Lei le anime dei morti le vedeva da sempre. A invocarle glielo aveva insegnato la nonna, pur senza saperlo. Antonia, la madre di sua madre lo faceva su richiesta, quando qualche donna perdeva un figlio, o quando un marito perdeva una moglie. La cercavano disperati, rossi in volto e gonfi nel cuore, con le lacrime che bagnavano le guance e lavavano via ogni ritegno. Allora Antonia li portava in giardino, quello interno, che si affacciava sulla montagna e sul niente più desolato e davanti allo sguardo curioso di qualche pecora e di qualche gallina lei i morti li richiamava per davvero. Si stringeva lo scialletto frangiato sulle spalle, nero come il legno bruciato, perché i morti le mettevano un freddo gelido nelle ossa, e iniziava a recitare una preghiera fatta di parole fitte fitte e di gesti rapidi e imprecisi. Obbligava il familiare del morto a chiudere gli occhi e lei pure gli occhi li teneva chiusi, perché quelle anime disgraziate ti potevano colare dentro direttamente dalla pupilla, che era una delle porte che conducevano senza mediazioni al cuore.
Lei invece gli occhi li aveva sempre tenuti aperti, spiando la nonna e i suoi clienti che la ripagavano, concluso l’incontro, con grandi abbracci e forti promesse: un incontro non bastava mai. Alcuni tornavano per due, cinque, dieci volte, fintanto che Antonia non li mandava via, urlandogli contro che la vita era dei vivi, di imparare a vivere. Ogni volta che aveva potuto Annita aveva spiato la nonna, assorbendo ogni particolare, ogni parola, ogni gesto fin quando un giorno un morto s’era accorto di lei. L’aveva guardata intensamente, con quelle pupille vuote e morte e in pochi passi l’aveva raggiunta, aggomitolata tra lo stipite e la porta, piccola e flessibile come fatta di giunco. Il sangue le si era gelato in corpo e lui, il morto, le aveva sussurrato “Macca sesi? O scimpra?”. Matta sei? O sciocca solamente?
Annita sentiva le sue labbra sigillate, come chiuse con la cera, e gli occhi, quelli grandi e color delle mandorle secche sentiva di non poterli più chiudere. Era stato doloroso pronunciare le prime parole, poi quella nenia che aveva sentito ripetere mille volte al padre, quando percepiva qualche rumore poco convincente le era scivolata fuori dalla bocca, come acqua fresca “Si sesi umbra de biu, bai camminu camminu, si sesi umbra de mottu, torra de andi sesi benniu, si sesi mali fattu torra chi dd’a fattu[1]”. E quella aveva indietreggiato, ma pur tornato accanto ad Antonia continuava a guardarla, quasi che avesse ancora qualcosa da dirle. Sussurrò invece qualche parola alla nonna che quel giorno, per la prima e l’ultima volta, aprì gli occhi durante una invocazione. “Mi da pigu” me la prendo, le aveva detto sottovoce, riferendosi alla bambina accovacciata contro quella porta laccata di cielo. “Mi da pigu”.
Antonia gli aveva ficcato gli occhi contro, di fuoco e ferro e gli aveva sputato addosso unu brebu tanto potente che l’anima era evaporata via, come sabbia di mare soffiata da una raffica di maestrale.
“Bairindi, bairindi”, vattene, vattene, aveva urlato a Zio Michele che chiedeva spiegazioni per la brusca interruzione. “Antonia non mi hai detto dove si trova quel tesoro, che ti ha detto Nannigheddu?”
“Bairindi, Bairindi… e no torrisi mai prusu[2]”.
Poi aveva trascinato la nipote lontano da tutti quelli che avrebbero potuto ascoltare quel che le due avevano da dirsi, l’aveva cosparsa di puzzo di palme bruciate, denso e soffocante e l’aveva obbligata a bere quella cenere che le si era incastrata in gola provocandole pesanti conati di vomito.
