La tegola e la giraffa. Percorsi scientifici per la salute dell’umanità
Una mattina d’inverno un uomo camminava su un marciapiede. Tirava un forte vento. Svoltò un angolo e, fatti pochi metri, sentì un forte dolore alla testa e si trovò a terra sanguinante e mezzo morto. In pochi minuti arrivarono i dottori, che cercarono di capire cosa fosse successo e trovare il responsabile di quell’incidente. Fecero osservazioni, scattarono foto e prelevarono campioni.
A poche decine di centimetri fu rinvenuta una tegola. Lì accanto fu notato un palo della luce sporco di sangue. I dottori li prelevarono e li portarono in laboratorio. Nessun dubbio che i responsabili fossero quella tegola e quel palo. Furono sottoposti ad analisi dettagliate, furono fatte fettine dei due oggetti e osservati al microscopio a scansione, cosicché si poterono vedere particolari piccolissimi e tridimensionali. Si scoprì che tegola e palo erano fatti di un materiale molto duro. La tegola però meno resistente del palo, costituito da una miscela di metalli. La tecnologia ancora non poteva capire quale fosse il metallo responsabile, ma la ricerca proseguiva fiduciosa.
Dopo questa prima fase si passò a osservazioni più mirate e più cliniche. Si allestirono prove su animali da laboratorio: un gruppo di topi, cavie e conigli fu sottoposto a impatto con questi materiali. Le prove confermarono quello che fino ad allora era stato solo un fortissimo sospetto: agli animali che ricevevano in testa la tegola o che erano spinti a una certa velocità contro un palo, qualcosa succedeva. Il 99,99% si lamentava, il 60% sveniva e al 100% si gonfiava la parte coinvolta. Solo il 20% moriva entro un’ora. Gli scienziati furono allora pronti per passare alla terza fase del percorso scientifico: la ricerca di specifici rimedi o, meglio, di terapie preventive.
Nel giro di pochi mesi un’azienda mise a punto uno speciale casco antitegola e una tuta imbottita antipalo. Alcuni studiosi sull’onda dell’entusiasmo si misero sotto per elaborare un vaccino antitegola e antipalo, da somministrare in unica dose. I vaccini avrebbero consentito di ricevere tegole in testa e sbattere contro pali senza sentire dolore. Le parti non si sarebbero gonfiate e non ci sarebbe stata infiammazione con accumulo di liquidi. Si poteva continuare a vivere normalmente, magari con un taglio o un arto paralizzato (se il danno fosse stato veramente grave) ma senza nessuna sofferenza. Una commissione ministeriale composta d’illustri scienziati stava studiando se offrire gratuitamente queste vaccinazioni almeno ai bambini e renderle obbligatorie.
Dalle prime osservazioni si arrivò in breve tempo a realizzare vaccini innovativi. Numerosi bambini furono vaccinati e molti adulti, a pagamento, fecero lo stesso; ma non tutti riuscirono o, cosa ben peggiore, non tutti vollero vaccinarsi. I più avari, per risparmiare, non si vaccinavano, si compravano in due o tre un solo casco antitegola e una sola tuta antipalo, scambiandoseli secondo le necessità.
Nonostante questi successi strepitosi, la vita, come si sa, è spesso imprevedibile: accadde un altro fatto inaspettato. Un giorno, mentre attraversava un ponticello, un uomo scivolò su una buccia di banana, rimbalzò a terra con la tuta imbottita, cadde nel fiume e annegò. Arrivarono subito gli esperti, fecero le consuete indagini e prelevarono la buccia di banana, per fortuna rimasta ancora nei paraggi. Ormai la procedura era consolidata e la buccia fu sottoposta a tutte le analisi del caso. Non sfuggì la presenza di un velo scivoloso: fu studiato e si scattarono le consuete foto al microscopio a scansione. Si osservarono i più reconditi particolari per capire come evitare episodi analoghi.
Si allestirono, come da protocollo, esperimenti su animali. Stavolta si scelsero le scimmie: tutti sanno che sono grandi consumatrici di banane. Si voleva capire se e quanto scivolassero sulle bucce e come poi se la cavavano. Gli esperti fecero arrivare scimmie da centri di allevamento e le chiusero in un laboratorio cosparso di bucce di banana. Furono sorvegliate 24 ore su 24 … ma le scimmie non scivolavano. Proprio non ne volevano sapere di mettere il piede in fallo. Eppure sarebbe stato impossibile per loro evitare le bucce, così tante ce ne erano sul pavimento! Pian piano s’ingigantiva il sospetto che si trattasse di un fatto genetico: le scimmie devono avere un gene che impedisce di mettere il piede sulle bucce di banana. Non rimanevano altre spiegazioni.
Furono addirittura bendate per vedere se evitassero ugualmente le bucce; ma le scimmie, notoriamente furbe, si toglievano subito le bende. Allora, gli si legarono le mani … ma quelle si toglievano le bende con i piedi. I piedi, d’altra parte, non potevano proprio essere legati altrimenti non si sarebbe capito se le scimmie riuscivano a evitare le bucce. Uno scienziato tra i più acuti propose la soluzione: bisognava rendere le scimmie cieche. Solo così si sarebbe potuto sapere se veramente erano in grado di evitare l’involucro del prelibato frutto. Le scimmie furono addormentate e furono bruciate loro le pupille. Ma il recupero e la convalescenza erano lunghi e dolorosi. Lo scienziato non si dette per vinto.
