Un pomeriggio disumano, tetro di quell’inverno faticoso la morte insensata diede il suo spettacolo malvagio. Fu un agguato nel buio assoluto. La morte colse Marta nell’assoluta oscurità, nel sonno , forse c’è veramente bisogno del buio per vedere le cose. I suoi occhi sfuggenti e malinconici si chiusero per sempre sulle infinite miserie umane. Nel buio spietato e indifferente non aveva avuto scampo. Imprigionata nella sua sontuosa stanza fra i lenzuoli di lino, nel supplizio della malattia era stata colta alla sprovvista dalla morte silenziosa. Impotente, mentre respirava profondamente era stata colpita dal messaggio oscuro della morte, che tuttavia giungeva tardiva ad alleviare le sofferenze. La morte aveva scosso il corpo sfinito indisturbata, con un battito d’ali. Nessun sogno aveva trattenuto Marta. La sua vita era stata semplicemente rimossa, si era conclusa piena di anomalie. Marta aveva mollato la presa, si era arresa, aveva rifiutato la vita ingannevole, senza energia. Marta era ancora giovane e si aspettava ancora molto dalla vita. Lei così ricca avrebbe dovuto lasciare tutto, rinunciare per sempre alle sue terre, ai suoi gioielli, ai suoi vestiti di seta. Avrebbe voluto vedere il suo unico figlio, sistemato, vedere i nipoti, assaporare le gioie della vita domestica. Invece doveva andare all’altro mondo senza niente, sprovvista persino del corpo a cui teneva tanto. Che strano il destino! Si accumula tanto e poi tutto finisce in un attimo, senza rendersi conto di niente siamo obbligati a lasciare gli averi, a marcire in una bara. Per chi non ha fede c’è da impazzire. Il passo verso l’abisso è ancora più pesante se si hanno peccati sulla coscienza, macigni che pesano sul cuore come pietre tombali. Marta era stata superba, priva di pietà, aveva manipolato sentimenti, soldi, non era stata mite e buona. Aveva manifestato troppo attaccamento alle cose terrene, non era degna di stima, della stima del destino . Inoltre si era sposata senza amore, convinta che l’affetto sarebbe giunto dopo, un errore che fanno molti e che stava facendo pure Giovanni, e lei lo spingeva verso lo stesso punto. Non lo fermava, quasi per paura che suo figlio si innamorasse sul serio e finisse legato a una donna sbagliata, povera, soprattutto povera. Marta era delusa, per lei non c’era stata vigorosa vecchiaia, anni d’argento, solo una morte prematura. Troppo presa dalle frivolezze della vita non era stata saggia, non aveva capito cosa conta di più nella vita: fare il bene. Quando si fa il bene una scintilla di luce invade l’anima. Lei aveva seminato divisione, odio parentale, devastazione, sulla strada aveva lasciato tante vittime, compreso suo figlio. Non si mettono al mondo dei figli se ci si sposa per squallide ragioni di interesse. La storia si ripeteva nuda e cruda, era una catena: Giovanni si sposava per interesse, per abbracciare ancora dote e terre. Come spezzare la catena? Come rinnegare il passato? Marta era morta senza lasciare testamento. Dopo la sua morte improvvisa bisognava provvedere a risolvere le questioni pratiche, amministrative, prendere in mano le redini in nome della famiglia. Gli oggetti di valore, gli ori andavano messi da parte, custoditi, magari trasportati di nascosto, se era necessario. Bisognava difendere la roba con le unghie e con i denti. Vincenzo non voleva essere spogliato degli averi ereditati. Si può essere spogliati dell’affetto ma non dei soldi. Il suo era un timore infondato ovviamente. In fatto di soldi Giovanni riconosceva la superiorità morale del padre e gli dava carta bianca. Il notaio, subito consultato, concluse che Vincenzo era erede insieme a suo figlio. Erano padroni incontrastati della villa, dei poderi. Durante il funerale, avvenuto in forma solenne nella chiesa principale, Vincenzo era rimasto stranamente calmo, impassibile, si comportava come nulla fosse. La morte della moglie apriva la strada ad un periodo di massima libertà. Sua moglie, attrice da strapazzo, era uscita di scena in via definitiva. Ora non voleva rinunciare all’eredità, poteva dissipare il denaro come meglio credeva, vendere i terreni, giocare nelle bische, tornare tardi la sera, anche se gli affari non si fanno di notte . Il popolo della notte crede di essere onnipotente ma nella notte ci possono essere anche pericolose insidie. La vita regolare è quella diurna, nella notte non si concludono mai favolosi affari. Non c’era più la sentinella di sua moglie. I parenti fecero solo una pallida comparsa al funerale. Da tempo nessuno si guardava più negli occhi, nessuno si parlava più fraternamente. La discendenza si era spaccata in vari rami, e ognuno andava per conto suo. Alcuni rami della famiglia erano più poveri ed erano comunque da biasimare, anche se erano ricchi di affetto. Giovanni al funerale tremava , era nervoso, intrattabile, sapeva che aveva deluso sua madre, lei non aveva assistito al suo matrimonio. I soldi non sempre permettono la realizzazione di tutti i sogni. In fondo Giovanni considerava sua madre una donna poco risoluta, che si era lasciata sopraffare con il tempo dal marito. Alle frequenti liti, per futili motivi, aveva assistito anche lui. Vincenzo alzava anche le mani su di lei e la manipolava a suo piacimento. Così lei era costretta a coprire i lividi che portava sulle braccia e sul collo. Non l’aveva lasciato per non dare scandalo, per mantenere l’immagine di famiglia ideale. Cresciuto in questo inferno le lacrime stentavano a uscire dagli occhi. Per pudore virile Giovanni non pianse, i sentimenti nell’inferno erano banditi. Era ancora altezzoso, la morte della madre non l’aveva reso più dolce e remissivo. Aveva il cuore arido e pesante, la morte era uno smacco. Doveva reagire per non farsi schiacciare, in fondo non tutto era perduto. I colloqui con il padre erano penosi, il padre non gli dava conforto. Non sapeva come comportarsi con lui, le sue certezze erano crollate, ma voleva essere forte, se non altro per non mostrarsi avvilito agli occhi degli altri . Il punto di riferimento di sua madre era svanito, era sbiadito lontano. Si sentiva in balia del destino acido . Perché proprio a lui era morta la madre? Pensava alle chiacchere degli amici, dei vicini, dei parenti di fronte a quella sconfitta. Per combattere doveva apparire sereno. La gente non doveva vedere il suo dolore. Il problema non era fuori di lui ma dentro, era un equilibrio che si era