudersi. Poi più nulla fino alla notizia alla famiglia. La morte del medico viene comunicata dallo zio, Gaetano Manca, il padre di Ugo, che vive nella casa accanto. Quando va a suonare al campanello dei parenti è l’ora di pranzo. Sa cos’è accaduto da un paio d’ore e quando incontra una pattuglia della polizia che sta andando a informare i genitori la manda via. Meglio che sia un parente a comunicare l’evento. Il primo con cui Gaetano Manca parla è il fratello di Attilio, Gianluca, e subito aggiunge che in casa sono state trovate due siringhe, una in bagno e l’altra nella pattumiera della cucina. A dirglielo – afferma – è stata una collega di Attilio, l’anestesista Giuseppina Genovese, ma Ugo, il cugino della vittima, darà anche un’altra versione: a informarli sarebbe stato il primario di Viterbo.

Nel dialogo che avviene tra zio e nipote, il primo aggiunge che è meglio dire che Attilio è morto per aneurisma. Inoltre sono già stati fatti tre biglietti aerei: da Barcellona Pozzo Di Grotto devono partire Ugo, Gianluca e Gigi Manca, il padre di Attilio. Ma qui la famiglia non ci sta e alla fine andranno a Viterbo entrambi i genitori, Gianluca e un fratello della madre. I quali, giunti a destinazione, vengono dirottati in albergo: la camera mortuaria è già chiusa e fino al mattino successivo non è possibile vedere il corpo. Ma anche allora non sarà facile avvicinarsi. «È meglio che ve lo ricordiate com’era da vivo», dicono alla famiglia. «È caduto con il volto sul telecomando, ha il setto nasale deviato e il viso tumefatto».

Inoltre il riconoscimento lo effettua la moglie di Rizzotto, Dalila Ranaletta, perché, come ha detto sempre Ugo Manca, ne andrebbe del buon nome dell’ospedale se si sapesse che uno dei suoi medici faceva uso di sostanze stupefacenti. E la famiglia ha fretta di portarsi via la salma, aggiunge il cugino, che facciano in fretta con l’autopsia e con il dissequestro dell’appartamento.

La macchina investigativa, nel frattempo, si è messa in moto, per quanto a tutt’oggi non abbia risposto alle domande che la famiglia continua a porre. Dai rilievi effettuati all’interno dell’abitazione, vengono trovate alcune impronte digitali che più tardi dimostrano che Ugo Manca, il cugino, lì c’è stato. A metà dicembre, afferma lui, per essere sottoposto a un intervento a cui ha partecipato anche Attilio. Ma la famiglia lo smentisce: per il Natale 2003 i genitori avevano raggiunto il figlio nella città laziale e la madre aveva pulito a fondo l’appartamento. Peraltro a casa del medico non sono state rinvenute le impronte dei familiari e nemmeno quelle degli amici che il 4 febbraio avevano partecipato lì a una cena.

Inoltre, con il trascorrere del tempo, inizia a profilarsi l’ombra di cosa nostra. In un’intercettazione ambientale effettuata nell’ambito dell’operazione antimafia Vivaio, si scopre che il “capo dei capi”, Bernardo Provenzano, era a Tonnarella, la località indicata da Attilio Manca alla madre parlando della motocicletta (da rilevare anche che di quell’ultima telefonata non rimarrà traccia nei tabulati). Non sapendo di essere ascoltata dagli inquirenti, la sorella del boss di Barcellona Pozzo di Grotto, Carmelo Bisognano, parla con un immobiliarista e dice che avevano ragione i Manca a dire che il figlio aveva visitato Provenzano. «Tutti sapevamo che iddu era qua», a Tonnarella. A conferma ci sono anche gli elementi raccolti dai carabinieri del Ros, che lo collocano in quel periodo nel convento di Sant’Antonino.

