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La tragedia di Euripide per dire no alla guerra

Creato il 20 maggio 2011 da Sulromanzo

La tragedia di Euripide per dire no alla guerraL’umanità da sempre tende verso un continuo e costante processo di incivilimento. Ma viene da chiedersi: che rapporto c’è tra il conflitto armato e tale processo?

È ancora necessario alle nazioni che si considerano civili risolvere i contrasti con lo strumento della

guerra? Forse la politica parla un linguaggio che non è quello degli uomini, ma pure sono uomini coloro che si rendono responsabili di scelte ed azioni terribili. Non balza ai loro occhi lo scenario di degradazione e brutalità che ogni guerra comporta? Morte, saccheggi, violenza carnale sono azioni incontrollabili perché in guerra non c’è tempo e spazio per pensare. Si possono invocare le “giuste” cause e altre mille giustificazioni, ma il volto della ferocia e dell’abbrutimento è il medesimo di sempre.

Nel 415 a.c., mentre infuriava in Grecia la guerra del Peloponneso, con lo spirito turbato per la ferocia dimostrata dai contendenti, Euripide presentava al pubblico ateniese la tragedia “Le Troiane”. Probabilmente il Poeta, impressionato dalle stragi compiute dai suoi concittadini nell’assedio e nella conquista di Melo, avvenuta nell’inverno dell’anno 416-415 (cfr. Tucidide, Storie V. 85-116), ha voluto lanciare un grido d’allarme alle genti della sua terra ponendo sotto i loro occhi le conseguenze funeste cui vanno incontro i popoli che non tengono in nessun conto la pietà umana e la legge divina e rinnegano la giustizia.

I Greci avevano dimostrato in non poche occasioni militari tale crudeltà d’animo e si erano abbandonati a tali eccessi che la sensibilità del Poeta non poteva rimanere sorda di fronte ad essi, non solo a fini puramente artistici, ma anche per cercare di determinare nell’animo degli spettatori un salutare ravvedimento.

“Folle chi rade al suolo le città, e i templi e le tombe ne abbandona, sacro asilo dei morti: presto o tardi pagherà molto care le sue colpe”.

Si tratta di un’appassionata denuncia degli orrori delle guerre che sono rovina per i vinti ma anche causa di degradazione morale per i vincitori, facilmente trascinati ad abusare della vittoria. La fabula della tragedia rimanda agli eventi successivi alla disfatta di Troia ad opera dei Greci che avevano fatto scempio di quella che era stata la più ricca e la più civile città dell’Asia minore. Ma tutto ciò appartiene a un passato irrecuperabile. Il presente sono i morti abbandonati senza sepoltura, le navi vincitrici pronte a salpare con le prede di guerra, la Grecia che si avvicina, terra di servitù e di esilio per le superstiti Troiane.

Un discorso contro la guerra quello scritto da Euripide che appare oggi molto attuale. La condizione dell’uomo nella guerra, infatti, presenta tali costanti che anche opere remote nel tempo, e che fanno di tale trattazione il loro oggetto, conservano intatta la loro attualità.

In quanto rappresenta una situazione di tensione estrema, nella quale la vita stessa è in gioco, la guerra esalta contraddittoriamente aspetti antitetici della natura umana: quel che in essa vi è di più bestiale e quel che vi è di più nobile e generoso.

Ma nelle Troiane sono raffigurati a tinte sinistre gli orrori prodotti dalla guerra a scapito dei più deboli. Non è l’eroismo dei vincitori che il Poeta vuole esaltare, bensì il dolore e la disperazione dei vinti, con lo scopo di gettare luce sulle sofferenze generate dai conflitti armati.

Nella tragedia euripidea dunque si afferma l’assoluta negatività della guerra, protagonista devastante,  sintesi di sventura e fonte di dolore e distruzione. È la guerra che cancella non solo vite umane e intere città, ma annienta anche gli animi più forti nel calpestare le più elementari leggi morali

Continua è la presenza sulla scena di Ecuba, la vecchia e sfortunatissima regina di Troia. Ecuba che, vecchia e stanca, vede cancellata ogni felicità e ogni speranza di futuro. A lei non resta che piangere il triste destino che ha deciso la sua vita e quella dei suoi cari. A pagare dunque sono i vinti: hanno massacrato gli uomini, le donne vengono fatte schiave e divise tra i Greci, non sono risparmiati neppure i bambini. La regina dovrà subire l’onta delle catene e del lavoro servile e nessuno avrà pietà del suo dolore e dello strazio subito nell’assistere impotente alla morte del marito e allo strazio delle figlie, usurpate dai guerrieri greci. Ella stessa è toccata ad Odisseo.

Me poveretta! Dovrò essere la schiava di un perverso ingannatore, belva in veste d’uomo, che non conosce leggi e non ha scrupoli, la cui duplice lingua ora calunnia te presso gli altri e or gli altri presso di te, freddo seminatore di zizzania, guastatore di amicizie insuperabile! Compiangetemi o donne d’Ilio! Sono finita!