spezzato. Dentro si sentiva vuoto, sperduto. Al rientro a casa non avrebbe più trovato sua madre ad aspettarlo, questo era il punto . Fedelmente, con fatica cercava di serbare i ricordi, alcuni di accantonarli. Al cospetto della morte, che lo atterriva e lo attraeva in un gioco morboso, faceva intensamente incetta di ricordi. Aveva dato commiato al fantasma di sua madre, al suo relitto ma poteva preservare il suo ricordo. La morte come una minaccia gli aveva riservato una sorpresa, l’aveva sviato dal cammino lasciandolo attonito e sconvolto. Nella snervante attesa dell’arrivo dell’imponente carro funebre intuiva che doveva risolversi, mostrarsi pratico, non fare una pessima figura con la gente . Il funerale si era svolto quasi blindato, lontano dal rumoreggiare della massa anonima. Giovanni cercava costantemente di apparire normale . Aveva scelto di tacere, di non mostrare i segreti assoluti del suo cuore fanatico, palpitante . Sacrificava i sentimenti per una questione di facciata. Di fronte allo spettacolo tremendo della morte, al rituale delle esequie non perdeva la testa, appariva sicuro e rispettabile come se un’oscura forza invisibile lo guidasse. Aveva imparato in fretta il suo ruolo di pedina nello scacchiere familiare. Era intervenuto nel vicolo cieco dei sentimenti e aveva bloccato lo smarrimento, che era svanito in pochi attimi. Solo mentalmente cercava di consolare, riparare, difendere il suo cuore ferito, catturato dal male. La perdita assurda e ingiusta della madre era una semplice fatalità. Era solo una sequenza della pellicola della sua vita, un passaggio lento, un frammento . La morte non avrebbe avuto il sopravvento, non avrebbe distrutto il suo tentativo di imporsi. La morte faceva solo scena per qualche suo fine recondito che lui non comprendeva. Rammentava le parole dei preti in occasione della festività delle ceneri : polvere sei e polvere ritornerai. Ma lui si affrettava con cura a contrastare l’usura del tempo con la sua mente lucida e le sue azioni ribelli. La sua vita doveva essere invidiabile. Non doveva lascarsi soverchiare dalle emozioni, non doveva avere la voce frammentata, rotta in frasi concitate dal pianto . Il suo dolore doveva stemperarsi, esaurirsi nel silenzio, senza inutili rischi per il suo orgoglio . Era come un fuscello rinsecchito con i tratti del volto induriti dalla sofferenza e gli occhi sbarrati di fronte al male oscuro. Non si dimenava, non si lamentava , era come un relitto alla deriva. Con piccoli espedienti, accorgimenti, titubante cercava una via d’uscita per superare l’impasse, la priorità era quella di rimettersi in sesto . Fugacemente il suo sesto senso gli faceva capire che doveva smettere di indagare sul fenomeno morte, non doveva essere curioso . Il suo desiderio incontrollabile era quello di rimuovere la morte e la sua comparsa, per lo meno nella sua mente. La morte era prevedibile, impietosa, irripetibile, assordante, insopportabile, gravosa, irritante, sfuggente ma lui doveva sfuggire alla sua stretta. Dentro era furente, seccato avrebbe voluto sfogarsi, confidarsi, condividere con qualcuno il dolore ma non poteva. Fuori era impassibile e controllato. Sapeva che la precisa strategia della morte alcune volte era vincente. Alcune persone sofferenti si fidavano solo dei suoi occhi magnetici. Accettavano di essere blanditi dalla morte in modo elegante, freddo senza gridare. Cercavano concilianti di essere risollevati dalla luminosa presenza della morte. Alcuni, che a lui facevano compassione, con cui era in disaccordo, credevano di avere nell’aldilà una ricompensa speciale, un segno particolare, di meritare un trattamento di favore. Nella sua lenta esplorazione del mondo aveva scoperto che tutti si ritengono e si credono buoni, anche i malvagi. La sua fede era fatiscente, il rapporto con dio complicato. Non credeva che il mondo fosse un riverbero della luce di dio. Non esisteva un dio invisibile dotato di un potere magico dove rifugiarsi, da raggiungere, da osservare felici. Davanti al concetto di dio percepiva strane sensazioni alterate, sfumate che non gli davano però un quadro completo del senso della vita. L’uomo si immergeva nel fragore della vita con diffusa allegria e poi riemergeva nelle stesse condizioni di prima avvolto nel sudario fatale della morte. Non c’era nemmeno la possibilità di un ruolo diverso, di una parte nuova. Intuiva che la morte remava contro e dio come punto di riferimento era assente. L’umanità gemeva logorata e corrotta, distrutta dalla morte ossessiva , che lui cercava di annientare. A livello mentale doveva azzerare la morte, fingere che non esistesse. Nel vuoto del dubbio sull’aldilà Giovanni si lasciava andare al ricordo dolce, amorevole e piacevole di sua madre, accompagnato da sinistri rimpianti. Ripercorreva la vita a ritroso, con un senso di ineluttabilità. Forse per salvarsi era meglio non pensare, adagiarsi anche nel dolore, ma senza il peso del ricordo. Nella vita esistono cose riconoscibili che non si devono vedere, forse si devono accettare con gli occhi bendati benchè piene di incognite, di rischi. Frustato sapeva che doveva per forza di cose rielaborare il lutto. Inorridito, confuso guardava la morte cruenta con odio. Lei era responsabile dell’infelicità del genere umano, delle vibrazioni dell’anima folle di paura, della fine dell’euforia di vivere . Con stizza si convinceva che lui era l’artefice del suo destino, che poteva vivere bene anche in disparte, che poteva avere la considerazione degli altri, che poteva vedere i suoi desideri irrealizzabili concretizzarsi. Nel grigiore della vita c’erano in effetti delle chance. La vita aveva una patina rosea, aveva i suoi momenti belli, immagini indicanti pace. La vita dava i suoi frutti, specie se si collaborava con gli altri esseri umani. L’umanità si poteva salvare se restava unita contro la natura matrigna e la morte atroce. Aveva risolto la situazione immergendosi nella banale realtà con un sorriso conciliante . La verità era che l’uomo depistava la morte rapidamente immergendosi nella gradevole penombra della vita pratica. Gli oggetti, l’approccio visivo con la realtà erano importanti, decisivi. L’uomo ridotto a brandelli si stordiva con le vetrine, con il quotidiano, con gli oggetti di piacere per dimenticare la fine, la morte . Anche Giovanni fiaccato dalla morte futile si immergeva nella realtà anche la più