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La trilogia panica di Fernando Arrabal

Creato il 27 aprile 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

La trilogia panica di Fernando Arrabal

Viva la muerte

Quando Fernando Arrabal realizza il suo primo film Viva la muerte (1970), egli è già una delle personalità più note del panorama artistico europeo: fondatore nel 1962 con Alejandro Jodorowsky e Roland Topor del Movimento Panico (nome che compare per la prima volta nella sua opera Cinque racconti panici) e autore di piéces surreali e crudelissime, Arrabal è il drammaturgo più eccentrico e singolare della nuova avanguardia teatrale, il più iconoclasta e sconcertante.

L’esordio al cinema avviene, in modo indiretto, con la trasposizione su pellicola di due suoi lavori: Il paese incantato (1968), di Jodorowsky, dall’opera Fando Y Lis, e Il gran cerimoniale (1968), di Pierre-Alain Jolivet (cineasta oscuro ma assai interessante), dall’opera omonima. Quando Viva la muerte uscì nelle sale, il film venne salutato come un capolavoro da Andrè Pieyre de Mandiargues (che scrive che il film “è senza dubbio un’opera d’arte. Una delle più strabilianti mai viste in vita mia”.), ebbe il plauso incondizionato di Luis Buñuel (che certamente ne influenzò il lavoro, quasi che il film di Arrabal sia la versione surreale di Los Olvidados) e ottenne un’entusiastica recensione di Alberto Moravia dal titolo “Se Edipo impugna la bandiera rossa”[1].

In patria, invece, venne censurato per i suoi contenuti blasfemi (dopo che, quattro anni prima, il regista venne addirittura arrestato per vilipendio allo stato e alla religione).

Il dodicenne Fando, cresciuto nel culto per il padre scomparso in una Spagna appena riconquistata dalle falangi franchiste, vive in una atmosfera magica, dove i sogni della prima età si mescolano al ricordo di esperienze reali, sovrastate dalla figura di una madre dominatrice, di una zia irrequieta e di avi smarriti nel loro silenzio. Poco a poco, Fando ricostruisce la terribile verità: suo padre non è morto come voglio fargli crescere, ma è stato arrestato dai franchisti su denuncia della moglie e ha tentato il suicidio in prigione. Colpito dalla tubercolosi, Fando viene ricoverato in ospedale. Una mattina, la sua coetanea e amica Teresa, lo carica su di un carretto e lo trasporta sui monti ove agiscono i partigiani.

Pervaso da un fortissimo elemento autobiografico nella rievocazione dell’infanzia dello scrittore a Melilla (reinventata a Tunisi, dove è stato girato il film), Viva la muerte è “tratto con una certa programmatica infedeltà dal romanzo Baal Baylone, scritto dallo stesso Arrabal nel 1959” e adopera il doloroso accaduto della perdita del padre, in seguito alla delazione della madre, (che si paventa nel film possa nutrire sentimenti incestuosi per il figlio) per un atto d’accusa accorato e senza compromessi del totalitarismo fascista. La denuncia del regime e la trasfigurazione ossessiva del proprio destino personale appaiono con sconvolgente verità nella provocazione surreale e nell’orrore perturbante dei titoli di testa disegnati da Roland Topor: come i supplizi di Bosch, il regista passa in rassegna un catalogo di figure massacrate, crocifisse, mutilate o divorate, epifanie iconiche proprie della poetica di Arrabal, accompagnate dalle note stonate e inquietanti (nel loro candore) di un’acidula filastrocca danese, che, attraverso un feroce montaggio delle attrazioni, forniscono il senso della provocazione antiautoritaria e anarchica del loro autore e annunciano, nel loro sfinimento inventariale, gli incubi necrofili e scatologici del dodicenne Fando, tra defecazioni, vomiti e mattanze di animali, così che le sue visioni mostruose si intessono e si ragguagliano sempre intorno al corpo: un corpo esibito con violenza o totalmente sclerotizzato, un corpo risemantizzato attraverso il dispositivo cinematografico come luogo simbolico della colpa, un corpo che si autoflagella per effetto di un radicato delirio cattolico (si pensi alla figura della zia che coniuga ossessioni religiose e ninfomania).

