La zona del Nord Est del Bangladesh è senza dubbio una delle più affascinanti dell’intero Paese: selvaggia, culturalmente interessante e tappezzata di verdissime piantagioni di tè. Un posto ideale per godersi paesaggi pittoreschi, foreste quasi incontaminate e per conoscere nuove culture tribali.
Mi fermo qualche giorno a Sylhet, città moderatamente squallida che però è decisamente più “cosmopolita” e meno arretrata delle altre che ho visto finora in Bangladesh. La ragione principale è che questa città è il principale centro dell’emigrazione verso il Regno Unito e quindi molti hanno portato in patria idee, usanze e valori della società occidentale. Sylhet non è certo una città con particolari bellezze turistiche, ma ci sono un paio di cose abbastanza strane che meritano di essere viste. Nei dintorni ci sono anche delle piantagioni da tè, ma ho deciso di visitare invece quelle di Srimangal che in teoria dovrebbero essere più belle e accessibili.
Il santuario del famoso Santo Sufi Hazrat Shah Jalal è uno dei più importanti del Bangladesh ed è sempre affollato di pellegrini. L’atmosfera è abbastanza particolare, è un mix tra quella di una moschea e quella di un tempio indù, e c’è parecchia gente strana. Le donne non sono ammesse alla tomba del Santo, e forse nemmeno i non musulmani, ma nessuno mi ha minimamente considerato. C’è una grande vasca con degli enormi pesci-gatto che in realtà per i pellegrini sono degli stregoni della magia nera, che secondo la leggenda il Santo trasformò in pesci quando sconfisse il locale Raja indù nel 1303. Un’altra cosa molto bizzarra di Sylhet è il Keane Bridge, dov’è c’è un assurdo ingorgo continuo di rickshaws. Per raggiungere il ponte bisogna fare un pezzo in salita e ai lati ci sono dei tizi che vengono pagati dai wallah pochi centesimi di euro per spingere i rickshaws.
Sylhet sarà anche cosmopolita per gli standard del Bangladesh, ma gli stranieri sono rarissimi, cosa che non si può dire per Srimangal. Non la definirei certo “turistica”, ma dopo aver visto solo due altri stranieri in quasi un mese di viaggio in questo Paese mi è sembrato strano vederne almeno una dozzina in una città piccola come questa. Una coppia di inglesi che incontrerò da un tizio che noleggiava le mountain bike mi confermerà questa mia impressione, anche loro erano in viaggio in Bangladesh da più di un mese e non avevano incontrato altri stranieri prima di raggiungere questa città.
A Srimangal si viene principalmente per due motivi: visitare le vicine piantagioni da tè e andare a fare escursioni nel parco di Lawachara. Tutto molto bello, è un giro da fare assolutamente in bici, ma niente di nuovo se si è familiari con posti simili nell’Asia del Sud. Le piantagioni da tè non sono poi molto diverse da quelle dello Sri-Lanka o del Kerala ( anche se la zona è più pianeggiante ), con tante donne indù che ci lavorano con sarees coloratissimi e un’atmosfera molto serena che ispira pace e meditazione. Tra le specialità della zona c’è il tè multicolore, una delle cose più strane che abbia mai bevuto.
Il parco è più selvaggio di quanto mi aspettassi, vera giungla, e ho anche intravisto alcuni animali. C’erano dei gibboni che sentivo vicinissimi però non sono riuscito a vedere che qualche ciuffo di pelo tra gli alberi. La città mi è piaciuta, la folta comunità induista l’ha trasformata in un luogo a metà tra l’India e il Bangladesh, e in più c’erano un paio di ottimi ristoranti “pure veg” che facevano thali e parothe spettacolari.
L’arrivo a Dhaka è stato come me l’ero immaginato: l’autobus mi ha mollato in mezzo ad un assurdo incrocio dove centinaia di auto, camion, rickshaws e persone erano tutti incastrati in un incredibile ingorgo inestricabile. Fermo un wallah e gli dico di portarmi in una piazza che dovrebbe essere vicino all’hotel che mi sono segnato. Un’ora per fare qualcosa tipo 3 chilometri, tra nuvole di polvere e di fumi di gas di scarico, sotto un sole implacabile. Fortunatamente l’hotel ha stanze disponibili e non devo andare in giro a casaccio a cercare una sistemazione in mezzo a questo casino.
