Avevo ancora in mente quel venerdì di giugno quando, grazie al “voto” di una giovane supplente, mi avevano bocciato. Erano passati più o meno dieci anni, ma la ferita la sentivo ancora lì, aperta e dolente.
Ora, in quella mattina di ottobre, me la trovavo davanti. Era lei, ne ero sicuro. Gli stessi occhi, la stessa innocenza. Ora era qui davanti a me e faceva l’impiegata di banca.
Era ingrassata ma ancora carina, con quell’aria da uccellino ferito. Elegante come sempre, con un maglioncino azzurro che le stava molto bene, lana spazzolata sopra i seni morbidi. Teneva cioccolatini in un cassetto della scrivania e pasticcini alla marmellata dentro un barattolo. Mi offrì un frutto di marzapane avvolto nella carta stagnola. Mi chiese se andassi ancora a scuola e quali corsi stessi seguendo.
Le parlai brevemente dei miei studi e delle mie ambizioni.
- E’ meraviglioso, – disse lei, senza rancore. – Ho sempre saputo che eri intelligente -.
Era stata una vera fortuna che mi avesse visto, concordammo e promettemmo di trovarci prima o poi per una chiacchierata come si deve – cosa che, lo sapevo, lei non desiderava più di me. Osservò ammirata la mia sciarpa di lana d’angora e mi chiese se la avessi comprata in città.
Risposi di si, ma l’unico problema era che perdeva un po’ troppi peli.
- Mettila in frigo per una notte, – disse lei. – Non so perché, ma funziona.
Aprii la porta, e dalla strada entrò una folata di vento.
- Ricordi com’eravate pazzi in quella classe? – disse con la voce piena di malinconica sorpresa. Era costretta a girarsi di qua e di là per agguantare le carte.
Pensai al professor Grego e a tutte le mie bugie, e alla vergogna abissale che avevo provato quando mi sorprese a copiare il compito di latino.
- Quei giorni non torneranno piú, – disse buttandosi sulla scrivania per non far volar via nulla.
lo risi e dissi meno male, e chiusi rapidamente la porta.
La salutai anche subito dopo con un cenno dall’esterno, oltre le vetrate.
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