Tra le mille citazione che affiorano, l’una, valida anche perché nella sua vetustà enuncia l’ipotesi del concetto di felicità come uno dei più antichi, è di Aristotele, che assegna all’uomo una sorta di comunanza d’intenti con i suoi simili, ovvero il desiderio di felicità. La divergenza, prosegue Aristotele è nei percorsi per raggiungerla, avendo ciascuno un concetto proprio della stessa.
Acclarato comunque che dalla tendenza alla felicità non è possibile derogare, i tempi odierni vedono ulteriori e profondi mutamenti in questo cammino. Le ragioni sono evidentemente da ritrovarsi nei mutati rapporti tra l’individuo e la società e, soprattutto, nei valori che socialmente vengono a considerarsi attributo della felicità stessa e, soprattutto, oggetto della medesima.
Un primo filone interpretativo emerge dall’equivoco che spesso è indotto dal considerare felicità e benessere complementari, ovvero direttamente proporzionali. In molti si rivolteranno invocando il luogo comune, il principio che la ricchezza non fa felicità, come se fosse uno dei principi più conosciuti, apprezzati e seguiti. Addirittura le statistiche sembrano confermarlo. Nelle società cosiddette avanzate infatti, il rapporto tra felicità ed incremento del reddito è dichiarato inversamente proporzionale (R. Lane, The Loss of Happiness in the Market Democracies). Come se vi fosse infine verità assoluta nel fatto che benessere porta preoccupazione e la stessa diviene fonte di stress e quindi di ansia e dunque di uno stato d’animo tutt’altro che felice. E ciò in virtù del fatto che sicuramente, felicità e tranquillità d’animo vanno altresì, nell’immaginario collettivo, di pari passo. Nel frattempo, a scanso di equivoci e/o contraddizioni, la capacità dialettica dell’ars giustificandi è arrivata a coniare il sommo principio che “il denaro non rende felici ma certo aiuta”, autorizzandoci pertanto a parlare in un modo ed a razzolare in ben altro. Atteggiamento, quello di perseguire certo benessere tutt’altro che deprecabile, sia chiaro ed in ogni caso lontano da ogni e qualsiasi istanza moraleggiante ma, per contro, ciò che si auspica, è la consapevolezza del proprio operato.
Se negli uomini si era dunque radicata la convinzione che vi fosse un diritto alla felicità, diritto che poi Kant ed altri avrebbero poi cercato di regolamentare e di adeguare alle mutevoli scene sociali, riconducendovi una verità filosofica flessibile che potesse, aiutata dall’etica e dalla morale, indicare un cammino, il fallimento, reiterato ed anche recente, di questo assunto, ha senza dubbio fatto emergere, accanto all’iniziale diritto a costruirsi la felicità, il diritto a ricevere la felicità
I due diritti, per quanto attinenti lo stesso oggetto sono portatori di due tendenze completamente diverse. Da una parte, il diritto ad essere protagonisti della propria ricerca e del proprio cammino, al punto da identificare questo atteggiamento come individualista; dall’altra, con il diritto a ricevere la felicità, nasce il concetto di un terzo attore, in questo caso presumibilmente lo stato o l’apparato sociale, che, presumibilmente, intervengono laddove il tentativo individuale di costruzione della felicità sia fallito.
Due tendenze dunque che nascondono, all’origine due atteggiamenti opposti nel rapporto tra individuo e società. Con il diritto a costruirsi la felicità la società diviene elemento passivo che deve unicamente veicolare questa tendenza, nel caso invece di diritto a ricevere la felicità, la società stessa si impone su un individuo che invece va ad assolvere il ruolo di soggetto passivo, aspettando che la società gli conceda ciò di cui ha diritto in quanto membro. Nascono dunque i diritti alle prestazioni, quelle contropartite più o meno dovute che l’individuo, in base all’intensità con cui delega il raggiungimento della propria felicità alla società, si attende dalla stessa.
