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La strategia della Turchia

Creato il 10 luglio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La strategia della Turchia

La Turchia sta riemergendo come potenza regionale. In un certo senso, è un processo di ritorno nella sua posizione antecedente la Prima Guerra Mondiale, ai tempi dell’Impero Ottomano. Ma sebbene in superficie il parallelo ottomano possa avere un certo valore nella comprensione della situazione attuale, non è in grado di tenere conto dei cambiamenti del sistema globale e della regione. Inoltre per comprendere la strategia turca dobbiamo capire le circostanze in cui essa si trova attualmente ad operare.

La fine del primo conflitto mondiale ha portato con sé la sconfitta dell’Impero Ottomano e una contrazione della sovranità turca all’Asia minore e ad una striscia di terra dalla parte europea del Bosforo. Questa contrazione ha liberato la Turchia dalla posizione sovra-estesa che questa ha tentato di mantenere come Impero, estendendosi dalla Penisola Arabica fino ai Balcani. In un certo senso, la sconfitta ha risolto il problema degli interessi strategici della Turchia, che ormai avevano travalicato il suo potere d’azione. Dopo la Prima Guerra Mondiale, gli interessi della Turchia si sono riallineati con la sua potenza. Poiché lo Stato era molto più piccolo, era anche meno vulnerabile rispetto all’Impero Ottomano.

Il problema Russia

In quel contesto, un filo conduttore univa i due periodi: la paura per la Russia. Dal canto suo, la Russia stessa ha sofferto di una grande vulnerabilità strategica. Ognuno dei suoi porti – San Pietroburgo, Vladivostok, Murmansk e Odessa – erano accessibili solo attraverso degli stretti controllati da forze potenzialmente ostili. Gli inglesi bloccavano i vari stretti danesi, i giapponesi bloccavano l’ingresso a Vladivostok e i turchi bloccavano l’accesso al Mediterraneo. La politica nazionale russa ha avuto un interesse continuo nel guadagnare il controllo del Bosforo sia per prevenire un vero e proprio blocco sia per proiettare la propria potenza sul Mediterraneo.

Pertanto la Russia ha avuto un certo interesse nel riplasmare la sovranità turca. Nella Prima Guerra Mondiale, l’Impero Ottomano era alleato con la Germania che si trovava a combattere i russi. Durante il periodo inter-bellico e della Seconda Guerra Mondiale, mentre i sovietici erano deboli o distratti, la Turchia rimase neutrale fino al febbraio 1945, quando dichiarò guerra all’Asse. Dopo la guerra, quando i sovietici erano più influenti e tentarono operazioni segrete per colpi di stato in Grecia e in Turchia, i turchi si allearono con gli Stati Uniti e entrarono nella NATO (nonostante la distanza dal Nord Atlantico).

Dal 1945 fino al 1991 la Turchia è stata bloccata nelle relazioni con gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti perseguivano una strategia di contenimento dell’Unione Sovietica seguendo una linea che andava dalla Norvegia al Pakistan. La Turchia era un elemento chiave a causa del suo controllo sul Bosforo, ma anche perché una Turchia filo-sovietica avrebbe spalancato le porte ad una diretta pressione sovietica su Iran, Iraq e Siria. Una Turchia alleata dei sovietici, o comunque da essi influenzata, avrebbe rotto il sistema di contenimento degli Stati Uniti, sbilanciando le potenze in gioco. Assieme alla Germania, la Turchia era il pivot della strategia americana e della NATO.

Dal punto di vista turco non vi erano altre opzioni. I sovietici sono usciti dalla Seconda Guerra Mondiale in una posizione di forte dominio. L’Europa Occidentale era un bailamme, la Cina era diventata comunista e il surplus di capacità militare dei sovietici, nonostante i gravi danni subiti durante il conflitto, superava le capacità di resistere nelle zone periferiche delle nazioni, come ad esempio la Turchia. Chiarita l’importanza del Bosforo e dell’Asia minore per i sovietici, la Turchia era di un interesse fondamentale. Incapace di relazionarsi da sola con i sovietici, la Turchia strinse uno stretto rapporto di mutuo beneficio con gli Stati Uniti.

