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La vendetta del Negro (parte 2)

Creato il 29 febbraio 2012 da Davide

Dicevo di Radici, il romanzo di Alex Haley, free-lance per il The New York Times magazine, Playboy e Reader’s digest. Haley fu anche co-autore della Autobiografia di Malcolm X (1965). Il suo libro più conosciuto è Radici pubblicato nel 1977, dal quale è stata anche tratta un’omonima miniserie televisiva del regista Gilbert Moses. Radici, che è molto di più che una semplice saga familiare, racconta la storia dei suoi antenati della parte materna a partire da Kunta Kinte, l’africano catturato nell’attuale Gambia nel 1767 e deportato negli Stati Uniti come schiavo. Sfortunatamente, dopo una causa in tribunale, risultò che gran parte del materiale era stato copiato da un altro romanzo, The African e Haley dovette patteggiare un congruo risarcimento. Però nel frattempo Radici era stato tradotto in 37 lingue e la miniserie aveva raggiunto almeno 130 milioni di spettatori. Haley e il suo romanzo, in cui era ricostruita in modo fantasioso la genealogia di una famiglia africana, diede non solo la stura alla ricerca storiografica per ricostruire la storia ‘nera’ e agli African Studies, ma soprattutto a un particolare turismo della memoria. Un bell’articolo di Bruner (BRUNER, EDWARD M. 1996. Tourism in Ghana. The Representation of Slavery and the Return of the Black Diaspora. American Anthropologist 98:290-304) descrive il rapporto tra i turisti afro-americani che vanno a visitare il Castello di Elmina in Ghana, dove stavano gli schiavi prima di essere imbarcati, e i ghanesi. I turisti afro-americani arrivano al castello e si lasciano spesso andare a scene di grande sfoggio emotivo e pretendono che il luogo sia considerato area consacrata da non lasciar dissacrare da altri turisti. I ghanesi, che ci hanno costruito sopra un bel business, chiamano i turisti afro-americani obruni, parola che indica sia l’uomo bianco che lo straniero. E i ghanesi si guardano bene dal dire che il nome del loro paese era stato scelto in riferimento all’antico Impero del Ghana, esteso durante l’alto medioevo in gran parte dell’Africa occidentale e che basò la sua potenza sul commercio dell’oro, delle spezie e degli schiavi con gli arabi. L’attuale Ghana, ex Costa d’Oro coloniale era la sede dell’Impero Ashanti, che si basava anch’esso sul commercio dell’oro e degli schiavi, prima con gli arabi, poi con i portoghesi, e infine con gli inglesi finché questi non abolirono il commercio degli schiavi con metodi assai spicci ed efficaci.
Il rapporto tra afro-americani e africani non è stato mai un granché: soprattutto sulla costa nordorientale, esistevano colonie di africani dal Capo Verde imbarcati come marinai liberi nelle baleniere (come uno dei fiocinieri di Moby Dick), che si sposavano con altri membri delle comunità marinare, composte da inglesi, portoghesi e nativi americani. Non stupiva l’osservatore onesto, perciò, dopo aver approfittato per mettere a ferro e fuoco interi quartieri contro gli abusi della polizia negli anni 1980, che quando uno studente capoverdiano venne ucciso senza motivo da un poliziotto newyorkese, nessuno alzò un cerino, ma neppure un dito. Intanto le università cominciavano ad aprirsi a una nuova popolazione di colore nero, ma assai diversa. Mentre molti posti erano riservati, grazie alla politica della affermative action, a studenti afro-americani a scapito di altre etnie, molti studenti africani si laureavano senza aiutino legale. E’ il periodo in cui molti afro-americani cominciano ad occupare posti di giudice, sindaco o capo della polizia e cominciano a chiedersi se l’aiutino legale non li danneggi, dato che una laurea presa con l’affirmative action è svalutata sul mercato. Tuttavia, nel campo degli African Studies e grazie alle cattedre etniche, molti professori afro-americani cominciano ad elaborare teorie afro-centriste, in cui sostengono il grande complotto euro-arabo per nascondere le grandi conquiste dei Mande (una etnia dell’Impero del Ghana) e i grandi personaggi della ricostruita storia africana, come l’imperatore romano Settimio Severo, Cleopatra ecc. E’ una storia tutta interna alle università ‘nere’ a cui gli africani non partecipano, anzi. Studenti africani intervistati si dichiaravano allibiti dalle preoccupazioni afro-americane con la razza. Gli africani erano abituati a parlare in termini tribali o di classe, ma certamente non di razza.
E così arriviamo ai giorni nostri, con un presidente di origini africane del Kenya, non afro-americane come certi reverendi neri ci tennero a dichiarare all’inizio della sua campagna elettorale. Oggi esponenti degli ‘afro-americani’ rifiutano la parte afro- dell’aggettivo. Molti cominciano a dire quello che ha affermato Herman Cain, ex candidato alle primarie repubblicane  e magnate del junk food: ‘Io non sono afro-americano. Io sono americano, sono nero e per di più sono conservatore. Non mi piace la gente che vuole etichettarmi’. Cain fa parte di quel grosso segmento di borghesia nera che ha rotto il patto elettorale con i Democratici e vota repubblicano almeno dagli anni 1990. Ma non è finita qui: il Censimetno del 2010 decise di ammettere anche la dicitura ‘negro’ accanto a quella di ‘black’ e di African-American’ perché moltissimi anziani continuavano a definirsi tali e non avevano mai accettato le nuove versioni politicamente corrette. Poi ci sono quelli che sono di origine africana caraibica e non sentono una grande affinità con gli ‘afro-americani’ direi classici: ci sono quelli delle West Indies britanniche che (abbastanza giustamente) si sentono degli ‘aristocratici’, dato che la maggior parte degli intellettuali afro-americani di maggior impatto venivano o vengono da là. Poi ci sono gli haitiani francofoni e i dominicani ladino (ispanofoni), eccetera. E infine ci sono quelli che vengono dall’Africa, le nuove ondate migratorie dal Continente nero, che non condividono né storia né ubbìe, che se sono musulmani sono quelli ‘veri’, gli originali e non hanno niente a che fare con le mitologie razziste dei seguaci di Farrakhan. E, dulcis in fundo, dato che negli USA è lecito avere diritto a un’identità etnica composita che riverbera anche nelle diciture dei censimenti e in altri moduli burocratici, uno ha diritto a definirsi non semplicemente afro-americano, ma anche caraibico-haitiano, se entrambi i genitori sono haitiani, ma se per caso uno dei due non lo è, si può rivendicare, per esempio, di essere anche portoghese-capoverdiano-nigeriano-eccetera. La scrittrice Joan Morgan preferisce definirsi Caribbeam-American negro. Alla fine, come dicono certi vecchi, è meglio tornare a ‘negro’ e sentirsi semplicemente americani, mentre un sondaggio rivela che quasi la metà degli intervistati ‘di colore’ ha divhiarato di detestare la qualifica di Afro-americano, lanciata nel firmamento modaiolo politically correct all’epoca della candidatura del Reverendo Jesse Jackson per i Democratici nel 1988.


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