degenerata, cercando un suo conforto . Nella circostanza doveva aggrapparsi a ciò che aveva senza fiatare, adeguarsi alla nuova maschera di orfano come un trasformista. Doveva estirpare i suoi istinti peggiori in modo appropriato. In casa Giovanni come un recluso, spaesato si scollegava dal mondo, staccava la spina con occhi inespressivi vivendo sotto l’ala isolata e speciale del benessere che lo faceva diventare forte. Nel mondo la legge dominate era quella del più forte, del più ricco . Nelle pagine della sua mente sentiva pulsare tracce di affetto, deboli, sottotono per Manuela. Lei poteva risollevarlo e aiutarlo a dimenticare la morte. Nella piatta routine aveva bisogno di una donna sicura, che gli parlasse sottovoce, di una moglie seria e di un’amante che lo provocasse ad ogni occasione, anche esagerando. Voleva reagire in modo adeguato, riprendere fiato, tornare ad avere la lucidità mentale di un tempo , la normale capacità di apprendimento che lo distingueva . Tratteneva solo il ricordo antico di sua madre, amaro rigurgito del passato. Cercava almeno dentro di lui di perpetuare il ricordo, come antidoto alla austera morte che si introduceva ovunque . Nei suoi pensieri, nella sua fantasia non vi erano più sequenze di morte , solo dedizione agli affari che lo riempivano di orgoglio, che gli facevano dimenticare se stesso . Ricostruiva mentalmente spesso frammenti di scene dove era presente sua madre. Certo non comprendeva la morte, quel suo modo malvagio, nocivo di liquidare a proprio piacimento la vita agendo nell’ombra . Il prezzo da pagare alla morte era sempre alto: morire soli , deboli senza il pianto e il ricordo di nessuno. Nell’indifferenza degli altri, nella malattia furente la morte poteva apparire anche un rifugio convincente. La morte poteva essere la punizione per una vita bizzarra e cattiva, fatta di vendette, priva di perdoni. Nel nascondiglio della notte ripensava ai frenetici momenti del giorno. La vita lo adescava con la sua oscura energia, con la sua natura rigogliosa . Giovanni la notte provava la strana sensazione di essere pervaso dalla vita, una specie di scossa vitale, di piacere segreto, di brivido di vivere in una discreta fortuna. Di giorno per lavoro era un’anima in pena, ligio e devoto al dovere. Nel suo percorso insolito, nella sua vita sfarzosa, fatta di stanze decorate c’era una via di fuga logica, ordinata: il fidanzamento . Meticoloso tassello dopo tassello svelava la trama nascosta del suo destino. Poteva, se voleva, ritornare innocente, guarire le ferite sanguinanti del lutto violento e recente . Se frugava nel suo passato, se osservava la sua infanzia si accorgeva che alcuni eventi erano stati accidentali, senza significato profondo. Solo una catena di eventi abbandonati dal destino, guidati dalla malasorte contro cui aveva inveito. La vita è fatta di disguidi, di baratri, di esperienze emotive, di complicate e inaspettate rivelazioni, di esigenze oscure, di spossatezza, di strana sofferenza, di sorrisi di circostanza, di sbiadite presenze, di alti e di bassi . Giovanni aveva assecondato il destino mestamente, con fastidio. Confidava solo nel suo buon nome, nel buon nome della sua famiglia originaria, le cui origini appartenevano a un’altra epoca. I ritratti dei suoi antenati lo proteggevano compunti, lo rinvigorivano, lo facevano sentire speciale, privilegiato , con messaggi esclusivi gli imprimevano la forza del cambiamento. Celebrava quelle entità superiori che lo facevano ricredere sul senso della vita, che lo cambiavano. Ogni volta decifrava i segni, i suggerimenti degli antenati nei sogni stessi che gli restituivano fiducia nel futuro . Nel mondo imperfetto e irregolare che rendeva alla fine del percorso l’uomo esanime c’era una salvezza armoniosa: la continuità delle generazioni, continuità che lui doveva garantire. Ripercorreva a ritroso il labirinto accidentato del passato, lo rimaneggiava e trovava episodi coinvolgenti, di basilare importanza per la sua famiglia, collocata in alto come un trofeo. Risoluto aveva preso una decisione impulsiva che si traduceva in una specie di sacro giuramento: fidanzarsi, anche se la sua forma mentis respingeva le nozze, l’istituzione del matrimonio. In conclusione per il bene della sua razza poteva fare qualche concessione. Era vicino a una svolta che assumeva un valore simbolico. Era scattato in lui il senso di appartenenza a una stirpe potente, che lo faceva ammutolire per le sue gesta. Giovanni ignorava tutti i retroscena, i pesi dell’anima, le abiezioni, le apparenti contraddizioni della sua stirpe. Non faceva i conti con il lato oscuro del suo fragile sangue. Con gesto rapido teneva a bada i dubbi, le diffidenze che aveva sulle origini di tutta quella ricchezza. Un presentimento gli faceva pensare che la ricchezza della sua razza era frutto di prevaricazioni e provava un senso di sconforto. Nel resoconto dei suoi possedimenti trovava delle anomalie rovinose, raccapriccianti, distorte . Di colpo l’amarezza, la paura era svanita, con l’idea del fidanzamento e una disperata frenesia lo prendeva quando pensava al suo futuro, alle nozze che dissipavano la nebbia di tutti quegli interrogativi. Voleva avere una boccata di normalità, fare anche un salto di qualità sposando una donna brillante, eccitante, nota al pubblico per la sua musica, onesta e riservata . Non capita tutti i giorni di incontrare una persona non banale. Non voleva vivere in collera, nella paura, in attesa della sagoma scura del futuro incerto. Nel promemoria della sua esistenza vi era una sola annotazione: fidanzamento. Consentiva a suo padre di osservare anche a distanza la sequenza della sua vita vera, senza giri di parole. La destinazione ultima era la serenità familiare senza traballamenti. Avrebbe ricominciato daccapo, sanato i buchi neri della vita sua per condividere con sorriso sereno la vita quotidiana con una donna . Manuela presto ricevette una proposta di matrimonio in piena regola, con tanto di anello: uno zaffiro meraviglioso con diamante giallo, appartenuto a Marta. Lei non era stata colta di sorpresa aveva previsto un epilogo del genere. Riordinando le idee capiva che soltanto lui era oggetto del suo desiderio. L’amore complesso, spietato, grande come un abisso non le lasciava scampo. Avrebbe accettato di buon grado, la sua era una immensa felicità . Non era più una donna perduta, senza futuro. Chi l’aveva