I morti ora anche lei li invocava su richiesta. Adesso sì che chiudeva gli occhi, che di quel morto, invocato molti anni prima dalla nonna per trovare un tesoro, non si era mai veramente liberata. Antonia le aveva insegnato il modo per ignorarlo, ma quell’anima l’aveva seguita per lunghissimi anni a causa di quella promessa fatta alla vecchia molti anni prima, di volersela prendere quella bambina lunga e secca come un pezzo di sughero abbandonato al sole, ma dagli occhi umidi di terra e acqua.
Da che si era sposata tutto le sembrava diverso, pure il cielo e il mare. Avevano acquistato, lei e il marito, una casa poco distante dal centro del paese: nessuno la voleva, che quella casa faceva paura. Ma Annita non temeva quel che si raccontava di Nannigheddu, trovato morto poco distante dal mare, con gli occhi sbarrati dalla paura e le labbra secche e rancide, coperte da una schiumetta che pareva di acqua che bolle. In paese si raccontava che avesse trovato il tesoro di Tzia Zizza, e che quella per punirlo gli avesse fatto prendere un’azzicchiru[3] troppo pesante per il suo cuore.
Ad Annita pure piacevano i tesori: era da quel giorno che li cercava, da quando quel morto le era entrato dentro, penetrando dalla pupilla di lei, nera e fine come ciuffo d’erba. I tesori erano la sua malattia e a poco erano valsi i consigli di Antonia, di non cercarli, che erano custoditi da su Tiaulu, il demonio, ad Annita non importava. Lei sapeva come tenerlo a bada, lei conosceva is brebus.
Nelle sue ricerche era Nannigheddu, il morto, a guidarla. “Annita, beni, beni…” Annita, vieni vieni, l’aveva svegliata una notte ancora bambina. E lei lo aveva seguito silenziosa, senza che né la madre, né il padre sospettassero di nulla. E il morto l’aveva portata fino all’orlo di un piccolo burrone, incantandola con il profumo di giglio di mare e l’aveva spinta oltre. Lei era precipitata come piccola pietra, pesante e senza vita. Era stato un cespuglio di murdegu[4] rinsecchito dal sole, ma vivo sotto la terra a salvarle la vita. Quando si era svegliata aveva sentito in bocca il dolce del sangue, il salato della sabbia e il profumo del mare. Aveva pianto di paura e di dolore giurando che mai più avrebbe dato retta a un morto. Nannigheddu non le apparve più. Nemmeno ora che viveva nella sua casa e che fra le foto di famiglia, sulla cassapanca all’ingresso della casa, aveva una sua foto, magro e nero come un pezzo di carbone, con quel naso grosso ben nascosto sotto l’ombra della berretta. Gli occhi luccicavano anche in foto, neri di notte e segreti, e quelle labbra fini e lunghe ridevano, ridevano di lei.
Durante i lavori per ristrutturare la casa, senza che nessuno se ne accorgesse, Annita aveva cercato il tesoro di Nannigheddu. D’altronde i morti i tesori li nascondevano sempre nei soliti posti: o sotto gli alberi, o sotto qualche tegola, o sotto qualche trave.
Una notte d’estate, svegliata dal caldo e dall’intenso profumo di gelsomino selvatico e limone maturo, Annita aveva visto una donna. Aveva aperto il frigo, preso dell’acqua e sbadigliato pesantemente. Di rientro in stanza, sdraiandosi accanto a suo marito aveva sentito uno strano soffio d’inverno irrigidirle la pelle e drizzarle i peli fitti e fini che le imbiondivano le braccia. Le aveva accarezzate con i suoi palmi caldi e morbidi, chiudendo gli occhi, intorpidita dal sonno e da quel profumo d’oriente che faceva dell’isola un ricordo di fiaba.
