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La verità e l’interpretazione: l’auto-contraddizione dei relativisti

Creato il 19 dicembre 2011 da Uccronline

La verità e l’interpretazione: l’auto-contraddizione dei relativistiIn principio, per ogni persona che dà un giudizio su un evento o ragiona di un argomento, c’è una visione del mondo e della vita. È il sistema di idee in cui uno crede, sul quale conforma il suo modo d’interpretare le esperienze che fa. Per esempio, la maggior parte di noi (fanno eccezione alcuni scienziati in stato confusionale e i bambini) non crede che le cose possano apparire dal nulla e se assistiamo allo spettacolo di un prestigiatore che fa apparire improvvisamente qualcosa sappiamo che c’è un trucco sotto. Non tiriamo questa conclusione a causa di ciò che abbiamo visto, ma perché è l’unica spiegazione compatibile con la nostra visione delle cose: il sistema delle nostre credenze si è ripercosso sull’interpretazione di ciò che abbiamo osservato. Un bambino trae una conclusione differente perché non ha ancora abbastanza esperienza da sapere che nessuno ha il potere di far apparire le cose dal niente. Adulti e bambini, tutti hanno fatto la stessa esperienza, ma gli uni e gli altri ne hanno dato una diversa interpretazione.

La visione che abbiamo delle cose è un vero e proprio pregiudizio: un “pre-giudizio” è un giudizio presente prima dell’evidenza empirica, è consolidato nel tempo e c’impedisce di avere la mente del tutto aperta. Ciò non è necessariamente uno svantaggio: nel caso sopra, la visione adulta aiuta a tirare la conclusione giusta, perché esclude la possibilità che una cosa possa apparire dal niente; il bambino, invece, trae la conclusione errata perché ha il pregiudizio errato che i maghi possano fare ciò che è impossibile alla gente comune. Se consideriamo l’insieme di tutti i nostri assunti, non solo di quelli cui adattiamo la nostra quotidiana esperienza, ma anche delle verità più grandi su cui basiamo le nostre scelte etiche e religiose, e più in generale la nostra visione del mondo e della vita, allora si parla di Weltanschauung. La Weltanschauung è la personale visione del mondo di ognuno: “Essa è qualcosa di totale e universale a un tempo. […] Le visioni del mondo sono idee, manifestazioni supreme ed espressioni totali dell’uomo. […] Le posizioni ultime che l’anima occupa, […] le forze che la muovono” (K. Jaspers, “Psicologia delle visioni del mondo”). È un fatto che noi uomini siamo in grande disaccordo sulle assunzioni più importanti: l’esistenza di Dio, la natura della verità, l’origine dell’Universo, il senso della vita, l’esistenza di leggi morali naturali, ecc. E quando la gente è in disaccordo sugli assunti fondamentali, come si può determinare la giusta Weltanschauung?

Consideriamo un’osservazione scientifica, quella dei moti celesti. Secoli fa si credeva in un modello geocentrico elaborato dal greco Tolomeo (II sec. d.C.), basato sull’assunto che il Sole ed i pianeti girassero intorno alla Terra. Oggi invece, la maggioranza della gente è di fede copernicana, perché crede nel modello eliocentrico proposto dal polacco Nicolò Copernico (1473-1543), secondo il quale sono i pianeti (inclusa la Terra) a orbitare intorno al Sole. Qualcuno potrebbe pensare che sia facile decidere tra i due modelli astronomici, che basti l’evidenza sperimentale per stabilire come si muovono i pianeti. Ma dove ci dovremmo collocare nello spazio per decidere che cosa si muove rispetto a che cosa?! In realtà, ciò che avviene nella nostra testa segue l’ordine opposto: è il modello pre-giudiziale che interpreta l’esperienza. Certo, la geometria dei moti planetari è compatibile con l’eliocentrismo, ma questi moti erano ben conosciuti anche nell’antichità e Tolomeo li poté spiegare entro la sua visione geocentrica con speciali assunzioni ad hoc: egli postulò che ogni pianeta orbitasse lungo una piccola circonferenza (“epiciclo”) che a sua volta girava in una circonferenza più grande (“deferente”) intorno alla Terra. Nella sua visione, i pianeti orbitano intorno alla Terra spiraleggiando e ciò spiegava per lui l’evidenza osservata. Per giunta, il modello di Tolomeo è capace di predire le posizioni dei pianeti con un’accuratezza matematica uguale a quella del modello eliocentrico, a dispetto che sia sbagliato!  Un momento: perché sbagliato?
Dove sta la differenza tra le due visioni scientifiche concorrenti, per cui deve preferirsi l’una all’altra? Una differenza è che il modello eliocentrico è più semplice del geocentrico: richiede soltanto circonferenze, mentre il suo concorrente richiede anche gli epicicli. Inoltre Tolomeo non spiegava perché la Luna non avesse l’epiciclo e ruotasse direttamente intorno alla Terra come il Sole, né sarebbe riuscito ad interpretare i moti dei satelliti degli altri pianeti se solo li avesse potuti avvistare, senza introdurre altri accorgimenti matematici oltre gli epicicli. Questa è la lezione: un’interpretazione scientifica è preferibile se richiede un minor numero di ipotesi ad hoc per adattarsi ai fatti e allo stesso tempo spiega più fatti e con maggior precisione. È questo il principio del rasoio di Occam, alla base del metodo scientifico.