disprezzata in passato ora sarebbe rimasto allibito. La sua era una sfida anche nei confronti delle altre donne che si consideravano superiori a lei in bellezza e la guardavano dall’alto in basso, irritate solo per la sua ricchezza. La isolavano e lei chiusa in se stessa diventava asociale. Il fidanzamento avrebbe fatto giustizia. Lei avrebbe avuto le sembianze di una donna vera, come le altre . Nella notte, nel completo isolamento, Manuela ascoltava , quasi priva di memoria, lo schianto del suo cuore risucchiato, penetrato, torturato dall’amore e rivedeva a rallentatore il momento in cui indisturbata, appagata , un po’ agitata aveva aperto la scatola in velluto che racchiudeva l’anello con un lampo negli occhi. Lei non notava le frasi di circostanza di lui, le sue attenzioni forzate, il suo affetto malato, le sue parole scarne dette sovrappensiero, il suo tono di voce quasi di scherno . Nella sua immaturità affettiva, nella sua ricerca d’amore non vedeva falle, non c’erano sospetti . L’amore era un nascondiglio perfetto, appagante, l’aveva scritto sulla pelle, lasciava tracce nel cuore e la proiettava verso sfondi lontani dove lei era ammirata . All’amore aggressivo si aggiungeva la possibilità reale di vivere di rendita sommando le ricchezze di entrambi. L’amore aveva su di lei un effetto benefico, calmava la sua smania, era un’evasione mentale anche se con il tempo si sarebbe rivelato crudele. Nessuno conosce i segreti del cuore, le conseguenze dell’amore. La sua vera indole purtroppo era romantica. Era una donna sotto sotto passionale, istintiva, fantasiosa. Giovanni cercava invece la considerazione della gente per questo usava tutta una serie di stratagemmi per farsi vedere in pubblico al fianco della fidanzata. Era necessario salvare le apparenze e mostrarsi innamorato, dare un’immagine pulita . Non voleva infrangere le leggi non scritte della sua casata, per questo adottava il prezioso travestimento di innamorato. Sua intenzione era quella di mostrarsi affine a lei, anche se per lui Manuela era quasi invisibile. In via precauzionale si mostrava molto affettuoso e dimostrava tenerezza, pur mantenendo, in pratica, una distanza di sicurezza. Nel segreto della sua testa voleva solo sbrigarsi, accelerare i tempi, non voleva andare incontro a un ritardo prolungato per la celebrazione delle nozze. Non vi erano impedimenti specifici, giustificati. Con il volto pieno di sollievo, deciso, che non ammetteva repliche, che denotava solo affetto puro, illuminato dai riflessi del sole morente di un tardo pomeriggio di primavera, comunicò la data delle nozze alla fanciulla. Passaggio obbligato e liberatorio. A Manuela era stata preclusa la possibilità di scegliere. Davanti alla data rimase interdetta ma poi si lasciò guidare dall’istinto e chiuse gli occhi per il piacere e lo accolse fra le sue braccia. Sentiva la sua ombra protettiva che non chiedeva nulla in cambio. Avvampando sentiva che nella sua vita alleggiava la felicità duratura, rassicurante. Si accontentava di quell’amore rivelato con parole piene di dolce torpore, di indulgenza . Lei stravedeva per lui, sommersa dall’amore, invasa da brividi le obbediva senza avere la forza di respingerlo. Aveva una bufera dentro di sé ma per scaricare la tensione, per avere il controllo della situazione, per prendere tempo gli toccò una guancia con una carezza come un normale gesto di cortesia, in un atteggiamento prudente. Sapeva che non sarebbe mai stata con lui cattiva e irrispettosa. Lui intanto assecondava il destino, ricomponeva le sue spaccature in modo dinamico. Capiva che aveva condotto le trattative del fidanzamento con il padre della sposa nell’alveo della tradizione ma in modo troppo freddo, come forzato, approssimativo. Mascherava come poteva l’assenza di sentimenti anche se in alcuni frangenti era faticoso. Obbligava il suo cuore pieno di lesioni al compromesso. Eppure quella ragazza era appetibile, integra, paladina dell’onestà, affidabile, compatibile con lui, appartenente a una famiglia di grido, esageratamente ricca . Nella sua fantasia distorta la respingeva, si sentiva un guscio vuoto incapace di amare . Non voleva spaventare la ragazza, farle provare l’esperienza del rifiuto. Si sforzava caparbio, ostinato, preciso di tenere il passo di quel fidanzamento, di dargli tepore e calore. Solo sul suo diario, in alcuni punti esatti, annotava la sua paura con messaggi sibillini e dava una versione evasiva di quell’amore e in alcune frasi ,come per giustificarsi, sottolineava il potenziale pericolo dell’amore vero fatto di giochi troppo forti di luci e ombre. Ormai lui voleva condividere la vita con un ‘altra persona e trincerarsi dietro la cortina scura e opaca del matrimonio perfetto. Il suo istinto predatorio, presente nel suo sangue come retaggio ancestrale, lo spingeva a non disperdere energie, a inglobare le ricchezze della moglie, a non desistere, a rispettare il suo ruolo . Rincuorato sapeva che doveva portare a termine il suo compito positivo senza smentirsi, senza curarsi degli altri, doveva ultimare il suo percorso, la sua ricerca era alla fine. In fondo bastava esibire oscenamente davanti agli altri , senza celare, l’amore, quell’amore che invece a mala pena lo lambiva. Nel diario naturalmente filtrava la scontentezza, erano ammassate parole incoerenti, strettamente personali , spesso piangente malediceva la sfortuna, si ripiegava su se stesso, si accaniva, percuoteva la sua anima tribolata. Nessuno avrebbe letto quelle pagine. Ognuno dovrebbe avere un diario dove sfogare i propri crucci. Spesso però i diari finiscono nelle mani dei figli. Un giorno avrei letto quelle pagine come avrei letto le struggenti poesie di Marco. Le poesie di Marco le avrei raccolte tutte in un unico, grande volume. Giovanni ovviamente non voleva disperdere le sue energie, danneggiarsi si sarebbe arreso molle alle nozze, del resto tutto scorreva senza appigli, senza inciampi . Aveva il benestare dei parenti e di suo padre. Non c’era niente da capire, doveva solo attendere il palese risultato finale. Con tratto maturo, come un adulto, ogni dubbio riusciva a dissiparlo con brillanti idee e grazie anche a tutta una serie di affascianti coincidenze. In fondo era giovane, la morte era indefinita e lontana, un puntino sullo sfondo quindi poteva trovare una nuova dimensione di vita magari simulare amore per la moglie e dopo trovarsi un’amante e renderla invisibile agli occhi della moglie e il cerchio si sarebbe chiuso.
