Licia Satirico per il Simplicissimus
A volte si ha l’impressione desolante che in Italia laici e cattolici non parlino la stessa lingua: che diano alle stesse parole significati talmente diversi da ribaltare il senso delle cose in modo per nulla indolore. È così che la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla diagnosi pre-impianto diventa, per il ministro Balduzzi, una “deriva eugenetica”. Sul versante diametralmente opposto, lo spettro dell’eutanasia travolge testamento biologico e rifiuto di cure.
Il prefisso eu- ossessiona il nostro paese quando si tratta di esistenze in limine: quella aurorale dell’embrione e quella crepuscolare che precede, a volte per molto tempo, l’ingresso nella morte.
Proprio l’ingresso nella morte a occhi aperti, per usare una frase bellissima della Yourcenar, viene in mente pensando all’agonia del cardinale Carlo Maria Martini, coerente fino alla fine nel rifiuto dell’alimentazione artificiale e di ogni altra forma di “accanimento terapeutico” (questa è l’espressione che compare nei comunicati stampa ufficiali). Nel gennaio 2007 il cardinale Martini scrisse sul Sole 24ore un articolo, intitolato “Io Welby e la Morte”, che fu interpretato come un atto d’accusa alla linea pontificia di opposizione draconiana alla “dolce morte” intenzionalmente causata.
Pochi giorni dopo la morte di Piergiorgio Welby, Benedetto XVI ha ribadito con enfasi che la vita va protetta “fino al suo naturale tramonto”. Nulla di naturale c’è stato, però, nella storia di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare progressiva dall’età di diciotto anni, rianimato dal coma contro la sua volontà e condannato per dieci anni a una vita di pietra scandita da un respiratore artificiale. Welby aveva chiesto, pubblicamente e inutilmente, di poter essere staccato dal suo implacabile respiratore, fino al giorno in cui riuscì a compiere con l’aiuto di altri il suo ultimo atto di libertà. La Curia romana gli negò i funerali religiosi.
Martini, voce fuori dal coro, manifestò profondo rispetto per chi aveva chiesto «con lucidità» la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, in un contesto in cui la scienza richiede “un supplemento di saggezza” per non prolungare la sofferenza. Il cardinale dava grande importanza alla volontà del malato, sollecitando l’adozione di «una normativa che da una parte consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto delle cure, in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall’altra protegga il medico da eventuali accuse, come omicidio del consenziente o aiuto al suicidio»: una teorizzazione laica, nel senso più limpido del termine, del principio di autodeterminazione responsabile.
Le fini distinzioni giuridiche tra terapie di sostegno vitale, ritenute doverose, e accanimento terapeutico, considerato come un proseguimento innaturale della vita, si scontrano di fronte alla ferma dignità del rifiuto delle terapie da parte del paziente consapevole: parlando di Welby, Martini ha parlato di se stesso.
Due però, in questo momento, sono i nostri rovelli. Ci chiediamo, infatti, se la scelta di Martini di rifiutare l’inutile prosecuzione delle terapie sia davvero così atipica (anche) tra le gerarchie ecclesiastiche. La morte di Giovanni Paolo II, come tutti ricordano, è stata accompagnata da dubbi qualificati e mai completamente smentiti sul rifiuto, da parte del pontefice, di sottostare all’inserimento e alla reiterata asportazione del sondino naso-gastrico. Ci piace pensare che il “lasciatemi andare” pronunciato prima di morire da Karol Wojtila avesse un significato più umano e meno trascendente di quello liberamente tradotto dai portavoce del Vaticano.
Ci chiediamo, soprattutto, se l’unica atroce differenza tra il “lasciatemi andare” di Welby e quello del pontefice non sia da rinvenire nel carattere dell’appello: quello pubblico di Welby ha provocato un processo penale e lo sdegno del cardinale Ruini, quello privato del papa è stato agiograficamente interpretato come l’esito di un calvario imposto dalla malattia.
Queste sfumature nella comunicazione confermerebbero il limite ontologico della doppia morale che affligge il nostro Paese: quello che consente a pochi ciò che è vietato ai molti e interpreta disinvoltamente il significato delle parole, confondendo l’eugenetica con le pratiche mediche e l’eutanasia con il rifiuto di terapie. Martini non giocava con le parole: sapeva che l’eutanasia è cosa diversa da quella che lui chiamava “sospensione dei trattamenti”. Noi speriamo da laici che la morte sia stata gentile con lui.
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