Il simbolismo di Arrabal è certamente meno oscuro e caleidoscopico di quello di Jodorowsky e si alterna costantemente con il piano realistico della rappresentazione, ma ad ogni modo la visione del cineasta è irrimediabilmente eversiva e dionisiaca, pansessuale e cristologica (si pensi alla scena della flagellazione della madre nuda davanti al crocifisso), traumatica e catartica. L’elemento onirico e perturbante di Arrabal (sul vettore psichico di un complesso edipico irresoluto ed eterno) giunge al suo punto di non ritorno nelle sequenze finali girate in videotape (con un intenso lavoro su filtri ottici e sui colori, portati ad un unico livello di narrazione), distorte, sovraesposte e manipolate cromaticamente, non mancando di porsi come un momento di ricerca espressiva del tutto all’avanguardia (essendo il video magnetico un mezzo rudimentale e agli esordi del suo utilizzo al cinema).

Viva la muerte è un’opera di estremo barocchismo lirico e di un’immaginazione rutilante che in certi momenti è malservita da non adeguate capacità tecniche che poco pregiudicano, in ogni modo, l’esito finale; il rischio è quello del pastiche, ma esso è anche il suo pregio e la sua provocazione.

L’anarco-surrealista Arrabal è parso a molti un pallido imitatore di Jodorowsky, e certamente i punti di contatto sono molteplici, ma a ben vedere le premesse di contenuto divergono profondamente in quanto Jodorowsky non contempla né un autentico richiamo biografico (eccetto che per una potente biografia dell’immaginario) né un concreto nesso alla storia contemporanea, così come in Arrabal che utilizza un estremismo funebre e visionario per avvertire sui pericoli del fascismo e della religione (quasi anticipando il Salò di Pasolini).

Nel 1970 Viva la muerte apparve non solamente come una geniale ricapitolazione di turbamenti psichici e suggestioni culturali, ma anche come un’anticipazione geniale del processo di contaminazione cinematografica fra storia ed immaginario che non distingue più fra il piano reale e il piano inconscio: così che anche la fantasticheria solitaria non contiene che incubi orribilmente realistici e carnali, volti alla barbarie e alla brutalità, fino ad un’autentica orgia di onirismo caustico ed erosivo. Il tentativo sperimentale di Arrabal, piuttosto che nella violenza surreale (indiscussa ma inesorabilmente datata), si realizza proprio nella coesistenza dei due piani che senza soluzione di continuità progrediscono in visioni tanto realistiche quanto deliranti, di modo che l’orrore del corpo conduce spietatamente e per oscure metafore al fascismo come luogo psichico dell’orrore sociale.

La trilogia panica di Fernando Arrabal

Andrò come un cavallo pazzo

Il film successivo, del 1973, è Andrò come un cavallo pazzo, opera che per alcuni segna il passo involutivo di Arrabal – in quanto maggiormente ripiegata su se stessa e irrisolta nella sua elaborazione drammatica – e che all’opposto trae valore proprio dalle sue aporie narrative e dalle sue concentrazioni oppositive.

Il giovane Aden Rey, sofferente di epilessia, uccide la madre, che ritiene colpevole del suo male (ne fu colpito quando, ancora bambino, la scoprì in compagnia dell’amante). Per sfuggire alla polizia, che gli sta dando la caccia, si rifugia in un deserto, dove incontra un eremita, Marvell, che vive in perfetta armonia con la natura. Aden ne è affascinato, ne accetta l’amicizia, ma non sa resistere al richiamo del mondo che si è lasciato alle spalle. Convince il santone a seguirlo, lo conduce a Parigi, insieme vivono una breve e avventurosa esperienza, ma Rey è sempre perseguitato dai ricordi della sua infanzia, mentre Marvel rimpiange la sua serena vita di primitivo nel deserto, finché Aden non cade sotto il piombo della polizia. L’amico ne riporta il corpo nel deserto, per mangiarselo, in un supremo atto di comunione.