A risvegliarla era stato un peso, leggero ma consistente che s’era accomodato all’altezza dei sui piedi nel letto. In principio aveva ritenuto si trattasse del suo gatto, ma non sentendone i passi, leggeri ed eleganti che avrebbero condotto il felino proprio fra i due coniugi, Annita aprì gli occhi.
Sentiva la risacca in sottofondo, e i primi accenni di maestrale, che discutendo con lo scirocco di lì a qualche ora avrebbe cacciato via il vento caldo. Il profumo di sale la raggiungeva anche lì, anche ora che il cuore le si fermava in petto, e le gambe le sentiva di marmo, pesanti e morte.
Poi in una frustata di vita il cuore aveva pompato pesantemente sangue verso tutto il corpo, schizzandolo negli occhi, nelle mani, nei piedi e lei, Annita, s’era alzata di scatto, con un brutto presagio negli occhi.
Come in una danza ben nota il medio della mano destra aveva toccato prima la fronte, poi la vallata fra i seni, e una dopo l’altra la spalla sinistra e quella destra. Aveva poi baciato pollice e indice della medesima mano, congiunti come due innamorati e aveva atteso che quella sparisse. La morta le dava le spalle e il suo abbigliamento le ricordava Antonia, sua nonna. Aveva un morbido e fitto fazzoletto che le copriva i capelli e uno scialletto frangiato, buio come gli angoli più nascosti di quelle grotte che bucavano il monte, poco distante da casa sua.
L’alba già si intravedeva dalla finestra della sua camera da letto, e quella luce regalava un non so che di magico e irreale alla scena fatta di penombra e respiri pesanti del marito che dormiva.
Quando la morta si era girata Annita aveva sospirato tanto pesantemente da svegliare Fabio. Più che di sospiro s’era trattato di un urlo soffocato, incastrato fra le dita della mano che lei aveva prontamente piantato sulla bocca.
“Che succede?” le aveva chiesto.
“L’hai vista?” aveva replicato.
“A chi?” e la conversazione era morta così, con lui che le consigliava di riprendere a dormire, che la giornata sarebbe stata di quelle piuttosto pesanti.
Ma lei quegli occhi di nuvola grigia non li poteva dimenticare, velati come da una patina di morte, e quelle labbra secche pronte alla parola, raggrinzite e fini leggermente schiuse ce le aveva stampate nella memoria, con quella mano vecchia che le accarezzava il piede, come per coccolarla.
La mattina seguente gli operai arrivarono puntuali: Annita con un tremendo mal di testa aveva offerto loro un caffè e ora osservava, dalla finestra della cucina le ruspe che scavavano quel lenzuolo di terra poco distante dal pozzo. Era felice che il maestrale fosse riuscito ad entrare, e ora era bello, morbido e poco tagliente, e portava con sé il fresco di fine estate che profumava di fichi e cachi.
“Dus deppisi firmai”.
Proprio come la notte precedente aveva aspirato l’aria come se da tempo ne mancasse nei polmoni e s’era voltata. Quella vecchia, la morta, con la testa china verso il pavimento era accovacciata sul grande sedile di marmo che circondava il grande caminetto. Le ginocchia ben strette, così si sarebbe detto osservando la piega presa dalla donna, rivolte verso sinistra, le mani congiunte sul grembo e il capo invisibile, buttato contro il pavimento.
“Chi sei?”
“Li devi fermare. Lì quei pazzi non devono scavare”.
“Chi sei ti ho chiesto”.
Lei sapeva trattare con i morti. Ci voleva polso, ci voleva forza, quel che davvero non serviva era la paura.
“Sono Tzia Zizza, la padrona di questa casa”.
“Tu non sei più la padrona di niente”.
“Bolisi biri…” Vuoi vedere? La minacciò.
E Annita la mandò via lanciandole contro qualche parola e del sale.
Un’Aulin placò un poco quel mal di testa che dalla notte precedente la faceva sentir stanca e nervosa e con un pretesto mandò via gli operai. “Quel rumore mi infastidisce, mi scoppia la testa”, disse al marito che senza replicare assecondò il desiderio.