Dopo un buon thali al ristorante sotto l’hotel vado a farmi un primo giro di perlustrazione. A Dhaka vivono circa 20 milioni di persone e la prima impressione è che siano tutti sulle strade, così come i 600 mila rickshaws ( e anche queste cifre sono tutte da verificare, c’è chi dice che siano molti di più ). L’espressione che spesso guide e giornalisti usano per descrivere Dhaka è “un vortice”, e in effetti non è un luogo comune: l’impressione che si ha quando si gira in questa città è proprio quella di essere caduti in un enorme vortice di cose e persone senza sapere se e come si riuscirà ad uscirne.
Dhaka è la classica città non bella, molto decadente e degradata, con qualche monumento anche interessante ma che non ti lascia certo senza fiato, ma estremamente affascinante. Non è fascino artistico ma soprattutto umano: in qualche modo ti senti parte di questa umanità e riesci a percepirne chiaramente lo spirito e l’umore.
Come è facile immaginare i problemi di questi città sono molti e complessi: povertà, emarginazione, condizioni di lavoro molto vicine alla schiavitù, inquinamento, analfabetismo, sfruttamento dei bambini e discriminazione delle donne. Questo “vortice” agisce senza pietà, e tra quelli che arrivano dalle campagne in cerca di fortuna molti finiscono inghiottiti e quindi abbandonati alla disperazione nelle strade della città. Chi ha un lavoro è tra i fortunati, ma i salari sono tra i più bassi del mondo ( in media 50 euro al mese per 12 ore di lavoro al giorno ) e in pratica non esistono diritti, le condizioni sono simili a quelle dell’Europa dell’800. E’ vero che anche il costo della vita è basso, ma non così basso da consentirti di fare un vita dignitosa con pochi euro al giorno.
Il traffico a prima vista potrebbe sembrare terribile, ma se arrivi da qualche grande metropoli indiana non ti colpisce più di tanto: è vero che è assurdo ma la velocità dei mezzi spesso non supera il passo d’uomo ( mentre in una Calcutta ci sono autobus e mezzi che viaggiano a velocità paurose ), gli incidenti sono pochi e girare a piedi è più facile che in molte grandi città indiane.
E’ una città sempre in movimento, in forte crescita, viva e in fermento come poche altre capitali del mondo. Ci sono molti cantieri e molte zone della città stanno cambiando velocemente, mi è parso evidente che in mezzo ai tanti miserabili c’è anche gente che sta facendo molti soldi.
Dal mio punto di vista le cose più belle sono quelle non propriamente turistiche:
le affollatissime stradine della città vecchia, dove ti sembra davvero di essere in un film di bollywood in salsa musulmana, tra ingorghi di rickshaws, donne velate, bambini nudi e uomini barbuti ; il porto sul fiume Buriganga, un luogo unico ed estremamente suggestivo, soprattutto al tramonto ; i mercati, dove si vende di tutto, dalle magliette ai jeans falsi alle spezie e dove si incontra tanta gente simpatica ; le oscure botteghe degli artigiani, dove la gente lavora con gesti pazienti tramandati da generazioni sempre uguali da secoli.
Questa sarà anche una città degradata e deprimente ma è anche molto colorata, il grigio dell’asfalto e del cemento sono ben bilanciati dalle fantasie dei tessuti appesi ovunque, dai disegni sui rickshaw, dalle coloratissime insegne dei negozi. Mentre ero in città si festeggiava l’holi, la famosa festività indù, e tutto il quartiere indiano della città vecchia era in festa, con la gente che si faceva i gavettoni di colore e vernice tra gli sguardi perplessi dei musulmani in longhi e camicia bianca.
Dhaka e in generale il Bangladesh mi hanno colpito e affascinato. Non è un Paese per turisti in cerca di “attrazioni” o siti Unesco, spiagge tropicali o tribali pronti a mettersi in posa per le foto, è più un mondo diverso da scoprire, una realtà complicata da conoscere, un popolo interessante col quale confrontarsi .