L’affermarsi di questo diritto a ricevere costituisce - ed ha costituito - duplice elemento di insoddisfazione e di allontanamento dalla felicità. In primo luogo perché la società quasi sempre disattende questa aspettativa, in secondo luogo perché, al mancato pervenimento dell’assistenza, si lega un senso di patita ingiustizia che ne accentua, sensorialmente e percettivamente, la lontananza.
Il tentativo dunque di raggiungere volutamente la felicità attraverso la volontà pratica, è destinato a fallire ed anzi, a portare con sé un sempre maggior senso di insoddisfazione. E, collegata ad esso, la paura di perdere ciò che si ha, elemento che induce all’asocialità ed all’individualismo ancora più sfrenato poiché, partendo dal presupposto che non possa esserci “tutto per tutti”, adottiamo un atteggiamento di riservata difesa e di conseguente ostilità nei confronti dei “non arrivati” o più genericamente “degli altri” visto che l’insoddisfazione non acquieta la brama ma la fa divenire latente.
Due strade dunque qui si aprono, sia come speculazione filosofica che, molto più pragmaticamente, come nuovo indirizzo. Strade che necessariamente non si escludono, ma che certo, rinnovano la scelta di cammini diversi. L’una tendente a sublimare il disinganno nella ricerca spirituale per poi ricostituire nuovi principi o il riaffermarsi di antiche felicità assolute; l’altra, che invece tenta di costruire una ragione nuova perché questo in fondo è il nocciolo della felicità: avere un motivo per perseguirla. Solo con la consapevolezza di questa ragione si riacquista il senso della stessa e si ridona impulso alla sua ricerca. Perché in fondo ciò di cui la natura umana necessita è di ragioni per muoversi, in qualsiasi direzione si voglia. Senza una ragione, un motivo valido, forte per farlo, tutto diviene peso, obbligo, insoddisfazione.
Ciò che in molti stanno diffusamente sperimentando in tempi dove i canoni sociali ed i principi che avevano mosso i fili della felicità fino ad oggi sono stati profondamente scossi dalla implosione delle regole cui ci eravamo affidati è la delusione. Delusione personale laddove vi siano obiettivi mancati, delusione ideologica laddove i principi che hanno mosso le nostre intenzioni si sono rivelati inefficienti, delusione morale laddove si sta assistendo alla frantumazione di quel modello sociale che aveva fatto del benessere e della presunta conseguente felicità i propri scopi prioritari.
Non si tratta adesso di rinnegare niente - troppo facile sarebbe -, né prendere distanze ostentando una non collusione e financo una militanza nell’opposizione a quel tipo di benessere. Sono tutti atteggiamenti di comodità e che non bastano tuttavia a cancellare il senso profondo della delusione, dello smarrimento. In fondo nessuno può arrivare a credere fino a fondo di non essere stato mai, anche se in buona fede e saltuariamente, complice, proprio in virtù di quella tendenza alla felicità connaturata che fino a ieri, o forse fino ad oggi, è stata indissolubilmente legata al perseguimento o al raggiungimento del benessere. Equazione che ha portato dietro con sé tutta una serie di valori rivelatisi poi, tutt’altro che solidi e capaci di preservarci da guai e da crisi, anzi divenendo alimento per il grande inganno. Ancora una volta tuttavia non è il principio ad essere messo in discussione, quanto il percorso per raggiungerlo. Percorso che economicamente, socialmente ed individualmente si è rivelato ai più - dopo essere stata cosciente verità per pochi - un percorso illusorio, infarcito di artifici che hanno tentato finché hanno potuto di alterare la realtà per il raggiungimento dello scopo. Una realtà complessa quella alterata, che porta in sé anche l’alterazione dell’ambiente, altro grande nodo venuto al pettine.
Non vi è dunque senso nell’affermazione del diritto alla felicità oggi. Sappiamo tutto. Conosciamo bene l’inganno di ciò a cui abbiamo affidato le nostre speranze sia per una costruzione individuale che si è rivelata in molti casi perseguimento del potere e non della felicità, sia per diritto a riceverla, vedendo naufragare mestamente il welfare di molti stati contro i quali diventa persino infantile rifarsela, perpetuando il perenne vittimismo degli impotenti.