Il film, una metafora insondabile sul degrado della civiltà, è in qualche modo la prosecuzione di Viva la muerte: il piccolo Fando è divenuto Aden, che, dopo aver ucciso la madre e averle rubato tutto, scappa verso il deserto lacerato dai sensi di colpa. Il rapporto con la madre è traumatico e ci viene mostrato retrospettivamente attraverso i ricordi: in piedi con una corona di spine sulla testa, in punizione a seguito delle sue crisi epilettiche, nascosto a spiare gli amplessi della madre con uomini mostruosi, intento alla masturbazione. Fra tutti gli assassinii, il matricidio è uno dei più abietti e dolorosi, e atroce è il rimorso di chi lo compie; e inoltre è un gesto arcaico congiunto fra mito e ritualità. Nel deserto, luogo religioso di ascesi perenne o di totale perdizione, Aden incontra un nano, uno sciamano misterioso che in qualche modo rappresenta la sua nemesi, il suo io rovesciato.

Il nano Marvell (il tunisino Hachemi Marzouk, che non si sa che fine abbia fatto dopo il film) che interpreta il suo personaggio cadenzando benissimo è il fulcro simbolico del racconto di Arrabal sulla fatale consunzione della società dei consumi dispiegata alla reiterazione insignificante dei rituali, delle ossessioni e delle fobie del suo grottesco nulla. Marvell è un filosofo primitivo la cui natura abdica ad ogni concetto di relazione e di morale, un androgino dello spirito che ricapitola il principio duale del mondo nel suo Io cosmico (un’apeiron messianico): egli è insomma il paradigma della percezione allo stato puro e della dialettica sensibile tra l’Io e il mondo. Laddove Marvell è sovrumano, Aden ne è il principio umano, con tutti i suoi limiti e le sue interrogazioni. Il nano seguirà il giovane amico in città e sarà per lui la sua coscienza critica, il suo contrappasso irriconciliante, il suo profeta gnostico, fino a che “tra la ricerca di una sessualità distorta, canti gregoriani, masochismo, cannibalismo, degustazione di feci, polluzioni, insetti, amputazioni e travestimenti” e persino l’esecuzione di un bambino completamente nudo, Aden chiederà a Marvell di essere mangiato per ottenere la purificazione dalle sue colpe e un ultimo atto di assoluta e inconvertibile comunione. Compiuto il rito antropofago Marvell avrà raggiunto l’ascesi, così che lo spirito di Aden potrà fecondarsi nel corpo del nano pluralizzando il proprio Io.

La storia, ancora intrisa di un autobiografismo folle, muove dall’impossibilità che il tempo possa esorcizzare la memoria; Arrabal, che impiega la metafora eccedente della crudeltà (pure quando essa è inverosimile e grottesca) per affabulare il disordine della nevrosi moderna al limite tra rivolta e rassegnazione, stavolta è prossimo ai riferimenti della letteratura e della filosofia: Alfred Jarry, Nitezsche, il cristianesimo primitivo, la dottrina gnostica, l’alchimia, l’esoterismo, l’erotismo batalliano, il tabù dell’incesto, il comunismo deflagrante la famiglia e la religione, tutto partecipa del furore iconoclasta del Teatro Panico e dell’alienazione dell’Io.

Secondo alcuni, Arrabal “rimane vittima del suo delirio”: la delirante allegoria del tardo capitalismo e il potlach limacciosamente intellettuale che la sostiene hanno in qualche modo fatto il loro tempo, ma il processo di individuazione del giovane matricida è autentico e realmente inquietante, come pure l’estremismo disgustoso e stomachevole (totalmente scatologico) degli atti compiuti o immaginati in funzione psichicamente traumatizzante e narrativamente compiuta;  inoltre, la creazione di autentici tableaux vivants anticipa le forme di contaminazione fra il cinema e il teatro contemporaneo della performance art. Spogliato degli elementi politici del film precedente, la seconda opera di Arrabal si attesta all’evocazione di quel processo di dolorosa anamnesi che conduce alla sublimazione dell’Io attraverso un’esperienza di totale spoliazione di sé: in definitiva, la liberazione attraverso la poesia.

