(già pubblicato su L’Indro. anche sulla politica estera turca, purtroppo, circolano analisi a dir poco “approssimative”)
Gli ambasciatori turchi si sono riuniti per la quinta volta consecutiva – prima ad Ankara e poi a Izmir, dal 2 al 7 gennaio – per un’analisi approfondita degli ultimi sviluppi internazionali, per una valutazione dei risultati ottenuti nel 2012, per il rafforzamento del coordinamento tra le varie istituzioni che assicurano l’applicazione della visione di politica estera di Ahmet Davutoğlu: l’ideologo dello ‘stato centrale’, della ‘profondità strategica’, degli ‘zero problemi’che – come Ministro dal 2009 – sta assicurando alla Turchia un più ambizioso e propositivo ruolo regionale e globale.
Il tema designato era quello della ‘diplomazia umanitaria’: migliori servizi per i propri cittadini, soprattutto all’estero; aiuti tempestivi e mirati nelle aree di crisi; dimensione umanitaria, considerata oggi inefficace e sottodimensionata, del sistema delle Nazioni unite. I numeri sono eloquenti: gli aiuti all’estero della Turchia sono passati da 85 milioni di dollari nel 2002 a 3 miliardi e mezzo di dollari – in più di 100 paesi – nel 2012. La Somalia è stata discussa come success story della diplomazia umanitaria turca: soft power da manuale, per chi ha cominciato a presentarsi come “potenza virtuosa”.
La conferenza degli ambasciatori turchi ha avuto anche – oltre al premier Erdoğan e a numerosi Ministri – degli ospiti stranieri: ad Ankara, il Ministro degli esteri di Singapore, Shanmugam; a Izmir, il collega brasiliano Patriota e quello svedese Bildt. Insieme a Davutoğlu, questi ultimi hanno dato vita alla Trilaterale della solidarietà per costruire la pace: un’iniziativa politica – al momento molto informale – per cambiare la struttura e il funzionamento del sistema internazionale.
La politica estera della Turchia, nella sua dimensione globale, è dichiaratamente trasformativa: reclama costantemente più equità e rappresentatività, ha preso parte alla formazione del G20 come alternativa al G8, si è fatta paladina degli stati meno sviluppati (Ldc) in seno all’Onu, promuoverà un tavolo Ldc-G20 quando sarà presidente di turno nel 2015, auspica una riforma inclusiva del Consiglio di sicurezza dell’Onu, cerca di neutralizzare le derive da guerra di civiltà attraverso l’iniziativa turco-spagnola – sempre sotto l’egida dell’Onu – dell’Alleanza delle civiltà, proprio al Consiglio di sicurezza è candidata a un seggio non permanente – un referendum sulla popolarità conquistata – per il biennio 2015-2016 (dopo l’esperienza ravvicinata del 2009-2010, eletta con 151 voti). Ha avviato una riforma robusta del ministero: per mettersi al passo coi tempi, per dotarsi degli strumenti – risorse, personali, sedi all’estero – necessari alla sua nuova politica estera; una politica estera di sistema: attenta agli affari per merito delle organizzazioni imprenditoriali, allo sviluppo attraverso l’agenzia Tika, alla cultura grazie all’istituto Yunus Emre, alle connessioni globali per mezzo della compagnia di bandiera Thy (Turkish Airlines).
L’iniziativa trilaterale di Brasile, Svezia e Turchia è molto poco strutturata: consultazioni periodiche e informali tra i ministri degli esteri – la prima lo scorso autunno ai margini dell’Assemblea generale dell’Onu, organizzata dalla rivista Monocle – sui temi di grande rilevanza globale; ad esempio, a Izmir Patriota, Bildt e Davutoğlu hanno parlato di Palestina e ‘risveglio arabo’, della crisi economica globale e delle sue ramificazioni politiche, di terrorismo e cambiamento climatico, di libertà digitali e proliferazione nucleare: sfide globali che richiedono risposte di sistema. In effetti, i tre paesi a prima vista non sembrano avere moltissimo in comune, a partire dalla collocazione geografica; il Brasile e la Turchia sono però leader regionali e potenze – economiche e politiche – in divenire e hanno già strettissimi rapporti: hanno ad esempio creato un Alto consiglio di cooperazione strategica già nel 2006, hanno collaborato diplomaticamente sul dossier nucleare iraniano.