Dopo le sette di sera, quando il sole iniziava a sparire dietro il mare, naufragando romanticamente, acceso di fuoco tiepido e passione fremente Annita uscì a perlustrare la zona. C’era nell’aria il profumo coinvolgente dei gigli selvatici che spuntavano fuori dalla sabbia morbidi e bianchi di marmo e neve. Le ricordavano di quando da bambina ne impigliava qualcuno fra i capelli, per salutare la Madonnina che ogni anno, in agosto, solcava i mari di quella costa lunga e miracolosamente selvatica. Anche da lì, a pochi passi dal pozzo, vedeva il mare, lievemente increspato, di un blu spento e denso, impenetrabile.
La malattia, quella che da bambina le rimescolava il sangue nelle vene, le faceva ora battere il cuore di entusiasmo. In paese si raccontava che Tzia Zizza avesse trovato, moltissimi anni prima un tesoro che non aveva mai mostrato a nessuno, custodito in attesa del ritorno del figlio dalla guerra. Ma lui era morto oltre mare, e lei aspettandolo. Qualcuno raccontava che la vecchia quel tesoro lo avesse nascosto nelle grotte, poco distanti da casa sua, là dove era stato ritrovato Nannigheddu, ma Annita ora sapeva perfettamente dove avrebbe trovato su scusorgiu[5], a pochi passi dal pozzo.
“Sesi scira” sei furba, le disse la morta, comparendole alle spalle, seduta nella medesima posizione di sempre, adagiata su un masso di un bianco accecante.
“Ancora qui sei?” le risposte Annita che in cuor suo attendeva la comparsa della morta.
“E dove dovrei essere. Questa è casa mia e quello che cerchi è il mio tesoro. Non lo devi toccare… a meno che…”
“A meno che cosa?”
Le chiese presa da una curiosità invincibile, a meno che cosa? Si ripeté mentalmente.
“A meno che tu non sia in grado di custodirlo!” disse infine, silenziosa e solenne la vecchia che non le mostrava gli occhi, né il volto, piegato com’era a guardare il terreno, quasi che avesse qualcosa da nascondere.
“E’ sepolto qui?” le chiese lei, che voleva condurre il gioco.
“Promettimi che lo custodirai Annita, e io lo regalerò a te!”
Si accordarono per incontrarsi lì, in quel medesimo punto quella stessa notte. Annita quella sera non riuscì a cenare: guardò il mare per tutto l’imbrunire, tenendosi compagnia con il profumo di gelsomini e l’umido marino che le rinfrescava il cuore.
Si versò un bicchiere di vino rosso che fino a qualche minuto prima era stato custodito in cantina e puntò gli occhi contro l’orizzonte; era lontano e vago e confondeva oggi la donna come ieri aveva confuso la bambina, colorato d’indaco chiaro e brillante, come se lì, lontano dagli uomini, il sole ancora festeggiasse.
“Non vieni a letto?”
“Mi gusto ancora un po’ di fresco. Ti raggiungo a breve. Ti amo”, gli disse, baciandolo con le labbra tremule e indecise. Era preoccupata quella notte Annita. Chiuse gli occhi. Il vino le infuse un piacevole senso di caldo benessere, di profumato riposo, di delizioso relax. Dei morti lei non si fidava, sapeva bene che mentivano, sapeva bene che si divertivano a prendersi gioco di chi rimaneva. La videmortos[6] ebbe l’intenso desiderio di richiamare sua nonna, Antonia, ma quella promessa, fatta molti anni prima, a pochi attimi dalla morte della vecchia, glielo impediva.
“Non cercarmi Annita, non tentar di richiamarmi mai. La vita è dei vivi, è male quando la morte si intromette nei fatti della vita. Non richiamarmi mai, promettilo”. E lei aveva fatto di sì con la testa. “Te lo prometto Antonia. Hai la mia parola”.
