Quel che resta del secondo plotone sonnecchia in una trincea distrutta dai proiettili dietro il fronte.
«Che ridicole granate» dice Jupp all’improvviso.
«Cosa intendi?” domanda Ferdinand Kosole mettendosi a sedere.
«Prova ad ascoltare» risponde Jupp.
Kosole mette una mano all’orecchio e ascolta. Anche noi ci sforziamo di sentire rumori nella notte. Ma non ci arriva altro che il rombo sordo dell’artiglieria e il sibilo acuto delle granate. Da destra di quando in quando esplode anche lo scoppiettìo delle mitragliatrici e ogni tanto un grido. Ma tutto questo lo conosciamo da anni e non merita che si apra la bocca apposta.
…
Ne La via del ritorno si racconta il disorientamento dei soldati, il loro dramma di uomini lacerati e con l’animo a pezzi, reduci incapaci di reinserirsi nella società.
La guerra, anche se è finita, rimane dentro mentre la pace resta fuori. Le esperienze e i ricordi della guerra hanno lasciato un segno profondo e sconvolgente. La guerra non restituisce eroi tutti d’un pezzo ma uomini vinti dagli orrori che hanno dovuto affrontare.
Ci si domanda, leggendo, se davvero la beatitudine esiste in ogni alba e nell’essere vivi e quali siano davvero le cose che formano un uomo nella sua vita e quali quelle che distruggono lui, i suoi affetti, la sua famiglia…
C’è uno stralcio simbolico che vorrei riportare integralmente.
La mattina dopo ci troviamo per l’ultima volta al fronte. Non si spara quasi più. La guerra e finita. Entro un’ora dovremo andarcene. Non sarà necessario tornare qui, mai più. Quando ce ne andremo, ce ne andremo per sempre. Facciamo a pezzi tutto quello che si può fare a pezzi. Ben poco. Un paio di rifugi sotterranei. Poi arriva l’ordine di ritirarci.
É un momento particolare. Stiamo in piedi, uno vicino all’altro, e guardiamo davanti a noi. Leggeri banchi di nebbia ricoprono il terreno. Le linee delle buche e delle trincee si riconoscono chiaramente. Certo, sono soltanto le ultime linee, questa zona rientra nelle posizioni di riserva, ma è pur sempre zona di combattimento. Quante volte abbiamo proceduto lungo queste trincee! Quante volte le abbiamo attraversate ritornando in pochi! Davanti a noi si stende il paesaggio uniforme e grigio… Laggiù in fondo i resti del boschetto, un paio di ceppi, le rovine del villaggio, e lì in mezzo un alto muro solitario che è riuscito a rimanere in piedi.
«Be’» dice Bethke soprappensiero, «qui siamo stati per quattro anni…»
«Accidenti!» concorda Kosole. «E adesso è finita»
«Oh, Dio mio!» Willy Homeyer si appoggia al parapetto. «Ridicolo, non è vero?…»
Stiamo li con gli sguardi imbambolati. L’orizzonte, i resti del bosco, le colline, le linee in distanza, tutto ciò era un mondo terribile e una vita difficile. E adesso rimane lì, non appena ci incamminiamo, sprofonda a ogni passo dietro di noi e tra un’ora sarà scomparso, come se non ci fosse mai stato. Chi può mai capirlo!
…
ERICH MARIA REMARQUE, La via del ritorno, traduzione dal tedesco di Chiara Ujka, Neri Pozza editore 2014.