Durante la Guerra Fredda, la Turchia era un imperativo strategico degli Stati Uniti in quanto fronteggiava l’Unione Sovietica a nord e due stati filosovietici, Siria e Iraq, a sud. Il fattore “Israele” ha fatto allontanare la Siria dalla Turchia ma questa logica strategica è svanita nel 1991 col crollo dell’Unione Sovietica. Da allora, l’unione si è frammentata. Il potere russo si è ritirato dal Caucaso meridionale e dai Balcani, e diverse rivolte hanno tenuto impegnate le forze armate russe nel Caucaso del nord. Armenia, Georgia e Azerbaigian hanno ottenuto l’indipendenza. Anche l’Ucraina è diventata indipendente, rendendo oscuro lo status della flotta russa nel Mar Nero in Crimea. Per la prima volta dai primi anni dell’Unione Sovietica, la Turchia era libera dalla minaccia della Russia. L’elemento determinante della politica estera turca se ne era andato e con esso la dipendenza turca dagli Stati Uniti.

La transizione post-sovietica

Ci volle un po’ ai turchi e agli americani per rendersi conto del cambiamento. Le relazioni strategiche rimasero intatte, più per inerzia che per intenzione, in seguito alla scomparsa delle condizioni strategiche che le avevano formate; spesso ci vuole una nuova realtà strategica per disturbarle. Perciò, le relazioni della Turchia con gli Stati Uniti rimasero intatte per un certo periodo di tempo. I suoi tentativi di entrare nell’Unione Europea continuarono. I rapporti della Turchia con Israele rimasero intatti anche dopo che si fu affievolita l’idea americana di promuovere un collegamento strategico turco-israeliano.

È più facile modellare una politica strategica per fronteggiare una minaccia piuttosto che per disporre di imprecisate opportunità. Per la Turchia le opportunità stavano diventando di fondamentale importanza, ma capire come trarne beneficio era una vera e propria sfida. Per la Turchia una chiave di volta con il passato fu l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Dalla prospettiva turca, l’invasione fu inutile, minacciava di rafforzare l’Iran e imponeva delle sfide di politica interna. Per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale i turchi non solo hanno rifiutato di prendere parte ad iniziative americane, ma hanno anche impedito agli americani di usare il proprio territorio per lanciare la loro invasione.

La Turchia è andata incontro a una situazione in cui il rapporto con gli Stati Uniti mostrava più pericoli di quanti l’alleanza con gli stessi potesse prevenirne. Questo spiega il punto di svolta nella politica estera post-sovietica. Una volta che la Turchia ebbe deciso di non collaborare con gli Stati Uniti – suo perno fondamentale per una decade – la propria politica estera non poteva più rimanere la stessa. Sfidare gli Stati Uniti non fece crollare il cielo. Infatti, con il prosieguo delle attività belliche in Iraq, i turchi poterono ritenersi più saggi degli americani in questo ambito, senza che questi potessero controbattere.

Ciò lasciò libera la Turchia di valutare altre relazioni. Un’opzione scontata sarebbe stata quella di entrare in Europa, le cui potenze-guida si opposero all’invasione americana. Tuttavia questo tratto in comune non fu sufficiente per fare della Turchia un membro dell’Unione Europea. Una moltitudine di ragioni, come la paura di un’immigrazione turca di massa o l’ostilità greca, bloccarono il tentativo turco di diventare un paese dell’Unione Europea. Diventare membro dell’UE non fu visto solo in termini di politica estera; piuttosto per i secolaristi è diventato il simbolo dell’idea di una Turchia paese europeo dedito a valori europei. Ma la decisione dell’ingresso in Europa non era una scelta in mano alla Turchia. In definitiva, la decisione dell’Europa di non fare della Turchia un paese europeo ha lasciato a quest’ultima un’economia più dinamica rispetto a larga parte dell’Europa e priva di responsabilità per il debito della Grecia.

