Il dibattito sull’eutanasia e, in generale, sulle leggi riguardanti il fine vita, è sempre più serrato. La moderna società, immersa fino al collo nel nichilismo e nel relativismo etico, tenta di spacciare l’eutanasia come un diritto reclamato a gran voce da tutti i malati terminali, come una giusta, sacrosanta e dignitosa liberazione dal dolore che la comunità deve concedere all’individuo gravemente malato. Il tutto, seguendo un tipico principio delle società relativiste: se la maggioranza delle persone, e dell’opinione pubblica, decide che la vita, in certe condizioni, non è più degna di essere vissuta, allora l’eutanasia diventa un diritto inviolabile, un valore guida attraverso cui regolamentare le delicate, ed infinitamente eterogenee, situazioni legate alla fine della vita.
Nella società relativista, come la nostra, è quindi l’opinione di maggioranza che decide ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato; non esistono più valori assoluti, come, ad esempio, la vita, ma solo ciò che la società propone come modello etico e di comportamento. Il passaggio dalla “volontà della società”, alla “volontà dell’individuo”, è quindi molto breve; ciò che desidera la società, diventa automaticamente ciò che desidera l’individuo. In realtà, come abbiamo già visto, l’eutanasia non è affatto un desiderio della maggior parte dei malati.
L’ultimo esempio di ciò, arriva dall’Inghilterra. Qui, una persona, che per questioni di privacy verrà indicato con “L.”, ha iniziato una battaglia legale contro il Pennine Acute Hospital perchè non vuole essere condannato a morire. L. ha 55 anni, musulmano osservante, emigrato da giovane nell’area di Manchester, dove vive con la sua famiglia; sono proprio i suoi cari ad aver portato in tribunale l’ospedale, perché i medici hanno sentenziato che, in seguito a 2 arresti cardiaci che hanno gravemente danneggiato il cervello, L. non ha possibilità di guarire in modo significativo, ed è quindi un paziente che non merita di essere rianimato. I medici sostengono che rianimarlo, significherebbe esporlo ad un possibile nuovo arresto cardiaco, e questo porterebbe a “prolungare la sua morte e la sua vita senza dignità“.
A partire da maggio, però, i familiari di L. hanno notato dei segnali di miglioramento : “Quando mia mamma gli parla – dice il figlio – lui la riconosce, perché si fa subito attento e guarda dalla parte dove si trova mia mamma. Una volta poi lei ha fatto una battuta e lui si è messo a ridere“. Appurata questa situazione, un gruppo di medici indipendenti ha certificato che quello di L. non è uno Stato vegetativo persistente, ma uno stato di minima coscienza. Ora, tutta la vicenda è in mano al tribunale, il quale dovrà decidere se L. deve essere condannato a morire, anche contro la sua volontà, oppure no. Il figlio di L. non hanno dubbi : “Mio padre è un uomo pieno di vita e non vuole morire“.
Quello di L. è solo uno dei tanti casi in cui qualcuno, in questo caso i medici, si arroga il diritto di decidere della sorte di un malato, senza avere prove certe riguardanti il suo effettivo stato di coscienza. La scienza medica, infatti, non ha ancora dimostrato inequivocabilmente che i pazienti in Stato vegetativo, o in coma, non possano mai più riprendersi; numerosi, infatti, sono stati i casi in cui, persone date per spacciate, si sono risvegliate a distanza di anni, dichiarando di possedere, durante il coma, una perfetta coscienza di ciò che accadeva loro intorno. La questione, al contrario di ciò che vorrebbero certe correnti opportuniste della nostra società, è tutt’altro che chiusa.