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La turchia cresce come la cina: per qualcuno forse e' troppo

Creato il 01 luglio 2011 da Pasudest

Un'immagine della Borsa di Istanbul

C'è un paese in Europa con una crescita economica a livello “cinese”. Anzi, che cresce più della Cina stessa. E' la Turchia che nei primi tre mesi dell'anno ha fatto registrare una crescita del Pil dell'11%: più di ogni altra economia al mondo. Come per la Cina però, questo dato, solo la metà del quale farebbe gridare al miracolo qualunque altro Paese del Vecchio Continente, invece di provocare reazioni entusiaste suscita timori e preoccupazioni.
Il disavanzo corrente è arrivato ormai all'8% del Pil, mentre i dati sul deficit commerciale di maggio confermano l'estrema dipendenza dell'economia turca dall'estero. Il deficit ha superato, infatti, i 10 miliardi di dollari, più del doppio rispetto a un anno fa, con una crescita delle importazioni del 43%, mentre le importazioni sono cresciute solo del 12%. Il fatto è che la crescita è basata sulla domanda interna finanziata da un'espansione del credito a sua volta alimentato da investimenti speculativi dall'estero.
Tusiad, la Confindustria turca, non pare più di tanto preoccupata e conferma la previsione di una crescita ridimensionata al 6,6% per l'intero 2011 e, pur senza drammatizzare, segnala qualche disagio. La scorsa settimana la banca centrale ha mantenuto i tassi fermi, ma ha chiesto al governo di Recep Tayyip Erdogan una "maggiore disciplina fiscale (...) essenziale per controllare il deficit corrente alimentato dalla disparità tra domanda interna ed estera".
Per ora non c'è motivo di allarme, spiega all'agenzia TmNews Fabio Mucci, analista di Unicredit. Taylan Biginc, editorialista di Hurriyet Daily News, fa notare, però, che ”i turchi spendono, cavalcando l'onda di una crescita finanziata a credito, e se la godono, mentre le autorità non hanno alcuna intenzione di rovinare la festa".
E' di certo prematuro affermare che l'economia turca è sfuggita al controllo del governo e della banca centrale, ma intanto, come ha scritto oggi il Financial Times, è certo che un tale surriscaldamento rappresenta per i politici "più un mal di testa che una causa di soddisfazione".

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