Nel comunicato diffuso dopo la conferenza stampa congiunta, i tre ministri hanno manifestato la volontà di “svolgere un ruolo sempre più attivo sia nella propria regione sia su scala globale” e di coordinarsi “per costruire la pace e promuovere valori comuni”; la distanza geografica – dall’Amazzonia all’Anatolia, passando per l’Artico – non è percepita come un ostacolo: perché viene “ridotta alla luce della vicinanza tra le loro idee, visioni e aspirazioni”. Pensano che il loro sforzo collettivo “può fare la differenza”: ma sono ovviamente attesi alla prova dei fatti. Per Davutoğlu – così in un’intervista nell’ultimo numero di Monocle – è già l’adozione di un metodo condiviso a rappresentare di per sé una svolta positiva: “la sostanza può essere il Medio oriente, può essere un programma nucleare, può essere i Balcani, può essere altri problemi; ma i metodi sui quali concordiamo – il soft power, l’approccio multilaterale, l’empatia nelle relazioni internazionali – sono importanti quanto la sostanza dei problemi”.
La trilaterale della solidarietà non è un’iniziativa estemporanea e isolata, ma fa parte della grande strategia turca fondata sulla ‘potenza dolce’ (che non vuol dire, ovviamente, abdicazione dall’hard power anche quando necessario: e ci mancherebbe!): di cui uno degli elementi portanti è l’iniziativa internazionale sulla mediazione; lo ha ribadito il capo della diplomazia di Ankara in una recente visita a Helsinki, perché proprio la Turchia e la Finlandia sono le promotrici – dal 2010 – del progetto ‘Amici della mediazione’ in ambito Onu che ha finora acquisito la partecipazione di altri 32 paesi e prodotto due risoluzioni dell’Assemblea generale (in allegato a quella del 2012, una ‘guida per la mediazione efficace’), che ha l’obiettivo ultimo di rendere la mediazione internazionale lo strumento principale di prevenzione e risoluzione dei conflitti, che ha l’obiettivo più immediato dell’istituzione a Istanbul di un centro internazionale sulle mediazioni. Un progetto autenticamente globale, per Davutoğlu necessario al superamento della dicotomia ‘West vs. the Rest’: e che è basato sul costante coinvolgimento di diplomatici turchi in numerose crisi regionali, con risultati a volte eccellenti come tra Afghanistan e Pakistan e nei Balcani (nel caso della mediazione tra Siria e israele, invece, i risultati sono stati disastrosi).
Giusto un anno fa, i Ministri degli esteri di Turchia, Finlandia e Brasile si sono confrontati a Istanbul con alcuni dei maggiori esperti internazionali di risoluzione dei conflitti: un evento di grande spessore accademico, nel corso del quale Davutoğlu ha esposto la sua visione e raccontato qualche aneddoto (soprattutto di quando era il consigliere di Erdoğan e non ancora Ministro: posizione defilata che gli consentiva maggior spazio di manovra, senza pressioni mediatiche). La Turchia è nei fatti coinvolta da tutti i maggiori terremoti geopolitici degli ultimi 20 anni: la fine dell’Unione sovietica (1991), la guerra globale al terrorismo dopo l’11 settembre (2001), il risveglio arabo e la crisi economica europea e mondiale (2011); il contributo di Ankara alla risoluzione – e meglio ancora, alla prevenzione – dei conflitti è una necessità, prim’ancora che una scelta.
Per il ‘Kissinger turco’, la mediazione efficace è basata sul corretto approccio in quattro diverse dimensioni: quella psicologica, che per Davutoğlu conta al 60%, in cui bisogna empaticamente creare fiducia reciproca e nella possibilità di una soluzione favorevole; quella intellettuale, che presuppone una conoscenza minuziosa dei dossier e l’esistenza di una visione, di una prospettiva da presentare alle parti (nel caso di Israele e Siria, ad esempio, la visione del ministro era di poter viaggiare liberamente in auto da Gerusalemme a Damasco); quella etica, in cui il mediatore deve ispirarsi a principi comuni e non difendere i propri interessi, facendo prova di neutralità, di oggettività, di sincerità; in fine il metodo: l’inclusività, la scelta del buon momento, la concentrazione temporale e spaziale dei negoziati, l’isolamento da pressioni esterne. Teoria e pratica: e utili lezioni tratte dagli inevitabili insuccessi.
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