La trilogia panica di Fernando Arrabal

L’Albero di Guernica

Il terzo film della trilogia panica è L’Albero di Guernica (1975). Girato, su suggerimento di Pasolini, nell’atmosfera visionaria degli antichi quartieri di tufo dei Sassi di Matera, è l’opera più narrativamente equilibrata di Arrabal, che, ancora una volta, ritorna alla storia del suo paese.

Mentre a Villa Ramiro, una cittadina spagnola antico feudo dei conti di Cerraibo, il popolo sta festeggiando il carnevale e la fine della fame e dell’oppressione, un gruppo di generali si ribella al potere repubblicano e scatena la guerra civile. Una giovane contadina, Vandal, e Goya, figlio del conte di Cerraibo, incontratisi casualmente a Guernica, rinunciano al loro proposito di raggiungere la Francia per schierarsi con le forze    repubblicane.

Prendendo spunto da una sanguinosissima pagina di storia, Arrabal coniuga la vicenda corale di un intero paese assediato dalle truppe di Franco con quella di un pittore anarchico e surrealista che ha abdicato ai principi della sua classe di appartenenza (la borghesia reazionaria e protofascista) e si schiera, insieme ad una giovane contadina, in favore della lotta repubblicana. Arrabal limita di molto le sue metafore e i simbolismi astratti delle opere precedenti – tuttavia frequenti in alcune sequenze assai suggestive, come per la corrida surreale in cui il toro è sostituito da un nano legato ad una carriola o per la durissima iconoclastica del crocifisso fatto a pezzi o dello sperma sulle labbra della statua della Vergine Maria – e muove ad un resoconto storico meno vorticosamente delirante che, pure con toni grotteschi, indaga sulla paranoia del regime, come nella sequenza in cui  Onesimo in divisa da falangista si scambia il copricapo con un prete, mentre quest’ultimo gli lecca la faccia, oppure quella del processo farsa al maestro elementare, condannato a morte per omicidio, anche dopo che la presunta vittima si è presentata in tribunale.

Se il sottotesto filosofico del precedente film è qui sostituito con la storia concreta della rivolta spagnola, tuttavia l’opera è soffocata da una regia didascalica e impacciata che, per eccesso di compiacimento, finisce per non servire le ragioni narrative del film. Arrabal pare non si decida a compiere una scelta stilistica persuasiva, anzitutto con se stesso; inoltre il montaggio dilettantesco riesce a tratti stucchevole e aggrava le defezioni tecniche di scrittura, anche a causa di una sceneggiatura discontinua e inutilmente verbosa. Tuttavia ogni limite manifesto del film è minato dall’immaginario goyesco di Arrabal che scuote le fondamenta della percezione sensibile con le sue visioni mostruose. Come Pasolini per Salò, Arrabal eccede la storia come un rito di processione sadica ma finisce, pur con tutti i suoi limiti, per offrire uno dei migliori ritratti della guerra civile spagnola.