Ella appare il simbolo vivente del dolore umano e si abbandona al suo strazio rievocando la felicità trascorsa.

In questo modo maggiore pietà susciteranno i mali che mi affliggono…

La tragedia di Euripide per dire no alla guerra
Fui madre di figli valorosi, i migliori tra i Frigi. Questi figli son caduti tutti sotto le armi dei Greci…Anche il loro padre ho dovuto purtroppo pianger morto, non già perché qualcuno mi ha narrato la sua misera fine, ma perché con questi occhi l’ho visto trucidare presso l’ara di Zeus, quando Ilio era un mucchio di macerie ormai. Le mie povere figlie mi furono strappate dalle mani, le mie bimbe allevate da me con ogni cura perché nobili nozze contraessero, non già perché facessero tal fine.

Tuttavia Ecuba nella sua disperazione si lamenta, soffre specialmente allorché le crude vicende la toccano nella sua più intima sostanza umana, ma conserva una nobilissima anima fremente in un piccolo corpo di vecchia martoriata. Quanto più il destino le si accanisce contro, tanto più oppone una straordinaria forza spirituale riuscendo a dare opportuni consigli, non perdendo mai il senso della realtà

L’onda della ribellione rischia di travolgerla solo allorché i Greci decidono di precipitare dalle mura di Troia il piccolo Astianatte, il figlio di Ettore, strappandolo dalle braccia della madre Andromaca, per evitare che un giorno il bambino possa vendicare il padre e per porre fine alla stirpe troiana.  

I versi che rappresentano questa scena sono particolarmente toccanti: il bimbo è compianto con diverse ma ugualmente strazianti parole sia dalla mamma che dalla nonna.

Andromaca:

Tesoro mio, bimbo adorato più d’ogni altra cosa al mondo, ahimè, tu devi essere ucciso dai nemici nostri e lasciare per sempre la tua mamma...Tenero bimbo mio, che tante volte ho cullato, serrato, accarezzato tra le braccia; o dolcissima fragranza del corpicino roseo, dunque inutile è stato il mio nutrimento al seno, vane le fatiche, le pene logoranti, estenuanti, con gioia sopportate!

O Elleni senza cuore, o inventori crudeli di supplizi, degni in tutto dei barbari, perché mi volete uccidere questo bimbo incolpevole?

Ecuba

O bimbo, o figliuolo del mio povero figlio, han voluto strapparti iniquamente a tua madre e a me! Quale aiuto potrei io meschina porgerti? Null’altro mi resta che battermi il capo e lacerare il mio seno! Ahimè povera patria, ahimè povero bimbo. Che cosa manca in questa immane catastrofe perché la nostra rovina possa dirsi completa?

L’anziana regina troverà alla fine la forza di accogliere per il rito funebre il cadavere del piccolo Astianatte, deposto sullo scudo del valoroso padre e lancerà pesanti accuse ai Greci che, sicuramente orgogliosi per le fortunate imprese guerresche, non potranno mai gloriarsi di esser saggi se capaci di compiere tali orribili delitti.

Temevate che un giorno Ilio potesse risorgere per opera del bimbo?

E ora che Ilio è stata presa e che i Frigi non sono più nulla, voi, ecco, avete paura di un bambino…

O mio piccolo tanto sventurato! Non mi dicevi il vero allora che al mio peplo tu ti stringevi ed esclamavi: “Nonna, per te voglio tagliarmi tanti riccioli e poi guidare al tuo sepolcro schiere di miei compagni, per mandarti l’affettuoso estremo mio saluto!”.

Quale iscrizione per il tuo sepolcro detterebbe un poeta? Forse questa

“Qui riposa un fanciullo cui gli Argivi diedero un giorno morte per paura!”

Rabbrividisce il cuore e trema la ragione di fronte agli scempi di ogni tipo che si consumano nelle guerre. Rimarrà negli occhi e nella coscienza di tutti il sacrilegio contro la vita e le speranze troncate nelle stragi degli innocenti che vanamente le braccia di un padre tentò di sottrarre alla furia degli aggressori.

Ancora una volta sorprende la sensibilità di Euripide, sottile scrutatore dell’animo femminile a cui egli affida anche la capacità di riflessioni riguardanti il senso della vita umana.

Insensato colui che si rallegra credendo che la felicità gli debba sempre arridere; mentre è noto che la fortuna con i suoi capricci irrequieta salta or qua or là, come un uomo bizzarro, né si ferma mai presso la medesima persona.

E ancora

Ricordatevi di non chiamare felice finché vive nessuno di coloro che vi sembrano ricolmi d’ogni bene di fortuna!

Potrebbero queste sole riflessioni pronunciate da Ecuba indurre a più miti scelte, ma non ne furono capaci i Greci e nei secoli a venire quanti altri non ne saranno capaci!

Troia viene data alle fiamme, e le prigioniere vengono portate via mentre salutano per l’ultima volta la loro città.


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