Il matrimonio venne celebrato in pompa magna in un caldo mattino di Giugno. Il padre della sposa era elettrizzato, era stato conquistato da Giovanni. A vederli, genero e suocero, sembravano affiatati, legati da un feeling, da interessi comuni. La sposa fece il suo ingresso in chiesa con un abito color avorio , lungo, con un immenso strascico, ricoperto da perline luccicanti, le maniche velate e ricamate di fino. I capelli erano raccolti e sul capo sfavillava un diadema di diamanti. Il trucco era soffice, fatto con colori tenui e naturali. Lo sguardo era luminoso, gli occhi brillanti. In mano aveva un mazzo di rose panna e rosa pallido. Le rose erano il suo fiore preferito, forse perché avevano le loro spine. Lo sposo era molto elegante, aveva un vestito blu di seta lucida, una camicia bianca ricamata con le iniziali, sembrava un uomo fatto. La cappella della chiesa era gremita di una folla immensa di parenti e c’erano fiori e addobbi ovunque. La cerimonia fu sfarzosa, la torta nunziale di dieci piani, gli invitati numerosi. Fu un evento che suscitò un certo clamore. Ogni cosa era perfetta, messa al punto giusto, ma come insegna la vita, nessuna rosa è senza spine e ogni vaso ha la sua crepa. Giovanni aveva il volto teso, quasi balbettava fra le lacrime, sembrava non ragionare, si celava dietro un silenzio irritante. Pronunciò il fatidico si senza convinzione, come in letargo con un sorriso di sufficienza, forzato . Gli mancavano le forze per fronteggiare la folla degli invitati. Le loro risate fragorose erano per lui amare. Era tentato di far finta che non fosse accaduto nulla. In fondo nella vita niente diventa definitivo, eccetto la morte . Nel panico si metteva sulla difensiva, non mostrando la sua rabbia. Ignorava lo sguardo duro e fulminate del padre, che infieriva senza pietà. Guardava sprezzante le invitate che disgustosamente e in modo persistente si atteggiavano nei loro abiti lussuosi e si tormentavano a vicenda. Le giudicava in fretta come invitate scomode, presumeva che fossero ricche smorfiose . Era arrivato però a un punto critico in cui era impossibile desistere, arretrare, esonerarsi, ribattere, pungolare . Tuttavia si placò, non spiazzò gli ospiti con battute sarcastiche che pure gli venivano alle labbra spontanee. Il suo umore nero non divenne contagioso. Con la sua faccia pulita si era assicurato un percorso sul quale avrebbe resistito a lungo. Era spezzato nell’animo, intimorito, incredibilmente fragile dentro, ma convincente fuori, non si irrigidiva . Non perdeva la calma, non divagava, mostrava un placido sorriso insistente . Vibrava lievemente solo quando l’orchestra metteva antiche melodie struggenti. La sua tempra all’apparenza era solida. La festa gli sembrava spenta, credeva di non meritare quel lutto nel cuore. Gli sfuggiva il senso di quella serie di traversie amorose . Lo ferivano i ricordi dell’altra del passato, ma sapeva, ammetteva anche che il tempo modifica i ricordi. Comunque la mente pensava a Manuela il cuore all’altra. Nel viaggio di nozze gli sposi girarono molti paesi e città. Manuela voleva recuperare il tempo perduto. Per anni il padre non l’ aveva lasciata andare lontano. Nella sua mentalità solo gli uomini potevano viaggiare. Con lucida consapevolezza Giovanni sapeva di essere stato trasportato di peso in una realtà carica di tensioni, in una insulsa esistenza e persino con il suo consenso. Provava pena per se stesso che era stato complice di questo scempio. Non si dava pace . Si discolpava invocando il bene della famiglia. Lui avrebbe dovuto costruire il futuro della razza, era pronto a pagare. Con indignazione riconosceva il potere della famiglia. Lui refrattario al matrimonio si era sposato per adempiere preciso, incolume al suo dovere. A tempo debito avrebbe avuto la ricompensa, istanti di luce tutti per lui. La sua conversione al matrimonio era stata incredibile. Ogni tanto per sviare la mente, nelle pause di silenzio, ripensava alle immagini sfocate del suo passato amoroso e avrebbe voluto il ripetersi di certe esperienze. Impercettibilmente si sentiva avvolto in una bolla di invisibile tristezza. Un sottile diaframma lo divideva dal male di un esaurimento nervoso. Camminava su quel confine elastico sempre sul punto di cadere alla minima brezza. Almeno nei primi anni di matrimonio doveva mantenere le promesse fatte davanti all’altare. Ma la vita in comune gli appariva piena di enigmi, di lati oscuri, scoraggiante, micidiale per la sua libertà. Disorientato, accorato guardava la sua metà e gli sembrava venire da un mondo lontano fatto di solitudine. Lei era troppo prevedibile, forse perché le cose che abbiamo sotto gli occhi non ci stupiscono più, lei era troppo ordinata, riservata, docile, goffa, seria, poco disinvolta, poco decisa, sempre con lo sguardo basso, era monotona e stancante. Non era allegra, giocosa, vispa aveva sempre quel sorriso sinistro sulle labbra. Gli uomini invece non vogliono vedere la durezza nello sguardo delle donne. Lui la lasciava parlare senza ascoltarla nell’incantesimo del silenzio della loro casa. Giovanni impotente recitava la parte del bravo marito. Doveva entrare nello status psicologico di “marito”, nel travestimento che si era dato per poter vivere quel pericoloso passaggio, per poter transitare agevolmente verso soluzioni ignote ma nuove . Giovanni si accorgeva brutalmente di vivere una situazione strana. Il matrimonio gli appariva come una progressiva discesa agli inferi. Opporre resistenza, magari con una forza imprevista, non serviva. Si era pentito, avrebbe voluto essere richiamato indietro. Intanto anche nei primissimi anni di matrimonio Giovanni compiva piccole incursioni nel bel mondo dove era sempre ben accolto, se non altro per accostamento alla sua famiglia. Manuela all’inizio si era sentita invadere da una inaspettata e pulsante voglia di vivere, che si espandeva a macchia d’olio. Dopo i primi litigi, le prime incomprensioni erano cadute le sue certezze. Nella sequenza dei giorni il cielo dorato, luminoso sopra di lei aveva assunto una colorazione rossastra, scura, un aspetto stanco . Il drappo che copriva la sua vita piena di grandi prospettive era crollato mostrando dubbi, bugie, menzogne. Viveva come reclusa, distratta, non voleva vedere nessuno. Constatava ogni giorno che il marito