Nelle scienze le interpretazioni si chiamano modelli. Un modello deve essere logicamente coerente al suo interno (non deve fare predizioni opposte!) e col minor numero di pre-assunzioni deve spiegare il maggior numero di osservazioni con gli errori minori nelle predizioni delle misure. Un insieme poi di modelli coerenti, in grado di spiegare un vasto dominio di fenomeni, forma una teoria. Tali sono, per es., la teoria della gravitazione in fisica, o dell’evoluzione in biologia, o della tettonica a placche in geologia. Così, il modello eliocentrico può rientrare nella teoria della gravitazione di Newton, che con i suoi pochi assiomi (matematicamente codificati in un’equazione vettoriale) spiega un numero maggiore di evidenze sperimentali del modello copernicano da solo: la teoria newtoniana spiega anche le tre leggi di Keplero, la caduta di una mela, le traiettorie dei proiettili, le maree, ecc. Nella Weltanschauung del cristiano il mondo con le sue leggi è stato creato da Dio e l’uomo, creato con la ragione a somiglianza di Dio, può attingere a quelle leggi. Nessuna meraviglia, quindi, che la fede nell’esistenza di quelle leggi e nella possibilità di conoscerle abbia dato origine in Occidente, nelle università cristiane medievali, alla ricerca scientifica così come oggi la concepiamo; nessuna scienza sarebbe potuta nascere in Oriente, dove il pensiero sapienziale e religioso ignora il logos e attribuisce l’origine ed il funzionamento del mondo al caso. Le scienze naturali sono, nella visione cristiana, conoscenza oggettiva e cumulativa della natura. Se nell’atto della Creazione le cose sono venute all’essere adeguandosi al Logos divino (Fiat lux!), inversamente nell’atto del conoscere il logos umano (che è della stessa sostanza di quello divino) si adegua all’essere delle cose. La verità è questa uguaglianza di pensiero ed essere che avviene nella conoscenza umana. La conoscenza scientifica è oggettiva, perché si riferisce alle cose, e cumulativa perché nel progresso scientifico ogni nuova teoria assorbe quelle precedenti. La competizione tra modelli e teorie non avviene tanto in termini di efficienza tecnica, ma piuttosto in termini di ampiezza esplicativa che proprio in quanto portatrice di maggiore e migliore conoscenza produce anche dominio tecnico più efficace. Per es., alla teoria di Newton è succeduta dopo due secoli e mezzo la teoria della relatività generale di Einstein: questa, con un numero ancora minore di eleganti pre-assunzioni, codificate matematicamente in un’equazione tensoriale, oltre che spiegare con una maggiore precisione i fenomeni della gravitazione newtoniana (per es. la precessione di Mercurio), ha fatto nuove predizioni (come l’espansione dell’Universo). E la maggiore conoscenza ha prodotto tra le altre cose, come spin off, la tecnica del gps.

Molti ritengono che l’importanza dell’io e delle sue interpretazioni (categoriali e pulsionali) nella conoscenza della realtà sia nata con Cartesio e sia stata poi sviluppata da Kant, Schopenhauer, Nietzsche, ecc.: che si tratti, insomma, di una scoperta della modernità. Però già Tommaso d’Aquino aveva messo in evidenza il ruolo non meramente passivo della ragione con l’annotazione “cognitum est in cognoscente per modum cognoscentis”, demistificando così l’empirismo ingenuo che considera la nostra mente una tabula rasa disponibile a recepire i dati tali e quali le provengono dall’esperienza. La novità di gran parte della filosofia moderna – l’errore del relativismo filosofico – è di capovolgere il rapporto tra essere e pensiero (dal realismo all’idealismo), di far dipendere la realtà dall’io, di giudicare che tutte le interpretazioni siano equivalenti e che non esista la verità. Nella sua “Volontà di potenza” Nietzsche scrive: Non esistono fatti, esistono solo interpretazioni […] il mondo non ha un senso dietro di sé, ma innumerevoli sensi. Sono i nostri bisogni che interpretano il mondo: i nostri istinti, i loro pro e contro. Ogni istinto è una sorta di avidità di potenza, ognuno ha la sua prospettiva che vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri. […] Il criterio della verità si trova solo nell’aumento della sensazione di accresciuta potenza”. Una volta negata la capacità della ragione umana di cogliere (anche imperfettamente) la realtà, non c’è più distinzione tra scienza e tecnica: le scienze non darebbero conoscenza, ma solo strumentazione utile a dominare la natura. Né tanto meno, secondo tale Weltanschauung, è la filosofia a dare conoscenza, perché la razionalità umana sarebbe solo un epifenomeno di autodifesa di una specie fondata sul carbonio, evoluta per caso in un pianeta minore in orbita intorno ad una stella media di classe G2, che si trova sul bordo esterno di una galassia tipica, che è solo una di un centinaio di miliardi di galassie, di un Universo senza senso, eterno o nato per caso.