Il profumo di mentuccia selvatica portato da chissà quale angolo di terra le fece immaginare che Antonia le fosse accanto. Si voltò pure a cercarla, ma non trovò gli occhi di fuoco e ferro di quella vecchia forte e rispettosa della vita. Ad Annita Antonia mancò intensamente.
Il bianco loggiato la accoglieva come un nido di legno, caldo e cigolante, rassicurante e silenzioso. In lontananza sentiva il mare e a occhi chiusi immaginava la risacca, spumante e forte, battere contro la sabbia, scavandola e massaggiandola. Era come se li sentisse i piedi, accaldati e gonfi, passeggiare fra il mare e la terra, sprofondare nella sabbia, godere del contatto fresco.
I piedi quella morta non ce li aveva: lo aveva notato subito Annita. Le era sempre apparsa seduta, accovacciata, e da sotto la gonna di piedi non ce n’erano. Lei lo sapeva benissimo che Tzia Zizza non era una morta qualsiasi. Solo su Tiaulu non aveva piedi e con su Tiaulu non ci si doveva scherzare. Ma il desiderio di quel tesoro era più forte del buon senso.
Ripassò mentalmente i brebus che Antonia tanto tempo prima le aveva insegnato e si incamminò verso il pozzo, qualche ora prima rispetto all’appuntamento fissato per dopo la mezzanotte. Si raccontava che i morti potessero comparire solo dopo la mezzanotte e dopo il mezzogiorno, ma lei aveva visto sua nonna invocarli durante qualsiasi ora. Pazienza, sarebbe stata in grado di cacciarlo via su Tiaulu, qualora l’avesse scoperta. D’altronde lei quel tesoro nemmeno lo voleva, aveva solo l’incontrollabile desiderio di scoprire in cosa consistesse, voleva sapere per cosa, molti anni prima, Nannigheddu era morto. Poi l’avrebbe nascosto di nuovo e se ne sarebbe dimenticata, ma ora… ora doveva trovarlo. Doveva farlo.
Iniziò a scavare a caso, creando un piccolo cerchio intorno al pozzo. Si vedeva il mare da lì, e la luna che faceva d’argento gli spicchi d’acqua in movimento. L’umido lì aveva un profumo, di salsedine e fiori, di notte e mistero. Quando la vanga impattò con qualcosa di duro, come di legno vecchio, gli occhi di Annita brillarono, le narici si dilatarono e le iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore, eccitata come una bambina.
“Sesi macca o scimpra?”
Il sangue smise di correre. Ce l’aveva alle spalle, aveva gli occhi bianchi, come velati di morte e le labbra secche e fini, il naso spigoloso e un alito che sapeva di pesce e fogna.
Su Tiaulu le entrò nel cuore passando direttamente dagli occhi. Lei provò a recitare su brebu che un tempo fu del padre, ma sbagliò la formula e la vecchia cominciò a ridere, con una gonna plissettata e stretta sulla vita, e il busto avvolto in uno scialle nero, come di silenzio e notte.
Il marito la ritrovò la mattina seguente, accasciata a terra, con gli occhi spalancati e la bocca secca coperta da una schiumetta che pareva di acqua che bolle. In mano stringeva un pezzo di carbone e in paese qualcuno disse che ad ucciderla era stata Tzia Zizza che ancora custodiva il tesoro per suo figlio, morto oltre mare.
[1] “Se sei ombra di vivo, allontanati per il tuo cammino, se sei ombra di morto torna velocemente da dove sei venuto, se sei male fatto, torna da chi ti ha fatto”.
[2] Vattene e non tornare mai più!
[3] Uno spavento.
[4] Cisto.
[5] Il tesoro.
[6] Persone che, secondo la tradizione sarda, erano in grado di richiamare i morti nel mondo dei vivi.