mentiva, era arrogante, presuntuoso . Si persuadeva alcune volte che Giovanni era solo un marito stressato, forse un po’ impunito, poco affettuoso, come sono molti uomini, come era suo padre, poi scopriva con raccapriccio che lui la accoglieva controvoglia fra le braccia , che si spacciava per innamorato perso e non lo era, che mentiva spudoratamente, che la faceva fessa ogni momento. Tuttavia insisteva su quel cammino, lasciava correre pur mostrando segni di disagio. Voleva proseguire il matrimonio a ogni costo, recuperarlo, per evitare pettegolezzi e insinuazioni e quindi assecondava quella situazione anche se le era riservato un misero trattamento. Il marito non le rivolgeva mai uno sguardo benevolo, l’accusava di essere amorfa, inveiva rabbioso, la colpiva a tradimento con gesti e parole , correggeva con strani ghigni i suoi sbagli, non le riserbava una calda accoglienza la sera . Manuela aveva la forza di resistere nonostante i colpi terribili che giungevano ogni volta. Suo marito era solo un uomo calcolatore, misurato, freddo e ora non le appariva più, irresistibile. Un uomo bello con il volto rabbioso può essere più mostruoso di un orco. I suoi occhi, che avevano la quieta dolcezza di un bosco autunnale, avevano capito che Giovanni poteva essere considerato da lei solo un collaboratore, un supporto, un punto di riferimento. Quel matrimonio era una fatica, da cui avrebbe voluto sgravarsi. Con il senno di poi comprese che avrebbe dovuto prendersi almeno una pausa. Ma lei si era regolata la sua vita e aveva scelto la strada che provocava meno conseguenze nefaste. Recitava la sua parte con noncuranza, ammutoliva nella morsa del gelo del suo cuore, che nel profondo conservava intatto il profumo dell’amore, il profumo di cose perdute. Ignorava persino i complimenti che le rivolgeva di tanto in tanto suo suocero. Sembrava irriconoscente verso quell’uomo che la adorava. Tuttavia per una questione di orgoglio appariva ai suoi occhi imperturbabile, non metteva in luce le sue debolezze, le sue sofferenze, le variazioni del suo umore. Non voleva la sua compassione, ne quella degli altri . Con un sorriso forzato seguiva con attenzione le parole del suocero, che spesso irrompeva all’improvviso nella loro vita, senza fermarsi davanti a niente. Spesso molte relazioni finiscono proprio per la ingerenza dei parenti stretti. Al suocero diceva lo stretto necessario, non apriva il sipario sullo spettacolo della sua vita grama profondamente colpita negli affetti. Il comportamento che aveva davanti al suocero strideva visibilmente con quello che aveva nella malsana, stagnante vita domestica. Il suo ego ferito era andato in pezzi, viveva nella solitudine e nell’abbandono, nell’umiliazione e covava rancore . Nel privato della sua stanza con occhi assenti, inespressivi, con espressione rassegnata, rivolgeva una muta richiesta di aiuto a Dio nell’ingenua speranza di essere salvata. Dio si era preso gioco di lei senza lasciarle scampo. Non sapeva ancora che Dio non ascolta chi si lascia cadere tra le braccia del narcisismo, dell’ambizione e della ricchezza, chi si lascia irretire da cognomi vincenti, nobili e famosi. Manuela si era orientata silenziosa non verso il cielo ma verso i beni terreni per fare il grande salto, verso ambiziose mete allettanti. Aveva seguito l’orgoglio, oltre che il piacere dell’amore . Aveva solo cercato di placare l’istinto della sua razza, quello di ascendere verso vette eccelse, verso giuste piste, verso sentieri immortali . Lei dava credito alle parole misteriose, ai suggerimenti convincenti del suo sangue. Aveva sposato un uomo ricco come suo padre. Con piglio denso respingeva lo schiaffo oltraggioso del destino per riscattare la sua esistenza. In lei abitavano più personalità ma fece emergere a un certo punto la vena artistica. Si consolava con la musica che riempiva, ingombrava la sua vita. Gli antichi sospetti, i diverbi con il marito non li viveva più come drammi, non si abbandonava più ai ricordi del giorno delle nozze . L’amore non era più un nemico terribile, anche se il suo rapporto degenerava e lei si preparava al peggio. Aveva qualcosa in serbo di cui rendere partecipi gli altri, aveva la sua arte, il suo talento con cui godersi attimi di ininterrotto piacere. Il tassello mancante della sua vita era proprio forse la sua mancata realizzazione. Forse si sarebbe realizzata attraverso l’arte. Aveva in mente una cosa sola: colmare con la musica il vuoto improvviso della sua vita. Frenetica con la voce impostata, cupa seguiva il fremito della sua ambizione, cantava e suonava seria, senza saltare le lezioni di musica . Imperterrita seguiva solo il consiglio del suo cuore: ascendere nell’olimpo dell’arte. Ogni giorno lavorava sodo, si perdeva nei dettagli per avere una ricompensa, un trionfo. Rimetteva insieme i pezzi della sua vita inseguendo la moltitudine invisibile dei suoi pensieri, senza rivelare i suoi progetti a nessuno. Era un esempio di forza. Giovanni nonostante il rapporto matrimoniale fosse usurato, malridotto, quasi svanito come un profumo nell’aria voleva avere un figlio, un erede. Nella sua casa signorile, sfarzosa, mondana, di buon gusto voleva ascoltare il pianto disperato di un bimbo, di un neonato. Non voleva una casa spoglia, simile a una casa disabitata . Voleva anticipare a suo padre la notizia della nascita. Era ormai un’idea pressante non più occasionale. Volere restituire normalità alla sua vita, ormai alterata. Aveva svelato le sue intenzioni a sua moglie, aveva appurato che lei non era d’accordo. Questo suo atteggiamento chiuso su tale argomento denotava una autentica antipatia per la vita familiare. Il discorso sembrava irrecuperabile. Manuela seria e composta respingeva la maternità. I suoi silenzi a tal proposito erano indecifrabili, i suoi no dilagavano con lentezza. Solo la musica travolgeva la sua vita, destava scalpore nella sua anima, evocava per lei paradisi artificiali dove lei si rifugiava senza profanare troppo la sua vita domestica. Le riflessioni personali di Giovanni erano amare, le sue parole viziate di odio represso. Un pomeriggio di fine Aprile, piovoso mentre Giovanni riordinava la sua scrivania meticolosamente fu chiamato dall’avvocato di suo padre. L’uomo molto delicatamente lo informò che suo padre era deceduto con un infarto, per cause naturali, nella sua stanza . Tutto era avvenuto repentinamente, in un