L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«In casa del colombiano avevano trovato due pistole, un fucile a canne mozze, un’ascia da macellaio, una sega, un po’ di cocaina, tre telefoni cellulari quasi preistorici e diciannovemila euro in sette mazzette di biglietti spiegazzati, nascosti dentro un contatore della luce. Ma quello che più aveva inquietato Velasco, l’unica cosa che gli aveva mandato le pulsazioni a mille, era una stanza senza finestre, con tutte le pareti, il soffitto e il pavimento foderati di plastica, quella che si usa per coprire i mobili quando si da il bianco. Non c’era un pennello in tutta la casa. La stanza era pulita e completamente vuota, a parte un bidone.
Il bidone era pieno di acido solforico.»»
«Gentili signori
Caroline Gund
Arden Langdon
Adam Gund
Ochos Ríos (Transquaras)
Uruguay
Signori,
mi rivolgo a voi, qual esecutori testamentari della proprietà letteraria di Jules Gund, per chiedervi l’autorizzazione a scrivere una sua autobiografia.
Sono un dottorato dell’Università del Kansas. Sulla base della mia tesi di laurea, intitolata «Ve lo ricordate? Be’, scordatevene: aspetti della dislocazione culturale e dello smembramento linguistico nell’opera di Jules Gund », mi è stata assegnata la borsa di studio Dolores Faye e Bertram Siebert Petrie per gli Studi biografici.»
«Sam dorme. Potrei ucciderlo ora. È voltato dall’altra parte: non sarebbe difficile. Se mi sentisse, forse reagirebbe? Proverebbe a fermarmi? O sarebbe solo contento per la fine di un incubo?
Meglio non pensarci. Devo concentrarmi su ciò che resta di vero e di buono. Però, quando sei prigioniera, i giorni sembrano infiniti e la speranza è la prima a morire. Mi scervello alla ricerca di giorni felici per allontanare i pensieri più cupi, ma sono sempre più faticosi da evocare. Siamo qui da appena dieci giorni (o undici?) e la vita normale pare già lontanissima: quando è successo, stavamo tornando in autostop da Londra dopo un concerto. Diluviava e una processione di automobilisti ci aveva sorpassati senza degnarci di un’occhiata. Eravamo fradici fino al midollo e pronti a gettare la spugna quando finalmente si era fermato un furgone. L’interno era caldo e asciutto. Ci venne offerto del caffè da un thermos. Il profumo bastò a tirarci su di morale. Il gusto si rivelò ancora meglio. Senza saperlo stavamo assaporando la libertà per l’ultima volta.»
«Molte volte, nella mia vita, ho provato la straordinaria sensazione che il mio "io" si sdoppiasse, che altri esseri vivessero o fossero vissuti in lui, in altre epoche o in altri luoghi. Non stupirti, mio futuro lettore; ma indaga nella tua stessa coscienza. Ritorna indietro con il tuo pensiero, ai giorni in cui il tuo corpo e il tuo spirito non erano ancora cristallizzati; in cui, materia plasmabile, anima fluttuante come le onde in movimento, avvertivi appena, nel ribollire del tuo essere, il formarsi della tua identità.
Allora, leggendo queste righe, forse ricorderai delle cose dimenticate, delle visioni incerte e nebulose, che passarono davanti ai tuoi occhi di bambino e che, oggi, non ti sembrano che sogni irreali, un parto della fantasia, e che ti fanno sorridere.
Eppure, in queste lontane visioni del tuo essere, non tutto era sogno. Quando, da bambino, ti sembrava, durante il sonno, di precipitare nel vuoto da altezze infinite; quando credevi di volare, oppure osservavi con orrore, intorno ai tuoi piedi immersi nel fango, arrampicarsi migliaia di ragni odiosi e ripugnanti; quando davanti ai tuoi occhi si libravano forme sconosciute, degli incubi, e vedevi sorgere e tramontare degli strani soli di un altro mondo; tutto questo, forse, non era una proiezione della tua fantasia febbrile e innocente.
Sai tu, da dove provenissero queste conturbanti immagini, e se non avessero origine in altre vite anteriori, da te vissute in altri mondi? Forse, quando avrai ultimato queste pagine, ti sarai fatta un'idea più precisa su tutti questi sconcertanti problemi che, senza dubbio, ti hanno lasciato finora perplesso, irritato.
In verità, la cortina invisibile della nostra nuova prigione ci avvolge fin dalla nascita, e subito dimentichiamo il passato. E quando, a volte, esso si ripresenta mentre siamo ancora in braccio alla madre o camminiamo carponi sul pavimento domestico, questo ricordo ancestrale ci procura soltanto un vago senso di paura...»
«Quando cresci in un posto, soprattutto se la tua è una bella infanzia, non ti accorgi di un sacco di brutte cose che si trascinano sotto la superficie e che si contorcono come vermi su un pezzo di carne marcia. Però ci sono. A volte, devi scavare in profondità per scoprirle, oppure devi girare la testa dalla parte giusta per vederle. Ma ci sono, puoi starne certo, e ti sfilano accanto, strisciando. E quello che striscia può includere ricatti, mutilazioni e omicidi. E posso garantirvi che è vero.
