La cintura di castità conservata nei musei veneziani
Si è soliti pensare alla cintura di castità come allo stratagemma utilizzato da mariti gelosi, per non consentire alla propria consorte di vivere esperienze extraconiugali. In realtà, le analisi compiute sulla cintura di castità conservata presso il Museo di Palazzo Ducale a Venezia, rivelano che la sua finalità era un'altra: proteggere le donne dagli assalti nemici e non far sì che venissero stuprate, causando la nascita di figli indesiderati. In pratica la cintura di castità era una specie di mini armatura, concettualmente riconducibile a quella tradizionale indossata dai mariti durante i combattimenti. Come si è arrivati a queste conclusioni? Valutando le caratteristiche del lucchetto romano, col quale venivano “saldate” le varie parti dell'oggetto; verificando che la cintura di castità era in grado di proteggere solo l'organo vaginale; considerando, infine, che non sarebbe stato possibile indossarla per troppo tempo se non correndo il rischio di ammalarsi seriamente. Nel primo caso il riferimento è a un particolare lucchetto che non sigillava completamente la cintura di castità, ma serviva solo a ritardarne l'apertura; in pratica rendeva impossibile sbrigare in fretta e furia un rapporto (quindi impediva lo stupro), ma non vietava all'indossatrice di liberarsene in tutta tranquillità una volta scampato il pericolo. Il lucchetto romano era fissato con una specie di punteruolo che chiunque, dopo un po' di lavorio manuale, sarebbe stato in grado di divellere. D'altra parte è altrettanto significativo che se la cintura di castità fosse nata davvero per impedire a una donna di tradire il consorte, avrebbe assunto una forma diversa: in particolare sarebbe stata forgiata in modo tale da impedire qualunque tipo di penetrazione. E invece è chiaro che – così com'era caratterizzata - “riparava” solo la parte legata alla riproduzione. Infine va analizzato il fatto che, la cintura di castità tipica dell'immaginario collettivo, è quella che le potenziali fedifraghe avrebbero dovuto indossare per tutto il tempo di lontananza del marito impegnato in una missione di guerra. In realtà questo aspetto avrebbe comportato l'insorgenza di pericolose infezioni, dovute alla scarsa igiene causata dall'impossibilità di pulirsi adeguatamente, e quindi non è accettabile. La cintura di castità poteva, dunque, essere indossata al massimo per qualche giorno, giusto il tempo per proteggersi da eventuali assalitori o per compiere un viaggio in tranquillità. La cintura di castità presente nel Museo veneziano è quella descritta da Konrad Kyeser, un ingegnere tedesco del Quattrocento, autore del Bellifortis, un trattato sulle macchine d'assedio, dal quale prese spunto anche Leonardo Da Vinci. Il manoscritto risale al 1405 e illustra la cintura di castità che Francesco II di Carrara, tiranno padovano, impose alla moglie secondo le leggende di una bellezza eccezionale. Queste nuove conclusioni sfatano così il mito della cintura di castità legata ai cavalieri medievali che durante le crociate si assentavano per parecchio tempo, e che per assicurarsi la fedeltà delle mogli, le obbligavano a indossare l'ingombrante oggetto. La cintura di castità era caratterizzata da una fascia pubica metallica collegata a una banda dello stesso materiale che avvolgeva la vita della donna da “proteggere”. L'interno era rivestito di velluto o pelle, così da non provocare escoriazioni e ferite. È invece della fine del XIX secolo la cintura di castità maschile, nata principalmente per impedire la masturbazione, all'epoca considerata anticamera di cecità e pazzia.Magazine Scienze
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