attimo. L’uomo potente, spregiudicato, viziato era andato via da questa vita in punta di piedi, nessuno si era accorto della sua assenza, eppure era un uomo che contava, eppure era un uomo che si curava con farmaci costosi. Era passato attraverso il muro del buio e del silenzio solitario, lasciando una debole traccia, come quella di una lumaca . La sua vita si era trasformata in qualcosa d’altro che nessuno sapeva, non c’erano spiegazioni, soluzioni. La morte l’aveva reso inerme anche nel barlume dorato del suo mondo. Ormai l’anima di Vincenzo si addentrava, si imbatteva nell’ordinato mondo dell’aldilà. Il suo sguardo fisso nel vuoto era vivido, quasi puerile. La sua anima probabilmente ignorava la freddezza terrificante della morte, quella che toglie ogni prospettiva. A suo carico c’erano mille peccati di gioventù, ma il peccato più grande era quello di superbia, la sfida che lui aveva ingaggiato con il mondo, il disprezzo folle che aveva nutrito per la gente comune , per il valore stesso del tempo, del denaro, dello spazio . Nella strana quiete della sua vita Vincenzo era convinto di essere speciale, esposto solo alla luce della vittoria, del successo . Vincenzo non aveva condotto un’esistenza piena di disciplina e abnegazione. Come un forsennato, senza emozioni, si era lasciato andare senza consapevolezza, senza motivo, nel mare della crudeltà fatto solo di distrazioni, di desideri. La sua vita fatta di compromessi inutili, si era adattata alle circostanze in cerca solo di conferme. Non era certo stato premiato per la sua condotta. Aveva vacillato ed era caduto fra le spire della morte. Non aveva potuto ammirare la continuità della sua stirpe, non aveva visto nessun nipote. Tutto questo significava un inatteso segno del destino, sbiadito forse, ma che destava allarme. La sorte non ammetteva repliche, concedeva solo fallimenti. La strategia del destino era radicale, repentina, non casuale. Vincenzo non era stato ligio alle regole del buon vivere e nella complessa catena di inganni rimanevano sospese nell’aria solo le dolorose domande di suo figlio, domande che avevano paura delle risposte . Giovanni giunse al capezzale di suo padre quando nell’atrio si era già radunata una folla di curiosi, senza lacrime. Nella stanza lontano dagli sguardi, ritirato per una volta , forse per la prima volta in vita sua, si era spento suo padre. Gli lasciava un cospicuo patrimonio, una eredità notevole. Ogni dettaglio della stanza di morte scatenava in Giovanni memorie e ricordi di vario tipo. Giovanni toccava con mano i punti oscuri della vita. L’aggressione della morte lo lasciava basito, disorientato, incapace di reagire. La morte, mancando di tatto, mandava in frantumi i vetri del suo mondo, lo gettava nel panico . Amaramente constatava che non serviva ribellarsi, protestare. Eppure nei percorsi mentali del suo cervello la vita aveva l’armonia perfetta dei fiocchi di neve che cadono come farfalle. La morte era confinata in un posto lontano. La vita per lui non aveva tanti segreti, memorie, era una magica alchimia dove lui era un uomo speciale come suo padre . La morte, aggressiva, invadente, gli procurava un insensato timore per il futuro, contaminava i suoi giorni, li riempiva di dubbi . La morte gli faceva l’occhiolino, ammiccava con la sua sadica fantasia, gli dava sensazioni di pericolo mai provate. L’ombra indefinita della morte aveva annientato suo padre. Davanti alla spoglia inerte di suo padre per la prima volta aveva la percezione netta che la vita era ostile, che il suo comportamento poteva essere irriverente. L’unica cosa certa era che lui era l’unico figlio diletto, erede universale e che l’eredità non era contesa. Poteva, con grande semplicità, senza strepiti, senza fretta lottare contro il tempo, ingannare la morte e accaparrarsi la sua fetta di torta, sfiorare la ricchezza assoluta. Doveva essere risoluto, non riconoscersi a livello mentale nella umanità sofferente. Se voleva salvarsi non doveva indagare, capire, doveva solo assopirsi fra le fragranze profumate della vita, come facevano tutti del resto. Doveva fermarsi sul confine della vita, in bilico e dilatare gli attimi di pace, stabilizzarsi nella maschera del suo travestimento per sfuggire alla morte, per passare inosservato. Bastava fingere di credere che suo padre fosse veramente in un possibile luogo di pace. Mille riflessioni accompagnarono suo padre durante le esequie. Guardava la bara di legno, uguale per tutti, senza gli orpelli della vita, senza filtri e registrava nel suo cuore una collera infinita per la vita, collera sterile. La vita euforica, piena, cortese si riduceva in un buco di cemento nel muro dove entrava la bara e dove tutto era acqua passata. Era deprimente nonostante i buoni propositi, bisognava difendersi. Giovanni con il volto tirato, con sussiego, con espressione assorta seguì il funerale di suo padre. Esaminava le personalità presenti con distacco, tutta quella distinzione non lo riguardava. Tentava solo di resistere alla disumana tristezza, con la fiducia che vacillava. La morte era un’intrusa che gli contaminava il cuore. Durante il funerale aveva anche focalizzato alcuni dettagli stonati, fuori posto, anomalie . Molti partecipanti, che si erano definiti amici del defunto, avevano sul volto una nota di sarcasmo, nei tratti delicati del volto avevano un ghigno come se provassero un piacere segreto. In quel mondo pieno di ombre importanti la gente era distratta, senza nostalgia, senza un barlume di pietà . Molti indugiavano a guardare le corone, altri sembravano infastiditi da quello spettacolo spiacevole. Dove si annida la morte si ha premura di fuggire, è l’ultima difesa. Molte erano le persone presenti, alcune inattese. Manuela aveva le guance accese, lo sguardo concentrato a scandagliare il silenzio, alla ricerca di un riparo nel buio, mentre sussultava fra le lacrime . Non poteva fermare il tempo e quindi doveva congedare suo suocero fra le folate di vento, la nebbia e il rumore sordo dei rami degli alberi, le uniche cose che le garantivano un contatto con il mondo. La bara liscia caricata a spalla dagli amici si avviava veloce verso la fine, fra l’odore dolciastro dei fiori. Per un malvagio disegno superiore, disegno di morte, suo suocero era caduto nelle pieghe oscure della morte pericolosa , nel suo mondo segreto e terribile. La sequenza logica della vita, la sua corsa