Il fallimento dell’integrazione in Europa e il cambiamento dei legami con gli Stati Uniti da una relazione indispensabile a una negoziabile (sebbene auspicabile) forzò finalmente la Turchia a stabilire una strategia post-guerra fredda. Questa strategia emerge da tre elementi fattuali. Primo: la Turchia non fronteggiava nessuna minaccia esistenziale e le minacce secondarie erano gestibili. Secondo: la Turchia si stava rapidamente espandendo economicamente e aveva il più potente assetto militare della sua regione. Terzo: la Turchia era circondata da stati che diventavano sempre più pericolosi e instabili. Iraq e Siria erano entrambi instabili. L’Iran era sempre più risoluto e una guerra tra Iran e Israele e/o gli Stati Uniti sembrava valere come possibilità. La regione del Caucaso era tranquilla ma l’invasione russa della Georgia nel 2008 e le tensioni continue tra Azerbaigian e Armenia erano ancora elementi significativi. Dopo la guerra in Kosovo, i Balcani si erano molto distesi ma la regione si trovava ancora in un clima di sottosviluppo e di potenziale incertezza. Nello scorso anno, il Nord Africa è divenuto molto instabile, la Russia è diventata più assertiva e gli Stati Uniti sono apparsi più distaccati e imprevedibili.

Tre processi definiscono la strategia della Turchia. Il primo è la sua ascesa come potenza relativa. In una regione di potenze destabilizzanti, la forza relativa della Turchia sta aumentando, fornendo nuove opzioni a Ankara. Il secondo è il possibile pericolo costituito dagli interessi turchi alla destabilizzazione, che proietterebbe all’esterno la Turchia, poiché Ankara cerca delle vie per gestire l’instabilità. Il terzo è la realtà che gli Stati Uniti sono nel processo di ridefinizione del proprio ruolo nella regione dopo la guerra in Iraq e non sono più una forza stabile e prevedibile.

La fase di transizione

La Turchia si va affermando come grande potenza. Non lo è ancora per una serie di motivi, inclusi i limiti delle istituzioni nella gestione degli affari di politica regionale, una base politica non ancora pronta a vedere la Turchia come maggiore potenza dell’area, anche come motore di interventi regionali; inoltre, l’area non è ancora disposta a considerare la Turchia come una benefica forza stabilizzante. Sono necessari diversi passaggi per emergere come potenza dominante in una regione. La Turchia ha solo iniziato a salire questa china.

Ad oggi, la strategia turca sta attraversando una fase di transizione. Non è più bloccata nel suo atteggiamento da Guerra Fredda, come semplice parte di un sistema di alleanze, ma non ha neanche costruito le fondamenta per una seria politica regionale. Infatti la Turchia non ha un vero e proprio controllo nella sua area e non può continuare a ignorare ciò che qui sta accadendo. Il caso siriano ne è un esempio. La Siria è vicina della Turchia e la sua instabilità potrebbe preoccupare la Turchia stessa. Attualmente non vi è una coalizione internazionale atta ad occuparsi della stabilizzazione in Siria. Di conseguenza Ankara ha preso una posizione di astensione da interventi diretti, tuttavia mantenere questa opzione aperta potrebbe diventare insostenibile per la Turchia.

Quando prendiamo in considerazione la zona periferica turca come un’unica entità, possiamo notare questa transizione all’opera, sia in Iraq che nel Caucaso. Nel caso dell’Iran, la Turchia semplicemente evita di far parte del fronte americano e contemporaneamente rifiuta di battersi per la posizione iraniana. La Turchia non è stata in grado di creare un equilibrio di poteri nella sua zona, come avrebbe fatto una matura potenza regionale. Piuttosto ha creato un equilibrio di poteri turchi, nel senso che il potere turco è bilanciato tra una subordinazione agli Stati Uniti e un’autonomia assertiva. Questo periodo di stabilità per una normale potenza è prevedibile: gli Stati Uniti hanno vissuto un processo simile tra il 1900 e la Prima Guerra Mondiale.