Ma il giorno in cui feci ritorno in paese, non notai alcuna traccia di niente che si agitasse sotto la superficie o di qualunque altra cosa che, a eccezione della mia testa, desse la sensazione di essere fortemente agitata. Ero reduce da una sbornia terribile ed era come se qualcuno avesse preso la mia testa in prestito per giocarci a bowling. Mentre attraversavo Camp Rapture, dopo aver superato i binari della ferrovia e la fabbrica di cibo per cani, mi dissi che non avrei mai più toccato una goccia di alcol. Mi ripetevo la stessa cosa ogni volta che mangiavo troppo e mi faceva male lo stomaco. Mai più.»
«Lloyd si scrolla di dosso le coperte e si precipita verso l'ingresso in mutande bianche e calze nere. Si appoggia al pomello e chiude gli occhi. Da sotto la porta filtra aria gelida; Lloyd arriccia le dita dei piedi. Ma nel corridoio regna il silenzio. SUl pavimento del piano di sopra solo lo scalpiccio dei tacchi alti. Una finestra che cigola dal lato opposto del cortile. Il soffio dell'aria che entra nelle narici, che esce.
Una voce di donna giunge debolmente fino a lui. Strizza più forte le palpebre, come per alzare il volume, ma riesce a cogliere solo mormorii, un dialogo a colazione tra la donna e l'uomo nell'appartamento dell'altro lato del pianerottolo. Finché la loro porta si apre di colpo, la voce della donna cresce di intensità, le assi del pavimento del corridoio scricchiolano. La donna si sta avvicinando, Lloyd retrocede rapidamente, apre la finestra che da sul cortile e vi prende posizione, posando lo sguardo sul suo angolo di Parigi.
La donna bussa alla sua porta.»
«"Quando penso a mia moglie, penso sempre alla sua testa. Alla forma che ha, per cominciare. La prima volta che l’ho vista, è stata la sua nuca che ho notato, e nelle sue curve c’era qualcosa d’incantevole. Come un chicco di mais, duro e lucente, o un fossile nel greto di un fiume. La sua è quella che i vittoriani definirebbero una testa dalle proporzioni squisite, che lascia intuire la forma del cranio.
La riconoscerei ovunque, quella testa.
E ciò che contiene. Penso anche a quello: la sua mente. Il suo cervello, con tutte quelle circonvoluzioni, e i suoi pensieri che vi fanno avanti e indietro rapidi e frenetici come scolopendre. Con la curiosità di un bambino, m’immagino di aprirle il cranio, srotolarle il cervello e frugarci dentro, per catturare i suoi pensieri. A cosa pensi, Amy? La domanda che ho fatto più spesso durante il nostro matrimonio, magari non ad alta voce, magari non alla persona che avrebbe potuto rispondermi. Suppongo che domande simili incombano come nuvole nere su ogni matrimonio: A cosa pensi? Come ti senti? Chi sei veramente? Che cosa ci siamo fatti? Cosa faremo?"»
È il vampiro Lestat che parla. Sapete già chi sono? In tal caso saltate i prossimi paragrafi. Voglio che per coloro che ancora non ho conosciuto questo sia amore a prima vista.
Eccomi: il vostro eroe per la durata del romanzo, una perfetta imitazione di maschio anglosassone biondo, con gli occhi azzurri e alto più di un metro e ottanta. Un vampiro, e uno dei più forti che mai possiate incontrare. Le mie zanne sono troppo piccole per poter essere notate, a meno che io non lo desideri; ma sono affilatissime e io non resisto per più di qualche ora senza desiderare sangue umano.
Naturalmente, non ne ho bisogno poi così spesso. E non so di preciso con quanta frequenza mi serve perché non l’ho mai sperimentato.
Sono mostruosamente forte. Posso volare. Riesco a sentir parlare la gente al capo opposto della città o addirittura del globo. So leggere nel pensiero; posso vincolare con incantesimi.
Sono immortale. Praticamente, sono senza età sin dal 1789»
Le nuvole riempirono il cielo fino a che cominciò a cadere una pioggia pesante. Neanche una briciola di azzurro. Il vento scuoteva gli alberi e gli uomini seminudi rabbrividivano. Gocce d'acqua cadevano dalle foglie e scivolavano sugli uomini, Solo i muli parevano non accorgersi della pioggia. Masticavano l'erba che cresceva davanti al magazzino. Nonostante il temporale gli uomini continuavano a lavorare, Colodino chiese:
- Quante arrobas hai scaricato?
- Ventimila.
Antonio Barriguinha, il mulattiere, prese l'ultimo sacco:
- Quest'anno il padrone ne fa ottantamila...
- Cacao a palate!
- Soldi a palate...
Slegarono i muli e Barriguinha li incitò:
- Andiamo, branco di lazzaroni...
Gli animali si mossero controvoglia. Antonio Barriguinha li frustava:
- Mulo della miseria... Carbonato, diamine, cammina...
Davanti agli altri la mula guida, la madrina del branco, faceva tintinnare i sonagli. La pioggia cadeva, un acquazzone torrenziale. La casa del coronel aveva le finestre chiuse. Honorio, che tornava dai campi, si burlava di Barriguinha:
- Heilà, moglie del mulattiere!»