Scartò l’ipotesi di suturare le palpebre perché chi poteva assicurarlo che non rimanesse una fessurina attraverso la quale sbirciare? Studiò giorno e notte e finalmente raggiunse lo scopo. La soluzione fu l’asportazione dei globi oculari: operazione rapida e sicura, recupero veloce e con scarso dolore … a detta degli scienziati. Furono condotte innumerevoli prove. L’equipe ne uscì frustrata: nessuna scimmia, nonostante fosse stata privata della vista, scivolava. L’esperimento era ormai inconfutabile. Le scimmie avevano certamente geni che codificavano per questa sorta d’immunità a scivolare sulle bucce di banana. Ancora una volta l’osservazione scientifica aveva dato risultati importanti e gli scienziati ora si apprestavano a inviare un articolo a una rivista specialistica.
Mentre stavano risolvendo un piccolo battibecco su chi dovesse comparire come primo firmatario, questi ricercatori ebbero un’altra illuminazione: se le scimmie avevano superato tutte queste prove e, quindi, la refrattarietà a scivolare sulle bucce di banana era scritta nel loro DNA, una volta individuato il gene si sarebbe potuto trasferirlo all’uomo e renderlo in modo definitivo immune da questo trauma. L’eccitazione era alle stelle. La natura scopriva una porta dietro l’altra e verità impensabili stavano per venire alla luce. Vero che questo risultato aveva visto decine di scimmie perdere la vista, ma ciò era nulla in paragone al successo scientifico ottenuto. La scienza aveva messo a tacere la coscienza, e il progresso dell’umanità ancora una volta aveva la priorità su tutto. Superati alcuni dubbi etici, gli scienziati subito iniziarono a progettare la nuova ricerca. L’equipe trovò i finanziamenti, si accordò sulla brevettabilità delle scoperte, comprò alcuni scimpanzé e ripartì. Dalle scimmie si prelevarono le cellule, fu isolato il DNA e si ispezionarono le sequenze geniche: un lavoro massacrante! Fu necessaria grande pazienza. Ma quando la sera gli scienziati pensavano al futuro, la loro mente s’illuminava.
Passavano i mesi e si facevano strabilianti osservazioni. Per esempio: le scimmie si toglievano a vicenda le pulci (questo era noto) e con stupefacente precisione le prendevano con le dita e le mangiavano. Come facevano a essere così precise verso animaletti così sfuggenti? Forse un’altra ricerca stava per nascere.
Intanto, le ricerche sul DNA delle scimmie portarono all’isolamento del gene che codificava per l’evitamento delle bucce. Seguirono festeggiamenti e il gene fu battezzato GASBB (Gene Antisdrucciolo Bucce di Banana). La notizia fece due o tre volte il giro del mondo, ma gli scienziati decisero che sarebbe stato meglio non farla circolare molto.
Quest’utile gene fu isolato e trasferito all’industria farmaceutica che ne confezionò in breve dosi da iniettare negli esseri umani. Qualcuno osservò che non erano state fatte prove sull’innocuità. Ma, giustamente, qualcun altro fece notare che, vista la stretta parentela tra le scimmie antropomorfe e l’uomo e la condivisione di circa il 99% del loro DNA, non ci sarebbero stati problemi. Questa constatazione fu ritenuta valida e il Ministero programmò larga diffusione e disponibilità per la popolazione. Il costo era alto ma per una scoperta rivoluzionaria di tale utilità non si poteva certo lesinare. Fu deciso che lo Stato avrebbe contribuito per metà del prezzo. L’altra metà l’avrebbero pagata i cittadini. La terapia genica fu fatta conoscere su tutti i mezzi d’informazione. Fu raccomandata dai medici per tutte le persone che potevano camminare. Naturalmente sarebbe stata inutile per i bambini prima degli otto-nove mesi, per i malati terminali, i paraplegici e tutte le persone affette da pigrizia cronica. Anche i veterinari, sebbene non ci fossero studi sui traumi da scivolamento negli animali domestici, incominciarono a raccomandarla ai proprietari di cani, gatti e cavalli. La strada era segnata: scienza e tecnologia collaboravano per migliorare l’umanità. Gli esperimenti sugli animali erano stati indispensabili.
Non passò tempo e un’altra osservazione cadde sotto gli occhi di quel gruppo di scienziati. Analizzando le statistiche, notarono una certa incidenza di problemi legati all’ingestione casuale di spine di pesce. Mangiando pesce, le spine avevano provocato danni e creato disagi agli amanti di questi animali. Ma l’osservazione ancor più illuminante fu che le giraffe, pur mangiando rametti di acacia pieni di lunghe spine, non si procuravano nessuna lesione. Lavorando di analogia e forti delle scoperte precedenti, una sera gli scienziati osservarono foto di pesci, uomini sofferenti, giraffe e acacie. In silenzio i reperti passavano di mano in mano. Si sentiva solo il ronzio dei frigoriferi. Quando tutti ebbero visionato tutto, il più anziano alzò il capo e, guardato ognuno negli occhi, con severità e una punta di complicità, sussurrò: “E se prendessimo delle giraffe ... ”.