La Turchia si trova ad avere a che fare con due fondamentali questioni interne nel suo incedere. Diciamo “nel suo incedere” perché nessuna nazione riesce mai a risolvere i propri problemi interni prima di assumere un ruolo internazionale di rilievo. Il primo è la continua tensione tra gli elementi secolari e religiosi della sua società. Questo problema è sia una tensione interna, sia un’occasionale controversia di politica estera, in particolare nel contesto dell’islamismo radicali, laddove ogni segno di religiosità islamica può allarmare le potenze non-islamiche sempre pronte a cambiare il proprio atteggiamento nei confronti della Turchia. Il secondo è la questione curda in Turchia, che si manifesta nel gruppo militante del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK).

Il primo è un problema endemico nella maggior parte delle società al giorno d’oggi; è un problema che incide anche nella politica americana ed è dunque un qualcosa con cui le nazioni devono convivere. Il problema del PKK, invece, è unico nel suo genere. La questione curda si interseca con alcuni problemi regionali. Ad esempio, la questione del futuro dell’Iraq coinvolge l’estensione di autonomia di cui la regione curda dell’Iraq godeva, potendo così influenzare i curdi della Turchia. Ma il più grande problema della Turchia è che tanto più a lungo la questione curda perdura, quanto più altre potenze straniere che si oppongono allo sviluppo turco potrebbero vedere i curdi come una debolezza della Turchia e potrebbero vedere in alcune operazioni segrete nelle regioni curde un modo per poter scardinare il potere turco.

La Turchia è già diffidente verso i tentativi siriani e iraniani di contrastarla attraverso la militanza curda. Più potente diventa la Turchia, più scomodo – almeno in alcune regioni – diventerà questo problema, rendendo ancora più vulnerabile la Turchia a interventi stranieri. Quindi la Turchia deve trovare una valida linea da seguire per la questione curda, poiché i vari disordini regionali e il separatismo incoraggiato dall’esterno potrebbero minare il suo potere e invertire il suo processo di acquisizione dello status di grande potenza.

C’è però un paradosso: una nazione che diventa più potente può diventare anche più fragile. Gli Stati Uniti sono stati senza dubbio più sicuri tra la guerra civile e il loro intervento nella Prima Guerra Mondiale che in ogni altro periodo storico. Allo stesso modo, anche la Turchia era più sicura tra il 1991 e i giorni attuali rispetto a quanto sarà nel giorno in cui diventerà una potenza globale. Contemporaneamente, non è sicuro essere un alleato di minoranza di una determinata potenza globale, correndo rischiando con altri paesi.

L’idea di una sicurezza sul lungo periodo tra le nazioni è illusoria. Non dura. L’attuale strategia della Turchia è di farla durare il più a lungo possibile. Questo comprende il lasciar fare agli eventi intorno a sé il loro corso con il ragionevole assunto che, al giorno d’oggi, i risultati di questi eventi non minaccino la Turchia più di quanto un intervento turco potrebbe farlo. Ma, come abbiamo già detto, è una politica di transizione. L’instabilità meridionale, la crescita della sfera d’influenza iraniana, una maggiore presa dell’influenza russa nell’area del Caucaso e la probabilità che gli Stati Uniti possano cambiare ancora la loro politica in Medio Oriente e provare a trascinare la Turchia nella loro coalizione – tutto ciò urta contro la possibilità che questa situazione sia permanente e non di transizione.

La Turchia è interessante in quanto costituisce uno scenario per lo studio della transizione da piccola nazione a grande potenza internazionale. Le grandi potenze sono meno stimolanti in quanto il loro comportamento è in genere prevedibile. Ma gestire la fase di transizione di una potenza è molto più difficile che gestire una potenza. Una potenza di transizione deve mantenere l’equilibrio mentre il mondo intorno è nel caos ed il terreno sotto i piedi continua ad essere scivoloso.

Le pressioni che questo comporta su una società e su un governo sono enormi. Riesce a far emergere ogni lato debole e a testare ogni possibilità. E per la Turchia, ci vorrà un po’ prima che questa transizione porti ad una stabile piattaforma di potere.

(Traduzione dall’inglese di Ludovico Ferranti)


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