Beniamino Biondi

[1] “Viva la muerte “ di Fernando Arrabal è un film doppiamente autobiografico, cioè sia negli eventi che sono quelli della vita stessa dell’autore, sia nelle deformazioni che l’autore non può fare a meno, proprio perché è profondamente e direttamente impegnato nella sua opera, di introdurre negli eventi. Di che si tratta in “Viva la muerte”? In una cittadina spagnola, ai nostri giorni, in una famiglia povera composta dei nonni, della madre e di una zia, vive un ragazzo il cui padre, ufficiale repubblicano, ai tempi della guerra civile, fu arrestato e condannato prima a morte e poi al carcere a vita. Il ragazzo ha assistito all’arresto, sa della condanna a morte e del carcere a vita e ha pure appreso che il padre ha tentato di uccidersi e che alla fine è diventato pazzo ed è scomparso. Ora questa è punto per punto la storia del padre di Arrabal il quale, infatti, ha scritto : “Il 4 novembre del 1941 colpito da turbe mentali, mio padre fu trasferito dal carcere centrale di Burgos al manicomio provinciale della stessa città. 54 giorni dopo sfuggì e scomparve per sempre. Il giorno della sua scomparsa, a Burgos, c’era un metro di neve e gli archivi indicano che egli non aveva con sé la carta di identità e indossava soltanto il pigiama. Mio padre che era un “rosso”, era nato a Cordoba nel 1903. La sua vita fino alla scomparsa fu una delle più dolorose che io ricordi. Mi piace pensare di avere le sue stesse idee artistiche e politiche”. Fin qui i fatti. Ma nel film, oltre all’autobiografia fattuale c’è anche quella interiore. Arrabal immagina che il ragazzo è sicuro che sia stata la madre retriva e bigotta a denunziare e fare arrestare il padre dai franchisti. Ora, è accertato che questo “non risponde alla verità”. In realtà la madre si limitò, forse per paura, a non prendere le difese del marito, a non assisterlo con il suo affetto. Bisogna dunque vedere nell’invenzione della delazione una specie di rabbiosa diffamazione da parte di Arrabal il quale, evidentemente, “aveva bisogno”, e non soltanto per motivi letterari, di non perdonare alla madre il suo contegno verso il padre. Perché insisto sul doppio autobiografismo di “Viva la muerte”? Anzitutto perché esso spiega l’atmosfera dolorosa e sofferta della vicenda. E poi perché è la chiave per arrivare al nucleo centrale, tragico e straziante, dell’ispirazione di Arrabal. Il ragazzo Fando ama sua madre di un amore eccessivo, chiaramente edipico, che alla fine potrebbe portarlo, per istintiva rivalità, a prendere le parti della donna contro il padre. Ma Fando sente, al tempo stesso, oscuramente, che deve rivoltarsi contro sua madre e contro il mondo retrivo e bigotto che essa incarna. Allora, con mezzi drastici e disperati, egli opera una scelta esistenziale. Tra se stesso e sua madre sceglie la delazione materna, il destino del padre, e, alla fine, la rivoluzione. Si identifica, insomma, con il padre “rosso”; rifiuta la madre franchista. Lo sforzo compiuto per ripudiare la madre, lo fa ammalare. Nell’autobus che lo porta all’ospedale, egli accuserà apertamente la madre di aver provocato l’arresto del padre. Essa risponderà : “Se egli avesse fatto il suo dovere, oggi sarebbe dalla parte dei vincitori. Oggi sarebbe un padre come tutti gli altri. Ma egli, per le sue idee, ha compromesso tutto: il suo avvenire, quello della moglie e dei figli”. Chi non ha udito parole simili al tempi dei fascismi? Il film è raccontato a due livelli, quello della vita quotidiana in un borgo spagnolo e quello della vita interiore di un ragazzo alle prese con il suo inconscio. Nella descrizione della vita quotidiana Arrabal è realistico, del realismo, però, fermo e incantato che è proprio dei surrealisti, a cominciare da Buñuel. La vita interiore, d’altra parte, accompagna quella quotidiana con un flusso continuo di immaginazioni simboliche, violente, truculente. Ma i due livelli si intersecano e si confondono. Arrabal ha capito che il sogno è reale quanto la realtà; e che mentre una cosa può essere vera o falsa, tutto, in compenso, è reale, cosi la verità come la menzogna. La bella zia che si denuda davanti al crocefisso e si fa frustare dal ragazzo, è un sogno oppure una realtà? La madre che sputa sui fucilati, è una realtà oppure un sogno? È stato osservato che in “Viva la muerte” Arrabal attinge a piene mani dal museo degli orrori dell’onirismo surrealista così che nel film, accanto a parti sentite e autentiche ci sarebbero parti di maniera. Non sono di questo parere. In realtà, come tutti sanno, anche se non vogliono ammetterlo, l’inconscio è pieno di mostri che Arrabal ha evocato con esattezza in un contesto che li giustifica. L’avere stabilito un rapporto dialettico tra i mostri dell’inconscio e la vita morale mi pare uno dei meriti principali di questo film eccezionale.


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