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La vera origine delle gemme spaziali

Creato il 18 novembre 2012 da Stukhtra

Tutta colpa di un impatto

di Barbara Scrocchi

Chi di noi non è mai stato attratto dai meteoriti precipitati sulla Terra? Chi da bambino non ha mai fantasticato su questi frammenti provenienti da chissà dove nello spazio? Molti scienziati hanno focalizzato la loro attenzione sulle pallasiti, forse i meteoriti più belli, composti da cristalli trasparenti di olivina (di una colorazione giallo-verdognola) che lasciano filtrare la luce. Insomma rare gemme spaziali. Ma qual è la loro origine?

La vera origine delle gemme spaziali

Uno dei 61 ritrovamenti di pallasite: la pallasite di Esquel. (Cortesia: Arizona Skies Meteorites, M. Cavina)

Finora si è pensato che le pallasiti si formassero tra il nucleo ferroso e il mantello roccioso di certi pianeti o asteroidi, dove l’olivina potesse raffreddarsi lentamente per permettere la formazione dei cristalli che la caratterizzano. Ma a rivelarci il segreto di queste gemme spaziali è un nuovo studio pubblicato su “Science” il 16 novembre e curato da John Tarduno, dell’Università di Rochester, negli Stati Uniti, e dai suoi collaboratori. La nascita delle pallasiti risale all’impatto tra un asteroide con un pianeta grande all’incirca un trentesimo della Terra, creando il mix di materiali che compone questi meteoriti. “Il ferro fuso del nucleo dell’asteroide più piccolo si inietta nel mantello del corpo più grande, creando la trama che ora osserviamo nelle pallasiti”, spiega Francis Nimmo, dell’Università della California a Santa Cruz.

Tarduno ha notato che i granelli di olivina che compongono tali meteoriti sono magnetizzati nella stessa direzione: una proprietà incompatibile con la vicinanza al nucleo della teoria precedente. Questa contraddizione ha portato lo scienziato e i suoi collaboratori a pensare che le temperature tra nucleo e mantello fossero troppo alte (930 Celsius) per una tale magnetizzazione, dunque che le pallasiti dovessero formarsi più in superficie. Fondamentale è stata la tecnologia che ha permesso, attraverso lo studio dei granelli metallici delle gemme, di risalire al raggio, pari a 200 chilometri, del corpo contro il quale è andato a schiantarsi l’asteroide. Corpo che Tarduno, per le dimensioni, classifica come protopianeta.

Anche Joshua Feinberg, geologo dell’Università del Minnesota, conferma l’importanza della scoperta: “L’analisi delle pallasiti ha aiutato in modo significativo a ridefinire la nostra visione di come questi oggetti si siano formati ai primordi del Sistema Solare”.


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