Facciamo però un passo indietro. Il primo dubbio sul legame tra Provenzano e Attilio Manca arriva dopo i funerali. Il padre di un amico del giovane chiede ai genitori se siano sicuri che il medico non abbia mai visitato il boss firmando così la sua condanna a morte. La famiglia, di primo acchito, reagisce con incredulità e accantona la faccenda. Ma un anno più tardi, il 20 febbraio 2005, la Gazzetta del Sud pubblica le dichiarazioni di Ciccio Pastoia, il capomafia di Belmonte che si suiciderà in carcere un paio di giorno dopo. Dichiarazioni secondo cui un urologo siciliano si sarebbe occupato di Provenzano nel suo rifugio. A questo punto la famiglia chiede – a tutt’oggi inutilmente – che venga accertata l’identità del medico di cui parla il boss.
E poi c’è un’altra coincidenza che ruota intorno a Marsiglia, città da cui Attilio Manca chiama i genitori. «Sono qui per un intervento», dice nell’ottobre 2003, quando anche Provenzano è lì per sottoporsi a un intervento alla prostata.

L’isolamento della famiglia e gli elementi mai chiariti

A ciò si aggiunga il clima ostile che i Manca respirano a Barcellona Pozza di Grotto. Se appena dopo la morte di Attilio sono in molti a stringersi intorno alla famiglia, presto l’atmosfera cambia e si delineano due fatti. Da un lato, i rapporti con Ugo e con i suoi genitori si raffreddano. E se in un primo momento era stato il cugino a voler celare la storia dell’overdose, poi sua madre fa circolare giornali viterbesi che rilanciano quest’ipotesi. Inoltre iniziano a comparire storie infamanti sul giovane medico, ribadite – e smentite – anche nel processo “Mare Nostrum” in cui figura tra gli imputati anche Ugo Manca, condannato in primo grado a nove anni.

I genitori reagiscono, nominano un legale di fiducia, Fabio Repici, che ne sostituisce uno precedente e che è noto per difendere i familiari delle vittime di mafia (ha seguito tra gli altri il caso di Graziella Campagna, la diciassettenne assassinata a Saponara a fine 1985). Nel frattempo giunge l’esito della perizia medico-legale. Una perizia che, se conferma il setto nasale deviato, parla anche di lividi diffusi e di due fori da siringa – gli unici sul corpo del giovane – sul braccio sinistro mentre Attilio era mancino e incapace di usare la destra. Ma non basta: ai polsi e alle caviglie ha segni come quelli lasciati da una corda o da un altro strumento utilizzato per immobilizzare l’uomo, e ha un testicolo gonfio, come se avesse preso un calcio.

Anche nella casa del giovane ci sono tracce di colluttazione e un peso da sollevamento spaccato. Inoltre, su un tavolino accanto al letto, c’era la sua borsa di lavoro con gli strumenti da chirurgo e un ago da sutura pronto all’uso mentre Attilio non portava mai a casa gli attrezzati usati in ospedale.

Box – No all’archiviazione “forzata”

Tre richieste di archiviazione e per due volte il gip di Viterbo ha ordinato un supplemento d’indagine. Ora si attende la nuova udienza che stabilirà se si deve andare ancora avanti per far luce sulla fine di Attilio Manca. L’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato della famiglia, Fabio Repici, si basa su ventuno punti. I principali riguardano le analisi – finora mai svolte – sulle due siringhe trovate a casa del medico, entrambe usate e con il cappuccio riposizionato sopra l’ago, e altrettanti flaconi di Tranquirit, uno dei quali vuoto e uno utilizzato solo per metà. Inoltre, occorre verificare una scheda telefonica sconosciuta di cui Attilio disponeva e quale fosse l’utenza a disposizione di Angelo Porcino, un pregiudicato barcellonese di cui il medico aveva chiesto informazioni ai genitori una decina di giorni prima di morire. E poi c’è la pista che porta a Bernardo Provenzano e alle cure che ricevette da un urologo siciliano tuttora senza nome.

Finora esiste un solo libro che ricostruisce la vicenda. Si intitola “El enigma siciliano de Attilio Manca” ed è stato scritto da un giornalista spagnolo, Joan Queralt, con vent’anni di inchieste sulla mafia alle spalle. Pubblicato nel 2008, il volume afferma che la morte del medico sarebbe una tipica esecuzione di mafia e altrettanto tipica sarebbe la dissimulazione dell’omicidio. E l’autore fa anche i nomi dei presunti responsabili. Per questo giornalista, casa editrice e addirittura le librerie della penisola iberica sono stati querelati bloccando così sia la vendita del libro in lingua originale che qualsiasi tentativo di tradurlo in italiano.

(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio 2010 del mensile La voce delle voci)

    


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