In Turchia, il dibattito politico degli ultimi giorni è stato dominato dalla solita strumentalizzazione mediatica trasformata in devastante polemica. Presentando alcuni grandiosi progetti d’irrigazione a Konya, il 16 dicembre, il premier ha sostenuto che il governo potrebbe offrire molti più servizi senza l’atteggiamento ostile della magistratura e della burocrazia e ha parlato di “una separazione dei poteri” che non funziona. Apriti cielo! E questa affermazione è diventata la prova che Erdoğan è contro la separazione dei poteri, che è autoritario, che vuole la dittatura, che è la reincarnazione di Putin (ancor prima della sua morte); l’opposizione kemalista, il Chp, ha perfino mandato una letterina a Bruxelles per lamentarsi di quant’è pericoloso il primo ministro. Vabbè!
Che poi, in effetti, se passerà la riforma presidenziale voluta dall’Akp un rischio notevole di sbilanciamento del sistema in senso autoritario c’è eccome: l’attuale legge elettorale – proporzionale di collegio a liste bloccate – darebbe a un eventuale presidente capo dell’esecutivo eletto a suffragio universale e leader di partito la possibilità di controllare simultaneamente governo e parlamento. Un rischio assolutamente da evitare.
Ieri è arrivata la pungente risposta di Erdoğan. Se l’è presa – e giustamente! – coi media che hanno travisato le sue parole, ha riaffermato – ma ce n’era davvero bisogno? – che il principio della separazione dei poteri è la base di ogni sistema democratico e che l’Akp intende rispettarlo, ha lanciato una bella frecciata al leader dell’opposizione Kılıçdaroğlu: ricordandogli che il suo partito – il Chp kemalista – è stato fautore dell’unione dei poteri nella prima fase della repubblica e che la sola separazione dei poteri che conosce – a partire dal colpo di stato del 1960 – è quella tra esercito, aviazione e marina (militare).
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