“Noi non assegniamo nessun valore di verità alle proposizioni filosofiche”, ripetono a voce alta nel nostro blog i relativisti. La ragione (e la logica, la matematica, tutte le scienze naturali e la filosofia) non direbbero nulla del reale, ma fornirebbero solo schemi utili con i quali attraverso i sensi controlliamo i fenomeni, che del reale inaccessibile sarebbero le costruzioni cerebrali di una specie (probabilmente) tra tante. Molti, anche tra gli scienziati quando filosofano, declinano questa Weltanschauung “idealistica” nelle sue varie sfumature criticista, positivista, esistenzialista, ecc. Se nel metodo scientifico è il rasoio di Occam a selezionare l’interpretazione giusta, al livello filosofico esiste un criterio per scegliere un’interpretazione realistica piuttosto che idealistica? A prescindere dalla rivelazione, abbiamo noi cristiani un motivo forte per affermare l’esistenza della verità intesa come adeguarsi dell’intelletto alla cosa? O siamo gli ultimi mohicani a difesa di una ragione definitivamente screditata in un Occidente nichilista? Tommaso ci ha insegnato che l’avversario è battuto non quando evidenziamo il contrasto delle sue tesi con le nostre, ma se riusciamo a mostrare le contraddizioni del suo discorso con se stesso! Dell’autocontraddizione del relativismo (derivante dalla propria visione naturalistica) si accorse C. Darwin negli ultimi anni della sua vita: “Se io discendo da una scimmia [che è discesa casualmente da un microbo, che è disceso casualmente da una combinazione di atomi], come posso credere a quello che affermo?”, come posso avere fiducia negli studi che ho fatto? Quale valore di verità ha il mio ragionare anche il più sofisticato? Quale validità ha la scienza cui mi appiglio come ultima dea? Insomma, l’autocontraddizione dei relativisti sta nel fatto che la ragione è invincibile perché, per combatterla come fanno ogni volta che filosofano, vi fanno ricorso senza crederci!

Certamente la fiducia cristiana nella ragione non è razionale; tecnicamente, nel linguaggio della logica moderna, essa è meta-razionale: è il pre-giudizio di una Weltanschauung opposta al relativismo. Però, se la fiducia nella ragione è posta assiomaticamente all’inizio, la giustezza della scelta si manifesta nel suo esercizio: mentre usiamo la ragione, aprendoci alla realtà, tutto nella vita acquista coerenza! Comprendiamo che essa ha un senso costante ogni volta che la mettiamo in atto nelle attività lavorative e scientifiche, ma anche nelle più personali, amicali, familiari. Il nichilismo sprofonda invece nell’autocontraddizione: se la verità non esiste, chi siete voi Heidegger, Quine, Severino, che vi chiamate filosofi? Perché dovremmo leggere e credere ai vostri libri? E voi, perché credete a voi stessi anziché ritirarvi nelle conclusioni sconsolate di Darwin? Opposto al nichilismo e ridicolo anche sul piano scientifico è l’errore dello scientismo alla Dawkins o alla Hawking o alla Veronesi che, rispetto alle mistificazioni diffuse nei mass media, non si rende conto che modelli e teorie scientifiche non sono la verità assoluta, ma stadi storici di avvicinamento della ragione umana alla conoscenza della natura, e che la scienza non ha connessione ai valori. Anche solo nel suo ambito, nessuna teoria scientifica, per quanto affascinante teoreticamente e per quante volte controllata sperimentalmente, si può mai considerare assolutamente vera, perché è sempre esposta per statuto del metodo scientifico a lacune ed errori e potenzialmente a clamorose smentite future. Se oggi credessimo ciecamente alla meccanica quantistica o alla teoria di Darwin, non saremmo meno ingenui di coloro che nell’antichità credevano al geocentrismo e alla teoria aristotelica delle sfere celesti o che nel ‘7-800 credevano all’eliocentrismo e alle forze istantanee a distanza della gravitazione di Newton. La fiducia nelle scienze naturali deve costituire per un uomo libero e pensante un habitus in progress, accompagnato sempre da un velo di dubbio, nell’attesa di nuove scoperte da parte di una ragione che è scintilla divina, ma limitata e mai sazia.

Giorgio Masiero


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