impetuosa aveva trovato un inciampo non da poco. Scoraggiata si immedesimava in tutte le persone morte, inconsapevoli, che con le loro storie consumate alle spalle, senza lasciare tracce visibili, erano cadute nel segreto invisibile della morte, male antico e eterno dell’umanità . Provava pena, compassione per loro. La morte nel mondo era fuori posto. Mentiva a se stessa quando diceva che la vita era un approdo sicuro, un piccolo regno felice. Procedeva a distanza di sicurezza dal feretro con un fardello nuovo di consapevolezza. Bisognava avere una forte capacità di recupero, trovare calde parole di conforto, mantenere il controllo, senza esitazioni. Per rimanere nel tempo senza essere dimenticati c’era la possibilità di realizzarsi nell’arte che garantiva l’immortalità, almeno sulla carta. Attraverso l’arte si possono lasciare tracce del proprio passaggio sulla terra. Una scultura, una poesia si sottraggono all’usura del tempo. Lei poteva sfuggire all’occhiata feroce della morte , alla sua pozza scura, con la musica. C’era però un’altra possibilità per allontanare la viscida morte, per salvare la vita, per dimenticare albe incompiute di una vita sprecata: generare un essere fatto di carne. Questa era una consolazione esaltante, quella di ricreare la vita su nuove basi. Nel silenzio del suo cuore, immobile, assimilò lentamente l’idea di essere madre. Il desiderio di maternità non aveva una giustificazione, era tipico delle donne . La maternità era pur sempre un obiettivo , che aveva un senso Pochi mesi dopo il funerale ebbe la precisa sensazione di essere incinta. Quell’attesa allentava le inutili tensioni in famiglia, le gelosie di Giovanni, il suo comportamento scorretto, le sue piccole vendette volgari che le procuravano un forte disagio. Con la mente svuotata, con l’aspetto un po’ trasandato, senza particolari reazioni aspettava confusa l’esito delle analisi. Non sapeva molte cose della gestazione, il suo procedere, non conosceva scientificamente tutti i dettagli. Con il foglio delle analisi in mano guardava quasi senza vedere il responso. Scorreva veloce con gli occhi velati, i risultati della prova sentendo dentro di sé già i sintomi, i malesseri della gravidanza. Dentro di lei quel feto incompiuto viveva una vita filtrata, ovattata, ma libera priva di ossessioni, di dolori. Forse la vita nel grembo materno era il momento più esaltante. La vita idilliaca del feto alla luce del sole avrebbe mostrato le sue crepe. Le fratture sottili della vita avrebbero portato sul suo finire al crollo totale dei valori, del corpo, dei sentimenti, alla esasperazione dell’anima stanca. Quel piccolo essere violava l’intimità di Manuela con la sua semplice presenza, con l’immagine di sé. Manuela seguiva scrupolosa la dieta, le direttive del medico di fiducia. L’evento generò una piccola apocalisse domestica. Giovanni rimase folgorato, incapace di rimanere a guardare. La sua rabbia, la sua accidia erano scomparse. Era un evento che scatenava il suo entusiasmo. Era lui che prima di addormentarsi dava l’ultima carezza al piccolo. Il suo sogno lontano e dimenticato, avvolto dalle brume della lontananza , quello di essere genitore, si avverava. Era inesperto, guardingo, ma desideroso di imparare il mestiere di padre. Seguiva l’istinto di padre con spavalderia. Accettava la sfida con un sorriso dolce negli occhi. Nel silenzio assoluto sentiva il piccolo agitarsi veloce, svelto e gli rivolgeva parole incomprensibili. Quel viaggio verso la paternità gli sembrava come un circuito di formula uno, emozionante, pauroso, misterioso. Il tempo passava inesorabile e si avvicinava a grandi passi il momento del parto. Una lontana nostalgia, complice la tristezza, gli faceva rivedere suo padre nella buia profondità dei suoi sogni. La sorte era stata poco tenera con lui. Con rabbia mista a dolore ricordava come suo padre avrebbe voluto vedere un nipotino. Manuela viveva quell’evento come un dono leggendario, favoloso. Per la strada adocchiava completini per neonati e li comprava senza badare a spese. Obiettava per i capi più costosi, per i camicini di seta. A una prima impressione suo marito sembrava pacificato, anche se con lei aveva sempre un riso forzato. Si illudeva di poter cambiare le cose, lui non aveva crisi di pentimento. La sua musica per fortuna le era vicina. Anche se capiva bene che l’arte, la musica non aprivano la sensibilità del marito. Aveva fiducia solo nelle sue possibilità. In fondo non aveva nulla da perdere, era una donna facoltosa che poteva permettersi il lusso di oziare nel mondo ardito dell’arte. Era temeraria, astuta, abile. La sua arte aveva un fine nobile. Se alcune volte la vita era pesante come una scure , umiliante, poteva smaltire la sbornia nell’eccitante mondo musicale. La musica era la nota positiva della sua vita. Solo la musica poteva beffare per alcuni istanti la morte. Nelle veglie notturne, dovute alla gravidanza avanzata, suonava e ascoltava musica. Con la forza impressa dalla musica avrebbe partorito con coraggio, senza fare drammi. Si era cimentata a capofitto in quella impresa e voleva far nascere quel figlio a tutti i costi. Suo figlio sarebbe stato un amante della vita, drogato dal sapore dolciastro della gioventù. La musica cullava il feto che vibrava nell’ascolto. Il giorno in cui le vennero le doglie fu condotta all’ospedale con una fiammante Mercedes dal colore chiaro . Manuela salì sull’auto con un largo sorriso stampato sul viso, nonostante i dolori delle doglie, e un’aria sprezzante. Nel suo mondo fatto di pizzi, ricami e gioielli c’era posto solo per l’indifferenza verso tutto il resto del mondo, verso gli indigenti . Giovanni nel gran giorno era esageratamente allegro, goffo e un po’ insicuro . La sua famiglia non era finita, non fuggiva via sulla strada del tempo . Aveva un erede, stava tramando alle spalle del destino. La maledizione non avrebbe colpito la sua discendenza. Molti sogni premonitori, anche se lui ci credeva poco, gli avevano indicato con segni precisi che era un maschio. Sarebbe stato un maschio energico, attivo. Si sarebbe laureato come lui, sarebbe stato arrogante, presuntuoso, ben voluto, apprezzato, competitivo, tagliente come una spada . Avrebbe amministrato il suo patrimonio. La stanchezza matrimoniale ormai non era più un problema. La puerpera ricevette la visita di molti conoscenti, regali, fiori e andò in brodo di giuggiole.